Anche per la Cassazione la sentenza di fallimento è una condizione di punibilità
14 Aprile 2017
Massima
Nell'ambito dei reati di bancarotta, la dichiarazione di fallimento, in quanto evento estraneo all'offesa tipica e alla sfera di volizione dell'agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità, che restringe l'area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento. Il caso
Un imprenditore, condannato in sede di merito per il reato di bancarotta fraudolenta, ricorreva in Cassazione sollevando un tema sempre più frequentemente portato all'esame dei giudici di legittimità nei processi per tale tipologia di illeciti. In particolare, il ricorrente lamentava che la sentenza di secondo grado non avrebbe fatto chiarezza circa la prevedibilità da parte dell'imputato del futuro stato di dissesto della sua azienda. Secondo la difesa, infatti, l'imputato avrebbe, in epoca anteriore al fallimento, posto in essere condotte in sé neutre ed anzi lecite, in quanto espressive della libertà dell'imprenditore di gestire i propri beni: di contro, posto che la dichiarazione di fallimento è elemento costitutivo del reato, per la sussistenza del reato di bancarotta il fallimento stesso deve essere preveduto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale. La questione
La natura della sentenza dichiarativa di fallimento è uno dei più discussi nell'ambito del diritto penale. In realtà, per molto tempo la giurisprudenza non ha manifestato incertezze in proposito. Abbandonate tesi più risalenti, che vedevano nella sentenza dichiarativa di fallimento una condizione di procedibilità dell'azione penale o una questione pregiudiziale relativa allo status di fallito, la Cassazione in maniera assolutamente costante ha affermato la tesi secondo cui il provvedimento giurisdizionale è una condizione di esistenza del reato o elemento costitutivo dello stesso, con la conseguenza che ogni pregressa condotta penalmente rilevante, antecedente alla sentenza, viene ricondotta e fissata alla pronuncia giudiziale (orientamento ormai stabilizzato, dopo le Cass. pen., Sez. un. del 25 gennaio 1958, n. 2; mentre più di recente cfr. Cass. pen., Sez. V, 3 ottobre 2013, n. 38325, Ferro; Cass. pen., Sez. un., 26 febbraio 2009, n. 24468, Rizzoli). Da tale considerazione, tuttavia, la stessa giurisprudenza nega debba conseguire - come sosteneva il ricorrente nel procedimento concluso con la decisione in commento - che l'imprenditore debba volere la dichiarazione di fallimento o quanto meno essere consapevole del possibile intervento dell'autorità giurisdizionale o dello stato di decozione dell'azienda (Cass. pen., Sez. V,7 settembre 2015, n. 5010, Zammarchi; Cass. pen., Sez. V, 17 luglio 2014, n. 47616, Simone): pur trattandosi di un elemento costitutivo del reato di bancarotta la dichiarazione di insolvenza ne rappresenta però una mera condizione di esistenza, cioè un elemento costitutivo non significativo, per il quale non vi sarebbe la garanzia costituzionale di rimproverabilità al soggetto agente (tesi ritenuta non contrastante con il principio di colpevolezza di cui all'art. 27 Cost.: cfr., in proposito, Corte cost., n. 110 del 1972). La tesi giurisprudenziale è – anche in ragione della contraddizione sopra indicata – da sempre contestata in dottrina, secondo cui il suddetto atto giurisdizionale sarebbe una condizione obiettiva di punibilità, ossia un evento successivo alla condotta penalmente rilevante la cui sussistenza, per ragioni di opportunità, è considerata necessaria dal legislatore per la punibilità del fatto. La stabilità di questo quadro, che vedeva giurisprudenza e dottrina assolutamente contrapposta, è venuta meno dopo l'intervento di una decisione della V Sezione della Cassazione (Cass. pen, Sez. V, 24 settembre 2012, n. 47502, Corvetta e altri), secondo cui la dichiarazione di fallimento rappresenta l'evento del fatto di bancarotta con le conseguenze che da tale affermazione derivano, ovvero a) la necessità di un nesso causale fra la distrazione patrimoniale – o la confusione contabile – e la sentenza che accerta l'insolvenza; b) la necessità che l'imprenditore, al momento in cui tiene la condotta vietata dagli artt. 216 r.d. n. 267 del 1942, voglia determinare – o comunque si rappresenti la possibilità che ne derivi – il fallimento della sua impresa. La posizione della sentenza Corvetta è stata però subito sconfessata dalla stessa giurisprudenza e non apprezzata da gran parte della dottrina. Pur se apprezzata per lo sforzo di riportare il reato di bancarotta fraudolenta prefallimentare nell'alveo dei principi costituzionali, la suddetta tesi in base alla quale il reato di cui all'art. 216, comma 1, n. 1 r.d.267 del 1942 richiederebbe un nesso causale fra l'atto distrattivo e l'insolvenza dell'impresa è palesemente insostenibile per una pluralità di ragioni ricavabili sia dalla lettera della norma che da considerazioni di carattere più generale attinenti la condotta dell'imprenditore dichiarato fallito. In ordine al primo profilo, è agevole constatare come il rapporto eziologico fra la condotta vietata ed il dissesto della società è previsto, nella legge fallimentare, dal solo art. 223, comma 2, n. 1 con esclusivo riferimento alle ipotesi di bancarotta da reato societario, il cui elemento soggettivo è del tutto diverso da quello che caratterizza le condotte vietate dall'art. 216 della stessa legge, di conseguenza non si comprende come possa l'interprete richiedere per le fattispecie richiamate dal citato art. 216 un requisito - ovvero il nesso di causalità con l'insolvenza della società – che il Legislatore non ha nel caso di specie richiesto, a differenza di quanto invece si verifica con riferimento ad altri reati previsti nel medesimo testo normativo. In secondo luogo, la tesi secondo cui il reato di bancarotta prefallimentare si realizza e si perfeziona solo con la pronuncia della sentenza di fallimento non è coerente con la previsione contenuta nell'art. 238, comma 2, r.d. 267 del 1942giusto la quale il pubblico ministero può esercitare l'azione penale ed adottare misure cautelari prima della pronuncia giudiziale di insolvenza, sicché – in ragione di tali poteri investigativi e coercitivi attribuiti all'organo inquirente – è da ritenere che l'illiceità della condotta dell'imprenditore sussista prima ed indipendente della pronuncia giudiziale. Infine, la ricostruzione del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare è in insanabile contraddizione rispetto alla disciplina in tema di bancarotta semplice patrimoniale: come detto da un illustre autore, l'imperativo che sgorgherebbe dalla norma relativa alla bancarotta fraudolenta prefallimentare sarebbe: non cagionare il fallimento! Nello stesso tempo, l'imperativo - rivolto all'imprenditore - che sgorga alla norma incriminatrice la bancarotta semplice patrimoniale sarebbe: sei legalmente tenuto a richiedere il tuo fallimento! È evidente l'antinomia e ciò porta ribadire un'osservazione spesso ripetuta: il fallimento non può far parte della fattispecie sostanziale della bancarotta perché è impossibile che una pronuncia giudiziaria - cioè un atto del giudice - sia componente del reato e che la legge ordini al bancarottiere di portare a compimento il proprio illecito penale (GIULIANI BALESTRINO, 182). Nell'ambito una riflessione di ordine più generale, poi, la tesi prospettata dalla Cassazione non considera come sia assolutamente incongruo subordinare la punibilità dell'imprenditore alla circostanza che egli non solo si rappresenti la possibilità di fallire ma voglia anche pervenire a tale esito: come correttamente sottolineato da un autore, l'imprenditore - nella grande maggioranza dei casi - non vuole fallire per cui a seguire la posizione giurisprudenziale sopra esaminata diventerebbero non punibili moltissimi fatti di bancarotta e verrebbe posto a carico dell'accusa l'onere di una prova quasi sempre diabolica (GIULIANI BALESTRINO cit., 166. Nello stesso senso, PANTANELLA). In secondo luogo, la posizione che si sta criticando rischia di mandare esenti da pena comportamenti che sicuramente realizzano un depauperamento del patrimonio aziendale ma che al contempo non possono qualificarsi come causativi del dissesto dell'impresa; si pensi ad esempio a fatti di bancarotta che si verificano quando il fallimento è ormai sicuro, certo ed inevitabile: in tali ipotesi, aderendo alla posizione minoritaria della giurisprudenza che stiamo criticando, si dovrebbe sostenere che non vi è alcun illecito in quanto il fallimento era ormai prossimo e quindi l'ultima distrazione non ha determinato l'insolvenza ormai già in atto (è il caso, di frequente verificazione, in cui al momento della condotta illecita tenuta dall'imprenditore era già stata presentata una istanza di fallimento poi accolta dal tribunale per motivi del tutto diversi dalle conseguenze patrimoniali svantaggiose derivanti dall'ultimo atto di distrazione). Le soluzioni giuridiche
La decisione in commento prende atto da un lato del contenuto della decisione Corvetta e delle esigenze cui essa voleva rispondere – e cioè evitare di rinvenire, all'interno dei reati di bancarotta, la presenza di un elemento costitutivo, non coperto dal dolo del soggetto agente – e dall'altro ne evidenzia le insufficienze, condividendo le critiche che a tale decisione sono state mosse e che abbiamo sopra illustrato. In particolare, secondo i giudici di legittimità la tesi secondo cui la sentenza di fallimento sarebbe un elemento costitutivo del reato di bancarotta origina da un equivoco di fondo e cioè che l'imprenditore, disponendo ad libitum dei beni aziendali, pone in essere condotte in sé lecite in quanto espressive delle facoltà connesse al diritto di proprietà di cui è titolare. Si legge infatti nella predetta decisione che il depauperamento del patrimonio sociale ai danni della classe creditoria si verifica solamente nel momento in cui, non essendo più possibile far fronte alle proprie obbligazioni, l'imprenditore diventa insolvente e fallisce; sulla scorta di questo assunto deve farsi conseguire l'affermazione secondo cui, nella misura in cui solo con la dichiarazione di insolvenza vengono ad emersione i danni al ceto creditorio, non può attribuirsi rilevanza penale alle opzioni negoziali ed ai comportamenti dell'imprenditore che non abbiano cagionato – o quanto meno concorso a cagionare - il fallimento e che comunque siano stati posti in essere senza che il soggetto agente volesse determinare – o quanto meno si rappresentasse –l'insolvenza della società. In realtà, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di legittimità nella sentenza sopra menzionata, la diminuzione della garanzia è un evento pregiudizievole per i creditori di per sé ovvero prima ed indipendentemente dalla declaratoria fallimentare, come peraltro dimostra la presenza nell'ordinamento di molteplici rimedi - si pensi alle azioni revocatoria o surrogatoria o alla segnalazione al pubblico ministero ai sensi dell'art. 238, comma 2, r.d. 267 del 1942 – cui il creditore può far ricorso riconosciuti quando si avveda che il debitore sta ponendo in essere atti dannosi per la consistenza della sua garanzia. L'individuazione delle condotte penalmente rilevanti ai sensi degli artt. 216, comma 1 n. 1 e 223, comma 1, r.d. 267 del 1942 quindi non può essere operata soffermandosi sui riflessi causali che le scelte dell'imprenditore hanno sull'adozione della pronuncia giudiziale d'insolvenza giacché il disvalore penale dei fatti di bancarotta non è un riflesso retrospettivo del fallimento, ma si radica in una carica offensiva ad essi immanente, nella violazione di regole gestionali poste a protezione delle ragioni creditorie; l'imperativo violato dal bancarottiere non vieta di fallire, vieta di porre in essere condotte, sul piano patrimoniale e documentale, atte a pregiudicare il pieno soddisfacimento dei creditori (PEDRAZZI). In sostanza, i comportamenti tipizzati nelle fattispecie di bancarotta esprimono compiutamente – nel momento stesso della loro realizzazione – il disvalore penale, inteso propriamente come l'offesa recata al bene giuridico tutelato (la garanzia dei creditori) (MUCCIARELLI, 9); la circostanza poi che il Legislatore subordini la punibilità di tali condotte alla pronuncia della sentenza che accerta lo stato d'insolvenza non sta ad indicare che solo al momento di tale decisione emerge la portata offensiva dei comportamenti dell'imprenditore giacché la dichiarazione di fallimento entra nella fattispecie non perché fondi o incrementi il disvalore intrinseco nei fatti di bancarotta, ma per mere ragioni di opportunità (… senza aggiungere) nulla all'offesa alle ragioni creditorie già insita nei fatti di bancarotta (PEDRAZZI, 109). Secondo la decisione in commento, dunque, l'imprenditore non è il dominus assoluto ed incontrollato del patrimonio aziendale; egli non ha una sorta di jus utenti ed abutendi sui beni aziendali, i quali, viceversa, pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto dell'imprenditore medesimo, sono finalisticamente vincolati, per così dire, “in negativo”, nel senso che degli stessi non può farsi un utilizzo che leda o metta in pericolo gli interessi costituzionalmente tutelati; ecco perché non è affatto necessario che il comportamento dissipativo del patrimonio aziendale presenti un'articolazione causale rispetto all'evento fallimento realizzandosi l'offesa agli interessi patrimoniali dei creditori già con l'atto depauperativo … [e] la dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l'offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell'imprenditore …. [ma] precludendo all'imprenditore ogni margine di autonoma risoluzione della crisi rende semplicemente applicabile (perché ritenuta necessaria dal legislatore) la sanzione penale. Ecco perché la dichiarazione di fallimento, in definitiva, in quanto evento estraneo all'offesa tipica ed alla sfera di volizione dell'agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità che restringe l'area del penalmente illecito, imponendo la sanzione penale solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento. Osservazioni
Difficile esagerare l'importanza della decisione in parola. Finalmente, la Cassazione esce dall'insostenibile equivoco conseguente alla qualificazione della dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo del reato, che però non doveva avere un legame causale rispetto alle condotte di bancarotta e non doveva essere oggetto di dolo da parte dell'imprenditore. Portando a termine un percorso spero con l'esplicita presa di posizione delle sezioni unite Passarelli (Cass. pen., Sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474, Passarelli) - le quali, dopo avere ribadito che non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell'autore e il dissesto dell'impresa, essendo sufficiente che l'agente abbia cagionato il depauperamento dell'impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, aggiunsero che la condotta si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva pre-fallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa - finalmente la suprema Corte qualifica espressamente la dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità. Sulla dichiarazione di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità si veda in dottrina:
MUCCIARELLI, La bancarotta distrattiva è reato d'evento, in Dir. pen. proc., 2013, 437; SPAGNUOLO, Revirement della Corte di Cassazione sulla natura giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento nella bancarotta fraudolenta per distrazione: nuovo inizio o caso isolato?, in Cass. pen., 2013, 2772; D'ALESSANDRO, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento: la Suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali, in Dir. pen. cont.; Più risalenti, cfr. AMBROSETTI, I reati fallimentari, in AMBROSETTI – MEZZETTI – RONCO, Diritto penale dell'impresa, Bologna 2008, 207; DE SIMONE, Sentenza dichiarativa di fallimento, condizioni obiettive di punibilità e nullum crimen sine culpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, 1145
In senso di apprezzamento verso la sentenza Corvetta: BALATO, Sentenze Parmalat vs. Corvetta: il dilemma della struttura della bancarotta fraudolenta, in Dir. pen. cont.; COCCO, Il ruolo delle procedure concorsuali e l'evento dannoso nel reato di bancarotta, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, 67; FIORELLA – MASUCCI, I delitti di bancarotta, in VASSALLI – LUISO – GABRIELLI (diretto da), Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorusali, III, Gli effetti del fallimento, Padova 2014, 921; LANZI, Interpretazione giurisprudenziale della bancarotta patrimoniale nel Sistema Penale, in Fall., 2013, 560; LANZI, La Cassazione "razionalizza" la tesi del fallimento come evento del reato di bancarotta, in Ind. pen., 2013, 117; MORETTI, Finalmente anche per la bancarotta valgono i principi costituzionali, in Riv. Pen., 2013, 288; SERENI, La bancarotta fraudolenta, in GHIA – PICCININNI – SEVERINI, Trattato delle procedure concorsuali, Milano 2012, 94; TROYER – INGRASSIA, Il dissesto come evento della bancarotta fraudolenta per distrazione: rara avis o evoluzione della (fatti)specie, in Soc., 2013, 335.
In senso contrario: GIULIANI BALESTRINO, Un mutamento epocale nella giurisprudenza relativa alla bancarotta prefallimentare, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2013, 157; D'ALESSANDRO, Reati di bancarotta e ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento: la suprema Corte avvia una revisione critica delle posizioni tradizionali, ivi; SANDRELL, Note critiche sulla necessità di un rapporto di causalità fra la condotta di distrazione e lo stato di insolvenza nel delitto di bancarotta “propria”, in Cass. Pen., 2013, 1429; ZANCHETTI, Incostituzionali le nuove fattispecie di bancarotta?Vecchi quesiti e nuove risposte (o magari viceversa), alla luce della giurisprudenza di legittimità sul ruolo del fallimento nella bancarotta fraudolenta prefallimentare, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2014, 111; VIGANÒ, Bancarotta fraudolenta: confermato l'orientamento tradizionle sull'irrilevanza del eausale fra condotta e fallimento, in Dir. pen. cont.
*** PANTANELLA, La Corte di cassazione e la damnatio memoriae della "sentenza Corvetta" in tema di bancarotta fraudolenta propria e nesso di causalità, in Cass. pen., 2015, 3720; PEDRAZZI, Reati fallimentari, PEDRAZZI – ALESSANDRI – FOFFANI – SEMINARA - SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell'impresa, 2^ ed., Bologna 1998, 107 |