La nozione di profitto nei reati tributari e la legittimità o meno della confisca sui beni dell'amministratore
18 Novembre 2016
Massima
In caso di mancato versamento dell'Iva, la somma non versata va sequestrata direttamente presso la società a cui è imputabile l'irregolarità tributaria. Non è invece aggredibile attraverso il sequestro per equivalente il patrimonio personale all'amministratore della società. Il caso
La pronuncia in esame trae origine dall'accoglimento del ricorso di M. Z., presidente della società Palermo Calcio (Società U.S. Città di Palermo), contro il quale proponeva appello la procura e, a seguito del quale, era stata disposta la restituzione dei beni a lui sequestrati per il reato di omesso versamento dell'Iva, disponendo, viceversa, il sequestro di beni appartenenti alla società stessa. Gli Ermellini hanno infatti sottolineato la correttezza dell'ordinanza impugnata, in considerazione del fatto che la confisca per equivalente dei beni della società non può basarsi sulla circostanza che l'autore del reato abbia la disponibilità di tali cose in quanto amministratore, essendo tale disponibilità nell'interesse della società e non della persona fisica. La questione
I giudici della suprema Corte affrontano la problematica connessa alla possibilità o meno di disporre un decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca nei confronti dell'indagato senza che venga previamente verificata, sia pure sommariamente, la possibilità di procedere al sequestro diretto nei confronti della società di cui il destinatario del sequestro risulti essere amministratore. Le soluzioni giuridiche
I giudici di legittimità nella pronuncia in esame tornano ancora una volta sul tema della confisca per equivalente nella materia dei reati tributari, ribadendo come la nozione di profitto in materia di illeciti tributari non sempre finisca per risolversi in un facere. Al contrario, nella maggior parte dei casi viene a configurarsi come un'omissione (legata appunto al mancato versamento dell'Iva): conseguentemente, il profitto finisce per essere costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente collegato alla consumazione del reato e, quindi, anche da un risparmio di spesa. Solo qualora non sia possibile disporre la confisca di denaro si procederà con la confisca per equivalente degli altri beni di cui dispone l'imputato per un valore corrispondente a quello del profitto del reato. Osservazioni
La pronuncia in esame ha l'indubbio pregio di soffermarsi con estrema lucidità su due aspetti cruciali tipici della materia dei reati tributari: viene anzitutto tracciata una chiara distinzione tra la confisca diretta del profitto di reato e la confisca per equivalente e, in secondo luogo, viene fornita una esaustiva definizione del concetto di profitto in tema di illeciti tributari. In via generale può dirsi che la confisca rappresenta uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico che risulta alterato a seguito della commissione di un reato (c.d. reato presupposto) e il cui effetto principale consiste nel far conseguire un vantaggio al reo: senza di esso, infatti, si finirebbe per ottenere (seppur inconsapevolmente) un profitto che risulterebbe di carattere criminoso per sua stessa natura (così Cass.pen., Sez. unite, 27 marzo 2008, n. 26654). Tornando ora alla distinzione tra i due tipi di confisca, la confisca diretta trova il suo fondamento normativo nell'art. 240 c.p. e costituisce in via generale uno strumento facoltativo (è, infatti, obbligatoria per alcuni reati come prevede l'art. 322-ter c.p.). Il suo oggetto è costituito dal profitto del reato, ovverosia il guadagno o il vantaggio economico che si trae dalla commissione dell'illecito penale, sia esso di natura diretta che indiretta. La confisca per equivalente (anche detta confisca di valore), invece, è un istituto che è stato introdotto nel nostro ordinamento con la legge 29 settembre 2000n. 300 in materia di reati contro la pubblica amministrazione ed è disciplinata dall'art. 322-ter c.p.: a mente di tale disposizione è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. In altri termini, oggetto della confisca per equivalente sono somme di denaro, beni o altre utilità di cui l'agente ha la disponibilità per un valore che corrisponde al profitto del reato e trova applicazione in tutti quei casi in cui non può operare la confisca diretta. La nozione di equivalenza, com'è evidente, viene stabilita dalla stessa autorità giudiziaria, dandone atto nella motivazione del provvedimento adottato. L'art. 1, comma 143, della l. 24 dicembre 2007 n. 244 (Finanziaria 2008) ha successivamente esteso questo secondo tipo di confisca alla materia dei reati tributari, disponendo che nei casi di cui agli articoli 2,3,4,5,8,10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 d. lgs. 10 marzo 2000 n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all'art. 322-ter c.p. Peraltro, la citata norma richiama tutti i reati tributari, ad eccezione di quello di cui all'art. 10 (Occultamento o distruzione di documenti contabili), in ragione della sua particolare struttura che lo differenzia dagli altri. Occorre peraltro evidenziare che trattasi di confisca obbligatoria, come reso ben evidente anche dalla formulazione letterale della disposizione stessa (è sempre ordinata la confisca). La decisione in esame si innesta in un filone giurisprudenziale ormai consolidato (a far data dalla nota sentenza Gubert delle Sezioni unite del 30 gennaio 2014, n. 10561), il quale risulta ormai costante nel ritenere che, in materia di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente possa essere disposto anche per il profitto del reato. In materia di reati tributari è, infatti, pacifica l'affermazione secondo cui l'illiceità non connota la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione. In altre parole, il concetto di profitto deve essere inteso come qualsiasi vantaggio di natura patrimoniale proveniente dalla consumazione del reato, derivante anche dal cosiddetto risparmio di spesa a seguito del mancato versamento di un tributo, così come già sottolineato anche dalle Sezioni unite della Cassazione (Cass. pen., Sez. unite, 23 aprile 2013, n. 25034). Per gli Ermellini il profitto può, difatti, essere rappresentato dal vantaggio patrimoniale direttamente conseguente alla consumazione del reato e, quindi, può essere costituito anche dal risparmio di spesa derivante dal mancato versamento del tributo, degli interessi e delle sanzioni dovuti a seguito dell'accertamento del debito tributario. Del resto, è evidente che nella maggior parte dei casi il profitto del reato si concretizza mediante il mancato pagamento dell'imposta dovuta e, pertanto, tramite un risparmio di spesa che si traduce non in un miglioramento della situazione patrimoniale, quanto, piuttosto, in un mancato decremento patrimoniale. In altri termini, sottolineano i supremi Giudici nella sentenza in esame, il profitto non sempre consiste in un facere, poiché in certe situazioni, come appunto il caso del mancato versamento dell'Iva, può configurarsi anche sotto forma di un comportamento omissivo. Il profitto allora, anche nella forma della confisca per equivalente, è rappresentato da un qualsiasi vantaggio patrimoniale avente diretta origine dalla consumazione del reato: esso, dunque, soprattutto in materia di reati tributari, può anche consistere in un risparmio di spesa. La Cassazione si spinge anche oltre: viene infatti affermato come la nozione di profitto finalizzato alla confisca ricomprende in sé qualsivoglia utilità che sia conseguenza diretta o indiretta dell'attività criminosa. Non rileva, pertanto, nemmeno una eventuale “trasformazione” che possa aver subito il profitto del reato, come, ad esempio, da denaro ad un altro tipo di bene, in quanto tale misura potrà applicarsi sul bene in cui il denaro è stato convertito. La confisca per equivalente in ambito tributario può inoltre applicarsi anche nel caso in cui i beni costituenti il profitto diretto del reato presso la società non possono essere sequestrati neppure in via transitoria, o quando gli stessi non sono aggredibili, sempre che la motivazione che dispone il sequestro dia conto di tale impossibilità (in tal senso, Cass. pen., Sez. III, sent. 13 ottobre 2015, n. 41072) In conclusione, qualora venga a integrarsi la fattispecie penale di cui all'art. 10-ter del d. lgs. 74/2000, lo Stato dovrà procedere al sequestro dei beni della società e solo successivamente, in caso di infruttuosa azione nei confronti della persona giuridica per insufficiente disponibilità di beni, potrà procedere al sequestro nei conforti dell'amministratore persona fisica. |