Violenza sessuale e atti persecutori tra certezze e incertezze interpretative e “culturali”
15 Aprile 2016
Massima
È fondato il ricorso del procuratore della Repubblica, in ordine alla pronuncia del tribunale – Sezione per il riesame – che ha negato la sussistenza del delitto di violenza sessuale, atteso che la libertà sessuale va intesa come indisponibile nella sua dimensione complessiva ed esige, pertanto, la persistenza del consenso per tutta la durata del rapporto sessuale. Inoltre, l'assenza di segni di violenza esteriori sul corpo della vittima o alcuni comportamenti apparentemente concilianti della stessa nei confronti dell'aggressore non assumono una valenza univoca sul piano indiziario ma vanno adeguatamente contestualizzati e valutati in riferimento al deterioramento del rapporto sentimentale tra i due partners. Il ricorso è, invece, infondato, in relazione al delitto di atti persecutori per assenza dei requisiti del mutamento radicale delle abitudini di vita da parte della vittima e della situazione di ansia in capo a quest'ultima, eventi imprescindibili della fattispecie in parola. Il caso
La vicenda giudiziaria oggetto della pronuncia in esame esprime un caso emblematico del ben noto fenomeno costituito dalla violenza di genere nelle relazioni domestiche e affettive. Essa è imperniata, infatti, sui comportamenti delittuosi realizzati ai danni della vittima dal suo ex fidanzato, che, a seguito della rottura del rapporto tra i due, voluta dalla ragazza per la morbosa e pressante gelosia del giovane, non intende accettare tale decisione. Si descrive un rapporto conflittuale tra i due fidanzati, che era venuto progressivamente deteriorandosi e che la ragazza, a un certo punto, aveva deciso di troncare. Ma, come spesso accade, lui rifiuta tale soluzione e pone in essere nei confronti di lei una serie di condotte minacciose e intimidatorie, operate anche con messaggi telefonici, tali da costringere la ex fidanzata a non uscire più da sola e a farlo solo in compagnia di amiche, a causa dei forti timori nutriti per la propria incolumità personale. In questo contesto, che, occorre rimarcare, è di paura e di preoccupazione, la ragazza accetta un incontro “chiarificatore” richiestole dal suo ex partner. In tale occasione, approfittando delle circostanze di tempo e di luogo, egli costringe la giovane, dopo una vivace colluttazione, a subire un rapporto sessuale completo, che si consuma all'interno della parte posteriore dell'automobile, dove i due si trovavano. Per questi fatti, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Avellino, in data 6 ottobre 2014, disponeva nei confronti dell'ex fidanzato, indagato per i reati di cui agli artt. 609-bis e 612-bis c.p., la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi prossimi congiunti. Il tribunale di Napoli - Sezione per il riesame, con ordinanza del 28 ottobre 2014, accoglieva, invece, l'istanza di riesame del giovane, ritenendo i fatti inidonei, sotto il profilo della necessaria gravità indiziaria, a giustificare il provvedimento cautelare. La questione
Il procuratore della Repubblica ricorre, però, per l'annullamento del provvedimento, lamentando l'inosservanza della legge penale in relazione alla decisione del tribunale di ritenere insussistente il delitto di violenza sessuale, di cui alla contestazione provvisoria, perché il comportamento dell'indagato sarebbe privo sia di violenza che di costrizione e ravvisando, per contro, un atteggiamento consensuale da parte della vittima. Le doglianze del pubblico ministero ricorrente investono anche il delitto di atti persecutori per contraddittorietà e manifesta illogicità della decisione con riferimento alla omessa valutazione, da parte del tribunale del riesame, di una serie di circostanze che, se accuratamente esaminate, avrebbero dovuto indurre i giudici a respingere la richiesta di riesame non solo per il reato di violenza sessuale ma anche, e soprattutto, per quello di atti persecutori. Le soluzioni giurdiche
non in un'ottica interdisciplinare, che tenga conto anche delle peculiarità di ordine culturale, sociologico e psicologico, che segnano la materia della violenza di genere nell'ambito domestico e, più in generale, nelle relazioni affettive. Da tempo ormai il Consiglio Superiore della Magistratura, preso atto di una sensibilità insufficiente, di una carenza di specializzazione e di una scarsa preparazione dei magistrati, della polizia giudiziaria e degli operatori nel settore in parola, con la Risoluzione 8 luglio 2009, si è attivato al fine di migliorare la risposta della giustizia nell'ambito della violenza familiare. Sono così stati delineati interventi sul piano della formazione, dove si è sollecitato un approccio multidisciplinare e interistituzionale di grande concretezza, nonché sul versante della organizzazione, auspicando una accurata specializzazione della magistratura ordinaria ma anche di quella onoraria (e pure degli avvocati), per la trattazione degli affari giudiziari in materia di violenza esercitata sui soggetti deboli, prevedendo che vi siano dei magistrati, sia in procura che nei tribunali, che abbiano ad occuparsi in via esclusiva o comunque prevalente ai reati contraddistinti da tali specificità. Con la Risoluzione del 30 luglio 2010, poi, il C.S.M., su sollecitazione della settima commissione referente, è tornato sull'argomento per invitare i dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti a prestare ad esso la massima attenzione, adottando, in ordine alla organizzazione dei rispettivi uffici ogni misura idonea affinché la trattazione dei procedimenti penali e civili in materia di violenza familiare sia assicurata con tempestività ed efficacia. Da ultimo, il 12 marzo del 2014, il C.S.M., dopo un attento monitoraggio effettuato sulla scorta delle risoluzioni ora menzionate, e che restituisce la fotografia di un panorama organizzativo ancora estremamente disomogeneo, ha assunto una delibera (Risoluzione 570/VV/2013), con la quale rinnova le sollecitazioni di indirizzo già manifestate nei documenti del 2009 e del 2010, invitando soprattutto i dirigenti e gli uffici giudicanti a darvi concreta attuazione. Questa premessa per osservare come i giudici del il tribunale del riesame, la cui pronuncia è oggetto del giudizio della Cassazione, che qui si esamina, sono da ascrivere, a nostro parere, alla lista (speriamo non numerosa) di quei magistrati che hanno vistosamente disatteso gli inviti del C.S.M. a colmare le lacune di conoscenza, la carenza di sensibilità e la mancanza di specializzazione per migliorare il loro metodo operativo in questo delicato e ancora poco esplorato terreno. Carenze, lacune e insensibilità che li hanno portati ad utilizzare, nelle loro argomentazioni volte a revocare la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa e dai suoi prossimi congiunti, stereotipi giudiziari e culturali, in materia di stupro e di violenza nelle relazioni affettive, che ritenevamo del tutto abbandonati: come la strumentalità della denuncia da parte della vittima solo perché si palesa il pericolo di conseguenze più gravi della violenza sessuale subita (nel caso di specie, la gravidanza) o l'assenza di segni di violenza fisica sul corpo della vittima nonché sugli indumenti e sugli abiti indossati dalla stessa oppure la convinzione che non vi possa essere dissenso se non con resistenza attiva. Anche il linguaggio usato tradisce l'incapacità dei giudici del Tribunale a comprendere le dolorose e complesse dinamiche sottese ai contesti di violenza familiare o affettiva tanto da definire “burrasca emotiva” la insopportabile situazione di abusi e di prevaricazioni che ha indotto, nel caso in questione, la vittima a porre fine alla relazione con il partner. Ebbene, la terza sezione penale della Cassazione, nella sentenza che qui ci occupa, ha posto (parzialmente) rimedio a questa pronuncia del tribunale del riesame che, se non fosse per i (presunti) reati commessi e per le gravi offese arrecate alla vittima, con una certa ironica leggerezza si potrebbe definire espressione di un maschilismo “retrò”. La Corte suprema, infatti, ha preso una posizione inequivocabile, e del tutto condivisibile, circa il concetto di libertà sessuale e l'interpretazione che, in rapporto ad esso, deve essere data al delitto di violenza sessuale, operando una corretta riconduzione della vicenda alla complessità del contesto relazionale che ne costituisce lo sfondo. Con riferimento al delitto di atti persecutori, la Cassazione non ha, invece, dimostrato, a nostro avviso, una altrettanto sapiente capacità di cogliere il significato reale degli atteggiamenti “ambivalenti” della persona offesa nei confronti dell'ex fidanzato o dei comportamenti ritenuti privi di precauzioni o di quelli volti ad assecondare il comportamento del soggetto agente. Non ha, in altre parole, tenuto nella dovuta considerazione l'escalation di violenza che contraddistingue il fenomeno criminoso dello stalking e la conseguente necessità della vittima, nella maggior parte dei casi priva di una adeguata rete di protezione dopo la denuncia del proprio partner, di difendere se stessa (e anche i figli e i familiari) dal pericolo elevatissimo di subire ulteriori aggressioni o atti di violenza. Sono queste, infatti, le esigenze che spingono sovente la donna che intraprende tale percorso, doloroso e denso di rischi, ad assumere toni “concilianti”, in attesa che la macchina giudiziaria, quasi sempre troppo lenta, faccia il suo corso.
Le riflessioni sin qui svolte ci servono ora da chiave di lettura per analizzare il caso sottoposto alla Cassazione e la relativa pronuncia. Il primo nodo interpretativo affrontato dalla Corte di Cassazione attiene al delitto di violenza sessuale e concerne due aspetti: quello del consenso e quello della valenza che può assumere, sul piano indiziario, l'assenza di segni di violenza fisica sulla vittima e sui suoi indumenti. La seconda questione riguarda il delitto di atti persecutori, specificamente, gli eventi del mutamento delle abitudini di vita e dello stato di ansia e di paura e i criteri necessari ad individuarli. Quanto alla problematica del consenso, è opinione ormai consolidata in giurisprudenza che esso debba esserci all'inizio e debba perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità, ravvisandosi, dunque il reato di violenza sessuale anche in quei casi in cui il partner prosegua il rapporto quando la condivisione, originariamente prestata dalla vittima, venga meno successivamente a causa di un ripensamento ovvero per la non accettazione delle forme o delle modalità di consumazione dell'amplesso (Cass. pen.,Sez. III, 11 dicembre 2007, n. 4532; Cass. pen.,Sez. II, 21 settembre 2007, n. 39428; Cass. pen.,Sez. III, 24 febbraio 2004, n. 25727). E del resto, se il bene giuridico protetto dall'art. 609-bis c.p. è la libertà sessuale, da intendersi come disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare, ne consegue che assumono rilevanza penale tutti quei comportamenti che, in assenza del rispetto dovuto alla persona, sono volti ad offendere la sua libertà di autodeterminazione. E ciò a prescindere dal grado di intrusione corporale subito dalla vittima. Fermo restando che, se, poi, il grado di intrusione è tale da provocare intenzionalmente alla vittima danni e sofferenze maggiori, ad esempio una potenziale gravidanza, come nel caso in oggetto, l'aggressione arrecata alla libertà di autodeterminazione della vittima diventa ancor più riprovevole. Nella vicenda in questione, che rispecchia perfettamente la fisionomia della violenza domestica e di genere così come tratteggiata dalla Convenzione di Istanbul (recepita dal nostro ordinamento con la l. 27 giugno 2013, n. 77 ed entrata in vigore il 1 agosto del 2014; si veda anche d.lgs. 15 dicembre 2015 n. 212 – attuazione della direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 e l. 15 ottobre 2013, n. 119) ma anche come scrupolosamente esplorata in numerosi studi e ricerche svolte in argomento, l'ex fidanzato costringe la ragazza ad accettare un “incontro chiarificatore”; un incontro al quale la ragazza aderisce, come traspare dalla descrizione della realtà fattuale, sotto la pressione di un clima di tensione e di paura che è tipico delle vicende di separazione unilaterale, dove colui che è lasciato non accetta di perdere il controllo su quella donna che considera una sua proprietà e la vittima accondiscende per il timore di acuire ulteriormente la tensione in atto. Ecco, allora, che lui attiva una serie di strategie, consistenti, inizialmente, in atteggiamenti (apparentemente) “affettuosi”, che tradiscono, però, la loro vera natura non appena la sua ex compagna mostra di non gradirli. Si manifesta, a quel punto, prepotentemente, il temperamento possessivo e violento del ragazzo, che culmina nell'atto con il quale egli intende ristabilire il suo potere su di lei attraverso un gesto odioso: la violenza sessuale, contrassegnata da un epilogo (il rischio gravidanza) potenzialmente rovinoso per la giovane donna. E la frase sprezzante e umiliante che lui rivolge a lei al termine del rapporto sessuale, “Ora ti ho rovinata”, sintetizza meglio di ogni altra descrizione la sua volontà di dominio su di lei. Inutile, imbarazzante ma soprattutto offensiva della dignità della ragazza, in un quadro come quello delineato, ogni disquisizione interpretativa volta ad appurare dettagli e modalità degli atti sessuali tra la ragazza e il suo ex fidanzato; persino oltraggioso della sofferenza della vittima il tentativo del tribunale di trasformare la volontà (presunta) della giovane al rapporto sessuale in un senso di rammarico solo in forza dell'atto finale del rapporto medesimo. Detto altrimenti: un chiaro esempio di vittimizzazione secondaria, ricorrente soprattutto quando manca una conoscenza da parte degli operatori dei nodi cruciali che contraddistinguono i crimini di violenza sessuale perpetrati nella sfera affettiva e quando lo strumento del processo, anziché volgere alla protezione della vittima, diventa un'occasione per (l'imputato di) reiterare la violenza nei confronti della parte offesa. Sul punto del consenso, dunque, è senz'altro condivisibile la pronuncia della Cassazione, nella parte in cui richiama i principi affermati dall'indirizzo maggioritario della giurisprudenza circa la necessità che la collaborazione permanga senza interruzioni e incertezze comportamentali per tutta la durata del rapporto sessuale, concludendo per la sussistenza della violenza sessuale anche nell'ipotesi in cui un rapporto sessuale, inizialmente condiviso (e, sottolinea la Corte, non è questo il caso), prosegua, poi, con modalità sgradite o comunque non accettate dal partner. Parimenti apprezzabile, e senz'altro conforme alle linee di indirizzo del C.S.M. sopra evocate, lo sforzo compiuto dai giudici di legittimità, in totale difformità rispetto alla pronuncia del tribunale, di fornire una lettura della vicenda più appropriata e maggiormente fedele alla realtà, attraverso una ricostruzione attenta della dimensione relazionale preesistente tra la vittima e l'autore. Un'orbita connotata da un non trascurabile clima di conflittualità palese ed avente radici lontane, afferma la Cassazione, riprendendo, peraltro, l'espressione utilizzata dal tribunale. Su questo aspetto, tuttavia, merita rimarcare che l'espressione clima conflittuale è del tutto impropria quando è riferita alla tipologia di violenza sulle donne che qui emerge; il conflitto, infatti, implica una simmetria, mentre la violenza si radica sull'imposizione e il dominio di una parte sull'altra, come accade nella vicenda qui analizzata. Sempre sul fronte della violenza sessuale, occorre mettere in risalto pure la linea interpretativa del tribunale, secondo la quale il consenso della ragazza sarebbe ricavabile anche dall'assenza di violenza accertata durante la visita ginecologica, nonché dalla integrità degli slip e dei leggins, che, essendo intatti, lascerebbero supporre una partecipazione consensuale, nonché dalla possibilità che essa avrebbe avuto di sottrarsi al rapporto, perché le portiere dell'automobile, all'interno della quale si è consumato il rapporto sessuale, nonostante la chiusura centralizzata, erano perfettamente apribili dall'interno. La tesi, che evoca una nota sentenza pronunciata in un'epoca storica risalente (alludiamo alla sentenza c. d. dei jeans, della Cassazione, Sez. III, 6 novembre 1998 – 10 febbraio 1999) e che, francamente, ritenevamo ampiamente superata, viene giustamente confutata dalla Cassazione, la quale, dopo avere riconosciuto che si tratta di elementi (gli slip e i leggins intatti) che non hanno affatto, sul piano indiziario, quella valenza univoca, che il tribunale ha loro frettolosamente attribuito, conclude nel senso che la violenza è ravvisabile anche nel caso in cui la vittima sia stata forzata ad abbassare gli indumenti. Una versione che sarebbe confermata anche dalla dichiarazione della ragazza che, come sostiene la Cassazione, avrebbe chiaramente detto di non avere voluto non solo il rapporto ma persino quegli approcci preliminari maldestramente posti in essere dal giovane nel goffo tentativo di riportare il sereno nella coppia ormai disgregata. Pur aderendo alla tesi sostenuta della Cassazione, ancora una volta dobbiamo destinare una breve considerazione all'uso delle parole. Sconcerta, invero, che per qualificare le condotte palesemente violente e prevaricatrici con le quali il soggetto abusante intende ripristinare il suo potere sulla ex fidanzata vengano utilizzate espressioni del tutto inadeguate e fuorvianti come approcci maldestri o tentativo goffo di riportare il sereno nella coppia. Crediamo sia lecito domandarsi se il dato semantico sia conforme alla vicenda che si intende rappresentare; e la risposta è, per noi, decisamente negativa. Vogliamo, tuttavia, sperare che la ragione che ha portato (anche) i giudici della Cassazione a optare per l'utilizzo di questo linguaggio non esprima una precisa scelta di ordine culturale, visto che le argomentazioni sostanziali sviluppate in motivazione, del tutto plausibili e sottoscrivibili, fanno ritenere diversamente, ma sia piuttosto riconducibile a mere reminiscenze lessicali. Nondimeno, è auspicabile che queste ultime vengano abbandonate, assieme alle errate convinzioni che, solitamente, le accompagnano. A sostegno del rapporto consensuale, vi è, infine, il tema della (mancata) fuga della ragazza, che, a parere del tribunale, sarebbe potuta avvenire agevolmente, atteso che le portiere dell'auto, nonostante la chiusura centralizzata, erano apribili dall'interno. Si tratta di un elemento, come afferma la Corte di cassazione, non sufficientemente chiarito dal tribunale. In ogni caso, quand'anche tale possibilità risultasse accertata, essa non consentirebbe di trarre conclusioni automatiche e assolute perché è noto come ogni situazione di aggressione sessuale ha peculiarità, dinamiche e livelli di pericolo che vanno valutati in concreto e comparati con i rischi maggiori che la vittima potrebbe correre se decidesse di sottrarsi all'abuso sessuale (Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 1988, n. 11243). La seconda parte della sentenza della Cassazione ruota attorno alla fattispecie di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p.Rispetto alla sua presunta configurabilità, afferma la Corte che il ricorso del Pubblico Ministero è infondato e che non risulta illogica la motivazione del tribunale del riesame, secondo la quale la prosecuzione dei dialoghi telefonici tra la ragazza e il suo ex compagno appare poco compatibile con il quadro di assillante pressione di tipo anche smaccatamente minaccioso del giovane esercitato dopo la decisione della ragazza di interrompere la relazione sentimentale peraltro non breve. Dissentiamo totalmente da questa posizione, poiché essa rivela la scarsa conoscenza che tanto i giudici del tribunale quanto quelli della Cassazione hanno della situazioni complesse e drammatiche che si trovano a vivere certe donne che decidono di interrompere una relazione di intimità, quando tale scelta non viene accettata dal partner; e ciò, in particolare, se la relazione ha avuto una durata consistente nel tempo. Più, infatti, è stato profondo il rapporto (e in sentenza si riferisce di una relazione sentimentale non breve), maggiore è la difficoltà a troncare il legame; inevitabili, pertanto, i contrasti emotivi che la persona può provare nei confronti del partner. Quello che per i giudici, dunque, appare un quadro incongruente con la sussistenza del reato, costituisce invece, per chi conosca da vicino queste realtà, uno scenario ricorrente e paradigmatico del clima di intimidazione che le vittime sono costrette a subire. Mantenere i rapporti telefonici, quindi, può costituire un tentativo (purtroppo, vano, il più delle volte, ed esercitato quasi sempre in solitudine e in assenza di supporti istituzionali), di diminuire le minacce del partner, di evitare violenze ulteriori, di scongiurare il rischio di rimanere uccise, in altre parole, di contenere l'escalation di aggressività, che connota soprattutto le fasi di separazione, nelle quali, come ormai molti studi e numerose statistiche dimostrano, le violenze, solitamente già perpetrate durante il rapporto, si intensificano. Ne è un lampante riscontro proprio quella stessa affermazione che i giudici pongono a sostegno della loro tesi interpretativa, volta a negare il reato, e che evoca la pressione assillante e il tono smaccatamente minaccioso del giovane. Ne consegue che gli elementi costitutivi della fattispecie di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. necessitano di una interpretazione applicativa che va modulata sulla base di questo dato fattuale. Se è vero che il reato si configura solo se le molestie sono assillanti e ripetitive e producono uno degli eventi previsti dal dettato normativo, ossia un perdurante e grave stato di ansia e di paura o un fondato timore per la incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero un mutamento delle abitudini di vita, non si può non vedere come nel caso in esame queste conseguenze si siano tutte verificate: la ragazza, a seguito delle minacce e dei messaggi telefonici, anch'essi di tono minaccioso, si era vista costretta ad uscire sempre in compagnia delle amiche perché temeva per la propria incolumità. Non è forse già questo un cambiamento nella propria vita quotidiana prodotto dall'insorgere dello stato di paura e di ansia generato dal comportamento del fidanzato, lesivo della libertà morale della vittima e quindi sufficiente a configurare il delitto di stalking? Non solo. Se questa è la cornice che fa da sfondo, l'assecondare, da parte della vittima, il comportamento del soggetto agente davvero può essere interpretato come condotta libera e spontanea? In conclusione, i parametri valutativi dello stalking, in situazioni come quella qui considerata, dovrebbero essere accuratamente adattati all'insidiosità del fenomeno e al differenziale di potere che esiste tra la vittima e lo stalker. Uno sforzo teso ad acquisire una maggiore consapevolezza di queste forme di aggressione e un rinnovato impegno per saperne comprendere la specificità consentirebbero, probabilmente, di fornire la spiegazione autentica di atteggiamenti che possono risultare incoerenti soltanto alla luce di canoni interpretativi inadatti allo scopo. Osservazioni
Aderiamo a quella parte della sentenza che, in tema di violenza sessuale, ribadisce un orientamento giurisprudenziale consolidato e maggioritario, secondo il quale il reato è integrato anche quando il consenso, prestato inizialmente, venga meno successivamente per una non condivisione delle forme o delle modalità, anche di conclusione, del rapporto stesso. Non ci pare, invece, plausibile la soluzione volta a negare la sussistenza del delitto di atti persecutori per l'impossibilità di ricondurre ai requisiti del mutamento radicale delle abitudini di vita e dello stato d'ansia i comportamenti della parte offesa consistenti nella prosecuzione dei dialoghi telefonici con il suo ex compagno e nella accettazione di un incontro "chiarificatore" con il medesimo. Riteniamo, infatti, che la (presunta) incoerenza di tali condotte vada debitamente contestualizzata nel circuito peculiare della violenza che contraddistingue le relazioni affettive. Da questo angolo visuale si comprende agevolmente come, non di rado, la solitudine e l'assenza di sostegno che la vittima patisce la inducano ad assumere toni "concilianti" al fine di evitare danni ben più gravi, dei quali le campagne persecutorie sono eloquenti campanelli d'allarme troppo spesso inascoltati. Guida all'approfondimento
ROMITO - MELATO (a cura di), La violenza sulle donne e sui minori. Una guida per chi lavora sul campo, Roma, 2012 |