Diffamazione. Il requisito della verità e il diritto di cronaca
15 Marzo 2017
Massima
L'attribuzione alla querelante, da parte dei giornalisti, di una condotta risoltasi in una pressione indebita sullo stagista, attraverso la prospettazione di una scelta ineludibile fra la prosecuzione del tirocinio e l'attività di praticante pubblicista, attiene al perimetro della critica giornalistica perché nella specie – corretta o errata che fosse l'analisi, condivisibile o non condivisibile – gli autori hanno rappresentato tale evento come l'epilogo di una serie concatenata di fatti, frutto cioè di una propria rappresentazione ad essi soli riconducibile e non, viceversa, espressione di una realtà oggettiva, come tale registrata e ritrasmessa alla opinione pubblica.
Il caso
La Corte d'appello di Napoli in data 10 febbraio 2015, in riforma della sentenza di primo, dichiarava la prescrizione dei reati di diffamazione addebitati agli imputati. In particolare, R.P. era stato tratto giudizio e condannato in primo grado in riferimento al reato di diffamazione a mezzo stampa commesso il (omissis) mediante la pubblicazione di un articolo sul quotidiano (omissis): articolo nel quale si addebitava alla parte offesa, dirigente del servizio stampa del Comune di (…), di avere intenzione di compiere atti ritorsivi in danno di un tirocinante, colpevole di una inchiesta sui conflitti di interesse dell'assessore comunale alla cultura. Al S.A. veniva invece addebitato, al capo B2, l'omesso controllo in relazione al predetto reato e, al capo C, ulteriori ipotesi di diffamazione, ai danni della stessa parte offesa, commesse mediante la pubblicazione di un comunicato stampa, coevo al precedente articolo, e di un articolo comparso (omissis) sul medesimo quotidiano, entrambi sullo stesso tema sopra illustrato. La condanna in primo grado era stata, per il P. , alla pena di mesi otto di reclusione e per il S. alla pena di mesi 10 di reclusione. Entrambi erano stati condannati in solido al risarcimento del danno della parte civile da liquidarsi in separato giudizio. La Corte d'appello, nel dichiarare estinti i reati, aveva rigettato l'impugnazione agli effetti civili. Avverso la sentenza della Corte d'appello gli imputati proponevano ricorso per Cassazione per i seguenti motivi:
La Corte di cassazione annullava senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato in quanto commesso nell'esercizio del diritto di critica. La questione
La Corte di cassazione con la pronuncia de quo torna ad affrontare uno dei temi principali che ruotano intorno al reato di diffamazione ovverosia la scriminate dell'esercizio del diritto di critica. La Cassazione nella sua motivazione sostiene che la sentenza impugnata non merita censura alcuna in punto di affermazione della integrazione del paradigma normativo dell'art. 595 c.p., come aggravato dal mezzo della stampa e, in punto, di astratta individuazione dei criteri base per la esclusione della ricorrenza della specifica causa di giustificazione invocabile da chi esercita il fondamentale diritto-dovere della pubblica informazione. Il supremo Collegio afferma che è sicuramente lesiva della reputazione l'attribuzione, alla querelante, della volontà o anche della semplice prospettazione della possibilità di allontanare, dall'ufficio stampa da essa diretto, un giovane stagista affidatole per un corso formativo di livello universitario, per motivi diversi da quello della disciplina o dell'affidamento: motivi invece indicati come integrati dall'indebita ingerenza nella attività di pubblicista di costui e, quel che è peggio, da una asserita volontà di ritorsione per inchieste giornalistiche dallo stesso compiute a carico di esponenti della P.A. Si tratterebbe di un comportamento contrario ai principi di base dell'ordinamento costituzionale e sicuramente censurabile, per dolo, anche sul piano della responsabilità civile. La Cassazione prosegue nella sua motivazione sostenendo che ugualmente corretta è l'affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui l'esercizio del diritto di cronaca comprende, tra i requisiti fondanti, la esposizione di un fatto vero, laddove la attribuzione ad altri di un fatto falso non può certamente reputarsi scriminabile, anche in presenza di interesse pubblico alla notizia, fatti salvi i casi in cui la scriminante sia destinata a produrre effetto per ragioni attinenti all'atteggiamento psicologico del colpevole (esimente putativa; eccesso colposo). Il requisito della verità del fatto vale anche per la configurazione della diversa scriminante del diritto di critica giornalistica la quale, sebbene con contorni aperti alla prospettazione di una valutazione soggettiva e in quanto tale incoercibile entro una parametro oggettivamente enucleabile, non può disancorarsi del tutto dal fatto da cui prende le mosse e dal dovere di rappresentare questo in termini di verità obiettivamente verificabile. Il Collegio prosegue nel suo ragionamento sostenendo che nell'ambito di un articolo di cronaca e critica giornalistica, deve precisarsi il discrimine tra il dato fattuale attribuito ad un soggetto, così esposto alla lesione della propria reputazione, e l'analisi di tipo politico, sociologico, amministrativo, giudiziario o altro, che, a partire da quel dato, il giornalista è abilitato ad effettuare, con effetti dello stesso tipo. Soltanto con riferimento al primo elemento la giurisprudenza consolidata pretende la verifica del connotato della verità, mentre della analisi e comunque della costruzione del ragionamento che ne consegue, trattandosi dì attività a natura valutativa, non può pretendersi lo stesso connotato, essendo il parametro di riferimento, quello, privo di conseguenze penali, della condivisione/non condivisione della critica. Può e deve pretendersi, piuttosto, al fine di realizzare il corretto bilanciamento anche col valore contrapposto della tutela della personalità previsto come principio fondamentale della Costituzione (art. 2 Cost.), che si sia realmente in presenza dì una critica, ossia di un argomentare logico e giustificato, capace di integrare quell'esercizio della funzione informativa che rientra nel diritto di manifestare il proprio pensiero anche con lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione (art. 21 Cost.). Secondo il giudice di legittimità, rientra appieno nella valutazione di merito sulla integrazione della causa di giustificazione, l'opera interpretativa del giudice chiamato a distinguere tra effettiva prova di critica giornalistica e comportamento che invece, mancando di qualsiasi connotato di logica e giustificatezza della analisi, finisca con l'integrare una diffamazione non scriminabile perché consistente in un uso apparente della dialettica, volto a coprire la sola ed effettiva volontà di fare non informazione ma disinformazione: creando suggestioni, proponendo accostamenti indebiti di fatti diversi ma somiglianti rispetto a quelli accaduti e, in una espressione, una immagine consapevolmente ma ingiustificatamente e gratuitamente distorta del soggetto-bersaglio. Ebbene, per la Cassazione, di tali principi la Corte d'appello non avrebbe fatto corretta applicazione, errando, da un lato, e nella sola ottica del diritto di cronaca, nella individuazione del fatto su cui parametrare il rispetto del requisito della veridicità e, dall'altro, omettendo del tutto di pronunciarsi sulla configurabilità del diritto di critica, pure puntualmente invocato, come si desume dall'esposizione dei motivi d'appello presente a pagina 3 della sentenza impugnata. Proprio tali lacune, evidenziate dai ricorrenti, per la Cassazione sono apprezzabili e anche colmabili alla stregua del chiaro panorama fattuale tracciato nelle due sentenze di merito, con la conseguenza che l'annullamento della sentenza in esame vedrebbe come superfluo il rinvio al giudice a quo. L'evidente errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, attiene cioè alla individuazione del nucleo fattuale della narrazione contenuta negli articoli dei giornalisti, confondendo il fatto narrato con la valutazione che ne è conseguita. Il fatto, invero, non era altro che l'invio di una missiva ad opera della querelante, al giovane stagista e aspirante pubblicista C., contenente la indicazione della incompatibilità di cui all'art. 9, comma 4, della l. 150 del 2000, come puntualmente spiegato a pag. 5 della sentenza impugnata. Posto che tale norma, facente parte della legge di disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle Pubbliche amministrazioni enuncia i casi di incompatibilità cui sono sottoposti i coordinatori e i componenti dell'ufficio stampa (í quali non possono esercitare, per tutta la durata dei relativi incarichi, attività professionali nei settori radiotelevisivo, del giornalismo, della stampa e delle relazioni pubbliche), appare evidente che l'invio di una missiva contenente la rappresentazione, allo stagista, di tali incompatibilità si prestava a legittime interpretazioni e commenti critici, anche salaci, quali sono quelli oggetto degli articoli incriminati. Quelle che, perciò, costituivano il contenuto valutativo degli articoli incriminati, diverso dal fatto. Il tema dibattuto, evidentemente, era proprio quello della possibilità o meno di applicare ad un semplice stagista non strutturato la norma in commento e, sia nel caso di soluzione affermativa che in caso contrario, quello di una valutazione sugli effetti che la missiva era destinata a produrre nella sfera soggettiva e oggettiva del destinatario, soprattutto alla luce del fatto, non contestato nella realtà processuale, che lo stagista scriveva da tempo articoli giornalistici che non avevano destato quella stessa iniziativa, fatta eccezione per un pezzo, del giorno precedente, dal contenuto lesivo della immagine del Comune. In conclusione secondo il giudice di legittimità la attribuzione alla querelante, da parte dei giornalisti, di una condotta risoltasi in una pressione indebita sullo stagista, attraverso la prospettazione di una scelta ineludibile fra la prosecuzione del tirocinio e l'attività di praticante pubblicista, attiene al perimetro della critica giornalistica perché nella specie - corretta o errata che fosse l'analisi, condivisibile o non condivisibile - gli autori hanno rappresentato tale evento come l'epilogo di una serie concatenata di fatti, frutto cioè di una propria rappresentazione ad essi soli riconducibile e non, viceversa, espressione di una realtà oggettiva, come tale registrata e ritrasmessa alla opinione pubblica.Poco rileva, dunque, se, secondo una delle possibili interpretazioni alternative degli stessi fatti – quella che i giudici a quibus hanno mostrato di condividere – quella scelta non sarebbe stata concretamente nemmeno ipotizzabile dal momento che la querelante si sarebbe limitata, con la nota missiva, a invitare il destinatario al rispetto di meri obblighi di comportamento quali sarebbero quelli previsti dall'art. 9, comma 4, l. 150 del 2000. Le soluzioni giuridiche
La suprema Corte ha stabilito che L'attribuzione alla querelante, da parte dei giornalisti, di una condotta risoltasi in una pressione indebita sullo stagista, attraverso la prospettazione di una scelta ineludibile fra la prosecuzione del tirocinio e l'attività di praticante pubblicista, attiene al perimetro della critica giornalistica perché nella specie – corretta o errata che fosse l'analisi, condivisibile o non condivisibile – gli autori hanno rappresentato tale evento come l'epilogo di una serie concatenata di fatti, frutto cioè di una propria rappresentazione ad essi soli riconducibile e non, viceversa, espressione di una realtà oggettiva, come tale registrata e ritrasmessa alla opinione pubblica. Osservazioni
In materia di libertà di stampa numerose sono le norme che cercano di vincolare il giornalista a che egli riferisca la verità dei fatti. Un esempio lo si rinviene nella stessa legge sull'ordinamento della professione giornalistica dove, nella norma che individua i diritti e i doveri di tale operatore dell'informazione si legge: È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'inosservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti della lealtà e della buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino essere inesatte, e riparati gli eventuali errori. Le Sezioni unite in relazione al requisito della veridicità della notizia hanno osservato che la necessaria correlazione tra l'oggettivamente narrato ed il realmente accaduto importa l'inderogabile necessità di un assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto riferito, risultando inaccettabili valori sostitutivi di essa, quali quello della veridicità o della verosimiglianza dei fatti narrati, nonché lo stretto obbligo di rappresentare gli avvenimenti tali quali sono (senza sedicenze o somiglianze). La successiva giurisprudenza di legittimità ha ribadito come […] prescindendo da ogni controversia opinione filosofica sull'argomento, per verità ai fini che qui interessano, deve intendersi la sostanziale corrispondenza (adaequatio) tra fatti come accaduti (res gestae) e i fatti come sono narrati (historia rerum gestarum). Solo la verità come correlazione rigorosa tra il fatto e la notizia soddisfa alle esigenze della informazione e riporta l'azione nel campo dell'operatività dell'art. 51 c.p., rendendo non punibile l'eventuale lesione della reputazione altrui. Tuttavia, come osserva il supremo Collegio, è opportuno tenere distinta l'ipotesi in cui il fatto narrato sia stato percepito direttamente dal cronista, dall'ipotesi in cui del fatto narrato il cronista abbia conoscenza indiretta attraverso l'interpolazione di altra persona; in questa secondo ipotesi la notizia è da considerarsi “vera” se essa in ragione di fatti, comportamenti e situazioni, sia ragionevolmente attendibile. |