Criteri motivazionali del Gip: tra autonoma valutazione, motivazione per relationem e “copia e incolla”

Maria Hilda Schettino
15 Maggio 2017

Il provvedimento in analisi affronta il tema degli obblighi motivazionali che gravano sul giudice a seguito di una richiesta di misura cautelare. È appena il caso di avvertire che si tratta di un tema tanto ricorrente nella giurisprudenza di merito e di legittimità, quanto delicato perché incide in maniera diretta sull'inviolabilità della libertà personale costituzionalmente garantita.
Massima

Il segno dell'autonomia del giudice della cautela, pur a fronte di un provvedimento coercitivo che si sostanzi nel richiamo della richiesta del pubblico ministero, deve ricercarsi nel momento della valutazione e sussunzione della fattispecie concreta nel giudizio di pericolosità, spiegandone la rilevanza ai fini dell'affermazione delle esigenze cautelari nel caso concreto. Questo rappresenta l'ineludibile passaggio argomentativo idoneo a segnalare che la richiesta cautelare è stata effettivamente e materialmente esaminata, valutata in termini non meramente adesivi o stereotipati, denotando l'esercizio del dovere critico che la nozione di autonoma valutazione sottintende. All'uopo, invece, non è richiesta la riscrittura originale degli elementi o delle circostanze rilevanti ai fini della decisione, non rileva un'analisi puramente strutturale delle proposizioni che compongono la trama motivazionale, la lunghezza delle frasi o l'uso – talvolta imprescindibile – di comuni e ricorrenti incisi stilistici ma è necessario e sufficiente verificare che siano stati esplicitati, indipendentemente dal richiamo in tutto o in parte di altri atti del procedimento, i criteri adottati dal giudice della cautela a fondamento della decisione, ossia le ragioni che giustificano l'emanazione del titolo cautelare.

Il caso

Nella sentenza in commento la prima sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito agli oneri di motivazione del giudice per le indagini preliminari destinatario di una richiesta di misura cautelare, all'esito della l. 47 del 2015.

La vicenda processuale riguarda un soggetto sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere in relazione ai delitti di cui agli artt. 318-321 c.p., la cui ordinanza era stata oggetto di gravame innanzi al tribunale del riesame che aveva confermato la misura cautelare respingendo tutte le doglianze difensive.

Avverso il provvedimento del tribunale della libertà l'indagato proponeva ricorso per cassazione articolato in due motivi.

Nel primo – strutturato sotto il profilo della violazione di legge in relazione agli artt. 125, comma 3, 274, comma 2, lett. c), 292, comma 2, lett. c), 309, comma 9, c.p.p. – lamentava, in particolare, la mancanza di un'autonoma valutazione del Gip rispetto alla richiesta del P.M. in merito all'esigenza cautelare del pericolo di reiterazione del reato con conseguente carenza di motivazione sul punto.

Secondo l'impostazione difensiva, il tribunale del riesame aveva ritenuto soddisfatto lo standard motivazionale richiesto sulla base di argomentazioni sterili, illogiche e contraddittorie evalorizzando un inciso egualmente presente nella richiesta. Viceversa, il provvedimento genetico sarebbe stato viziato in quanto le argomentazioni del Gip erano totalmente sovrapponibili alla richiesta del P.M. e, pertanto, il tribunale neppure avrebbe potuto procedere alla sanatoria utilizzando i propri poteri integrativi e sostitutivi.

Le argomentazioni a sostegno della misura confermata dal riesame, sempre ad avviso della difesa, erano irrilevanti sul piano delle esigenze cautelari e inidonee a denotare quella autonomia della valutazione normativamente imposta. Sempre sotto il profilo delle esigenze, i giudici del riesame neppure avrebbero tenuto nella dovuta considerazione il demanzionamento dell'indagato.

Il secondo motivo -sempre articolato nei termini della violazione agli artt. 125, comma 3, 274, comma 2, lett. c) e c-bis), 292, comma 2, lett. c), 309, comma 9, c.p.p. riguardava il profilo della necessità della applicazione della misura cautelare più afflittiva.

Egualmente, anche da questo secondo punto di vista, ci si doleva della mancata illustrazione delle ragioni per le quali la cautela non poteva essere soddisfatta con una misura meno afflittiva, sottolineando come il Gip si sarebbe limitato a fare proprie le deduzioni accusatorie senza alcun vaglio.

Le questioni

Il provvedimento in analisi affronta il tema degli obblighi motivazionali che gravano sul giudice a seguito di una richiesta di misura cautelare. È appena il caso di avvertire che si tratta di un tema tanto ricorrente nella giurisprudenza di merito e di legittimità, quanto delicato perché incide in maniera diretta sull'inviolabilità della libertà personale costituzionalmente garantita.

La questione, di particolare rilevanza pratica, attiene infatti ai limiti di ammissibilità della motivazione per relationem e della prassi del copia e incolla così invalsa nel sub-procedimento cautelare personale.

In altri termini, si chiede alla Corte, quale sia il limite entro cui un tale modo di procedere consenta di ritenere soddisfatto il criterio dell'autonomia di valutazione che è oggi normativamente imposto in fase di applicazione di una misura cautelare, e quale sia il margine a disposizione del Tribunale del Riesame per fare ricorso ai suoi poteri suppletivi e integrativi o quando, invece, l'ordinanza applicativa debba essere annullata per difetto di motivazione.

In premessa la suprema Corte sottolinea comedottrina e giurisprudenza abbiano concordemente evidenziato che, attraverso l'inserimento dell'autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all'art. 274 c.p.p. non possono essere soddisfatte con altre misure – per soffermarsi sui punti rilevanti nel caso in esame – sia stato rafforzato l'obbligo di motivazione del giudice, richiedendo uno standard qualitativo del provvedimento impositivo per rispondere all'esigenza primaria di una chiara intelligibilità dell'iter logico-argomentativo che ha condotto il giudice ad adottare il provvedimento coercitivo, onde evitare motivazioni apparenti, che di fatto eludono la copertura costituzionale di cui all'art. 13 Cost. e si risolvono in provvedimenti coercitivi privi di un titolo sostanzialmente riferibile ad un giudice terzo.

Il tratto veramente innovativo della riforma introdotta con l'articolato intervento della l. 16 aprile 2015, n. 47, è stato individuato nella modifica dei poteri attribuiti, in fase decisoria, al tribunale del riesame, con la previsione di cui all'art. 309, comma 9,c.p.p. e, cioè, del potere di annullamento dell'ordinanza che non contenga l'autonoma valutazione, a norma dell'art. 292 c.p.p., delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa, previsione che costituisce una deroga, di stretta applicazione, al principio generale secondo cui il Tribunale del Riesame ha la possibilità di confermare il provvedimento impugnato anche per ragioni diverse da quelle indicate nella sua motivazione e ribadito nel medesimo comma 9.

Si è osservato che il potere-dovere di annullamento del giudice del Riesame rispetto a motivazioni inesistenti ovvero apparenti ne modifica essenzialmente l'ambito di intervento, ricostruito come gravame puro con possibilità di integrazione totale e reciproca del provvedimento impugnato con la conseguenza che nessun intervento ad adiuvandum del Tribunale del Riesame è consentito rispetto a provvedimenti che non palesino la preesistenza di una effettiva conoscenza, diretta e autonoma da parte dell'autorità giurisdizionale adita, delle ragioni del provvedimento richiesto e adottato.

Il tema del controllo del tribunale adito ex art. 309 c.p.p. e, conseguentemente, di quello della Corte di cassazione in sede di ricorso ex art. 311 c.p.p. sulla decisione del tribunale, pone immediatamente all'attenzione l'argomento, necessariamente pregiudiziale, dei criteri in base ai quali sia possibile accertare l'effettività di un autonomo giudizio valutativo da parte del giudice che ha emesso il provvedimento coercitivo, problema che la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affrontare con riguardo a due ricorrenti fattispecie che sono quella della motivazione per relationem e dei provvedimenti cautelari realizzati mediante incorporazioni testuale della richiesta cautelare nel provvedimento cautelare (il c.d. copia e incolla).

La Corte, con condivisibile affermazione di principio, ha dunque ribadito che la nullità di cui all'art. 292 c.p.p., si verifica nel caso di ordinanza priva di motivazione o con motivazione meramente apparente e non indicativa di uno specifico apprezzamento del materiale indiziario (Cass. pen., Sez. VI, 1 ottobre 2015, n. 44605, De Lucia e altri).

Per quanto attiene al profilo dell'adeguatezza della misura, si sottolinea infine come l'interpolazione realizzata dall'art. 11, l. 47 del 2015, non prevede l'obbligo di annullamento nell'ipotesi in cui il difetto di autonoma valutazione riguardi l'inadeguatezza di misure meno afflittive della custodia in carcere, con la conseguenza che le eventuali integrazioni apportate dal tribunale della cautela alle considerazioni svolte nel provvedimento coercitivo e sviluppate non soffrono del limite all'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione cautelare, se non nel caso in cui si riscontri una motivazione inesistente ovvero priva di confronto con gli elementi eventualmente forniti dalle difesa, che potrebbero investire, in ipotesi, anche gli elementi di valutazione dell'adeguatezza della misura, profilo comunque non dedotto con l'odierna impugnazione.

Le soluzioni giuridiche

Le soluzioni giuridiche offerte alle questioni prospettate in precedenza rappresentano in maniera assai fedele la presa di posizione della giurisprudenza di legittimità a seguito della l. 47 del 2015 intervenuta in materia di misure cautelari. Le pronunce successive all'entrata in vigore della stessa, in particolare, hanno sempre sminuito la portata innovativa della novella, confermando la legittimità di prassi già molto diffuse in precedenza.

È stata più volte ribadita la legittimità dell'ordinanza cautelare che operi un richiamo, in tutto o in parte, ad altri atti del procedimento, a condizione che il giudice svolga un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi per ciascuna imputazione e posizione senza ricorrere a formule stereotipate (cfr. Cass. pen. Sez. III, 11 maggio 2016, n. 28979).

Una tale tecnica di redazione dell'ordinanza è così idonea a ritenere soddisfatto il requisito della necessaria autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell'art. 292, comma 1, lett. c) e c-bis) c.p.p., come modificato dalla l. 16 aprile 2015, n. 47.

Diverso è invece il caso del c.d. copia e incolla, che si sostanzia non nel richiamo di passi della richiesta cautelare nell'ordinanza applicativa ma nella pedissequa riproposizione anche grafica della richiesta. In altri termini, attraverso questa tecnica, favorita dagli attuali mezzi informatici, il giudice materialmente copia la richiesta di misura cautelare e la incolla nella propria ordinanza.

La suprema Corte, con il provvedimento in commento, ha però confermato la compatibilità anche di questa prassi con la necessità di un'autonoma valutazione dei gravi indizi e delle esigenze. A tal uopo si è confermato che una prova della stessa ci sia allorquando si riscontri un accoglimento parziale della richiesta del P.M. Si pensi al caso in cui la misura venga applicata solo per talune imputazioni cautelari ovvero per alcune posizioni, ebbene proprio tali differenziazioni sarebbero indice di una valutazione critica, e non meramente adesiva, della richiesta cautelare (Cass. pen., Sez. VI, 17 novembre 2016, n. 51936).

Alla stregua di questa premessa, la Corte ha rigettato il ricorso, sottolineando come il tribunale abbia rilevato che in vari passaggi il giudice per le indagini preliminari non si sia limitato a recepire apoditticamente la richiesta cautelare ma l'abbia fatta propria esprimendo valutazioni indicative dell'effettivo controllo espletato sugli elementi a sostegno della misura.

È cioè la combinazione degli elementi contenuti nella richiesta da parte del giudice della cautela – e non la necessaria originalità degli stessi – ad essere la prova della conoscenza e della valutazione dei contenuti dimostrativi all'interno dei parametri normativi di riferimento.

Nel caso in esame si è dunque ritenuto che, nonostante siano oggetto di un discorso giustificativo sintetico, gli elementi valorizzati dall'ordinanza diano conto del fatto che le ragioni poste a fondamento del vincolo cautelare siano state autonomamente ponderate dal giudice. Proprio un tale incedere da parte del giudice del gravame induce la suprema Corte a ritenere che lo stesso abbia compiutamente esaminato le censure difensive rispetto alla motivazione posta a fondamento del provvedimento coercitivo in rapporto alla richiesta cautelare.

Privo di pregio è poi considerato il presunto demansionamento dell'indagato che è comunque titolare di un incarico dirigenziale nella pubblica amministrazione di natura ampiamente fiduciaria, sintomatico del potere dell'indagato nel tessuto amministrativo.

Per quanto concerne il secondo motivo di ricorso, questo, come premesso, attiene al profilo della adeguatezza della misura e cioè, in particolare, alla mancanza di una congrua motivazione in ordine alla circostanza per la quale l'unica misura cautelare idonea a soddisfare le esigenze cautelari sia stata ritenuta la custodia in carcere.

La suprema Corte conferma anche in questo caso la validità dell'operato del tribunale del riesame, ribadendo in generale come non sussista l'obbligo di annullamento in mancanza di autonoma valutazione del profilo dell'adeguatezza di misure meno onerose, salvo il caso di una motivazione inesistente o priva di confronto con gli elementi difensivi.

Peraltro, si conferma come nel caso di specie già l'ordinanza applicativa contenesse una valutazione estremamente approfondita del profilo dell'intensità delle esigenze cautelari ritenute talmente profonde da incidere in maniera determinante sul profilo dell'adeguatezza. Allora, ben si comprende l'iter seguito dal giudice della cautela e ritenuto legittimo dalla suprema Corte giacché, nel momento in cui il Gip ha insistito sul ruolo dell'imputato nell'amministrazione e sulla rete di solidarietà dalla quale avrebbe potuto trarre giovamento, di fatto ha dato autonomamente motivazione che a fronte di esigenze così stringenti l'unica misura adeguata era la custodia in carcere.

Alla luce di questa premessa, viene poi validato l'operato del tribunale del riesame che ha individuato nell'adeguatezza uno dei profili denotanti l'autonoma valutazione compiuta dal giudice. In altre parole, il giudice del gravame, in risposta alle deduzioni difensive, piuttosto che "rafforzare" la motivazione del Gip con l'esercizio di un potere integrativo che comunque gli è riconosciuto dalla legge, si è invece soffermato su circostanze successive all'adozione della misura (la sospensione cautelare dal servizio; la richiesta di aspettativa), negando la possibilità di realizzare le finalità cautelari con una misura meno afflittiva, sollecitata dalla difesa con la richiesta di riesame.

Osservazioni

La Suprema Corte ritorna ancora una volta sui temi della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali e specificamente di quelli applicativi delle misure cautelari personali.

La normativa di riferimento, come si è ribadito più volte, è stata recentemente modificata dalla legge n. 47 del 2015 che, per quanto qui di interesse ha modificato gli artt. 292 e 309 c.p.p.

La sentenza in commento si colloca nel solco delle pronunce già rese in materia e che di fatto tendono a circoscrivere notevolmente la portata della novella. Si è infatti a più riprese affermato che la previsione della necessità di una autonoma valutazione del giudice sui gravi indizi, sulle esigenze cautelari e sugli elementi forniti dalla difesa non avrebbe carattere innovativo, trattandosi al contrario della sottolineatura dell'obbligo già incombente sul giudice di esplicitare il proprio convincimento, in ragione dei principi di terzietà ed imparzialità.

In altri termini, la previsione di una autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, introdotta esplicitamente dalla l. 16 aprile 2015, n. 47, si traduce nell'imposizione al giudice dell'obbligo di motivare rispetto ai presupposti normativi per l'adozione della misura, senza richiedere la riscrittura "originale" degli elementi indizianti o di quelli riferiti alle esigenze cautelari.

Alla luce di questa premessa metodologica, è necessario valutare quale sia il limite minimo al di sotto del quale ritenere che il giudice non abbia adempiuto ai propri obblighi motivazionali e che, per l'effetto, l'ordinanza cautelare debba essere annullata.

A tal proposito, si è posto all'attenzione dell'interprete il problema della legittimità della motivazione per relationem.

Si tratta di un aspetto già analizzato in giurisprudenza e risolto nel senso di ritenere che l'autonomia della valutazione, e quindi della decisione, non sia compromessa dal richiamo della richiesta del P.M., purché il richiamo sia idoneo a dimostrare che il giudice abbia una effettiva conoscenza degli atti del procedimento e li abbia autonomamente rapportati ai parametri normativi di riferimento (Cass. pen., Sez. III,4 maggio 2016, 41089; Cass. pen., Sez. I, 21 ottobre 2015, n. 5787).

Analoghe considerazioni sono state sviluppate per la tecnica dell'incorporazione (o copia e incolla), che si riscontra nel diverso caso in cui il provvedimento si sostanzi nelle riproposizione nei medesimi termini di atti del procedimento, inclusa la richiesta di misura cautelare. Anche in questo caso, l'atteggiamento della giurisprudenza successiva alla riforma ha confermato la validità dell'ordinanza che recepisca la richiesta del P.M. purché non si limiti ad aggiungere mere clausole di stile senza una necessaria rielaborazione critica.

Il requisito dell'autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza impone allora al giudice l'obbligo del vaglio critico delle risultanze investigative tramite un'attività ricostruttiva ed esplicativa, che, tuttavia, non reca con sè la necessità di una riscrittura originale del testo della richiesta (Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 47233; Cass. pen., Sez. VI, 22 ottobre 2015, n.).

E però, se non appare del tutto peregrino il rilievo più volte palesato che la motivazione per relationem rischia di presentare problemi di comprensione del testo, nondimeno la tecnica per incorporazione pone dei dubbi sulla reale paternità dell'atto. Ad ogni buon conto, a fronte di tali legittime osservazioni, la giurisprudenza ha però sempre reagito con un approccio conservativo rispetto ai provvedimenti, osservando che, tanto la motivazione con la tecnica del copia e incolla quanto quella per relationem, costituiscono semplicemente una tecnica di redazione del testo linguistico. Esse non sono cioè automaticamente illegittime ma lo diventano quando, attraverso tale espediente tecnico, il giudice ometta di motivare in maniera logica ed esauriente la sua decisione (Cass. pen., Sez. V, 2 dicembre 2015, n. 11922).

Preso atto di ciò, anche dopo il recente intervento normativo, il vero nodo problematico resta comprendere quando l'utilizzo di un particolare espediente redazionale in realtà celi la mancanza di elaborazione critica del materiale probatorio da parte del giudice chiamato ad applicare una misura cautelare personale.

La giurisprudenza ha specificato che l'ordinanza cautelare è nulla quando si affidi alla presunta auto-evidenza dell'informazione probatoria richiamata o riprodotta ovvero si limiti a ricopiare pedissequamente la richiesta del pubblico ministero (Cass. pen., Sez. V, 2 dicembre 2015, n. 11922).

In altri termini, la previsione di un obbligo di autonoma valutazione dei presupposti dell'intervento cautelare non si traduce tout court nel divieto della motivazione per relationem o per incorporazione di atti probatori o anche di parti della richiesta del pubblico ministero. Viceversa, la validità del provvedimento applicativo è commisurata alla dimostrazione che il giudice, nel riportarsi al contenuto di un atto del procedimento ovvero nel riprodurlo nel corpo della motivazione, ne abbia non solo preso cognizione, ma ne abbia altresì effettivamente soppesato la coerenza con la decisione assunta.

La suprema Corte ritiene fuori dalla ratio legis la pretesa che l'ordinanza debba contenere, a fronte di argomentazioni condivise, una parafrasi del testo altrui; ovvero una valutazione necessariamente diversa rispetto a quella proposta dal P.M. nel caso in cui la richiesta contenga una ricostruzione dei fatti già aderente alle risultanze processuali e una valutazione degli stessi logica e conforme al diritto. Diversamente opinando, si finirebbe per costringere il giudice ad uno sforzo argomentativo del tutto superfluo con il solo proposito di dimostrare una autonomia decisionale.

L'autonoma valutazione, dunque, è compatibile sia con la tecnica di redazione "per incorporazione" (c.d. copia e incolla), sia con la tecnica di redazione per relationem, allorquando dal contenuto complessivo del provvedimento emerga una conoscenza degli atti del procedimento e, ove necessario, una rielaborazione critica o un vaglio degli elementi sottoposti all'esame giurisdizionale.

Ne consegue che, al fine di sindacare se il provvedimento coercitivo sia corredato o meno di un'autonoma valutazione anche in punto di esigenze cautelari, è necessario e sufficiente che si verifichi che siano esplicitati i criteri adottati dal giudice della cautela a fondamento della decisione ossia le ragioni che giustificano l'emanazione del titolo cautelare.

Viceversa, integrano una violazione di legge e restano dunque non integrabili dal tribunale del riesame, i provvedimenti cautelari in cui la motivazione sia graficamente assente, ovvero quelli in cui l'apparato argomentativo, mediante la tecnica dell'incorporazione o del copia e incolla, si sia limitato all'impiego di mere clausole di stile o all'uso di frasi apodittiche, senza riferire le ragioni per cui l'atto recepito o richiamato sia stato considerato coerente rispetto alla determinazione assunte (Cass. pen., Sez. V, 2 dicembre 2015, n. 11922; ex plurimis Cass. pen., Sez. I, 22 aprile 2016, n. 23869).

In conclusione, però, deve sottolinearsi come l'interpretazione dominante privi l'intervento legislativo del 2015 di qualsiasi portata innovativa. Esso si sarebbe limitato a garantire una più solida e univoca base normativa all'orientamento già diffuso nella vigenza della precedente disposizione, intervenendo altresì sui poteri del giudice del riesame.

Circoscrivendo i poteri di integrazione di quest'ultimo, l'obiettivo è quello di impedire al giudice che dispone la cautela di assolvere l'onere motivazionale con il mero richiamo o la riproduzione degli atti d'indagine ovvero della richiesta del pubblico ministero.

Tuttavia, ancora una volta i confini dell'intervento, restano circoscritti nello stretto recinto che inibisce qualsiasi intervento di supplenza (imponendo l'annullamento dell'ordinanza) a fronte del difetto di autonomia valutativa nell'ipotesi estrema della carenza grafica di motivazione, ovvero nei casi in cui la stessa sia sostanzialmente mancante o meramente apparente.

Se però l'interpretazione restrittiva data alla novella si pone nel solco della precedente elaborazione giurisprudenziale, ciò è stato senz'altro favorito dal Legislatore che ha perso l'occasione di codificare i parametri normativi tesi a definire la soglia oltre la quale il giudice del riesame non possa più esercitare il proprio potere integrativo, che peraltro è stato consapevolmente mantenuto.

In assenza di criteri normativi certi, resta ancora una valida bussola la risalente sentenza delle Sezioni unite 17/2000 per la quale la motivazione è da considerarsi legittima quando:

« a) faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione;

b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;

c) l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione »

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