Condizioni per l’obbligo di traduzione dell’ordinanza cautelare
13 Luglio 2015
Massima
Qualora sia applicata una misura cautelare personale nei confronti di un cittadino straniero che non è in grado di comprendere la lingua italiana, l'omessa traduzione del provvedimento determina la sua nullità solo se la predetta circostanza era già nota al momento dell'emissione del titolo cautelare; laddove invece la mancata conoscenza della lingua italiana emerge in un momento successivo, la traduzione dell'ordinanza applicativa della misura dovrà essere richiesta dallo straniero alloglotta nel corso dell'interrogatorio di garanzia ovvero con istanza ex art. 299 c.p.p., con la possibilità di proporre appello ex art. 310 c.p.p. in caso di rigetto, mentre il termine per proporre la richiesta di riesame avverso il titolo cautelare, ai sensi dell'art. 309 del codice di rito, decorrerà dall'avvenuta traduzione del titolo stesso. Il caso
A.D., tramite il fiduciario, propone ricorso avverso la ordinanza con la quale il tribunale del riesame ha confermato l'ordinanza di applicazione della custodia in carcere resa dal G.I.P. del tribunale medesimo in ragione delle imputazioni cautelari ivi meglio specificate. Invero, l'ordinanza impugnata risulta emessa in esito alla declaratoria di incompetenza del G.I.P. in sede di convalida del fermo di P.G. operato in origine ai danni del ricorrente; in sede di interrogatorio davanti al G.I.P., poi dichiaratosi incompetente, il ricorrente ha inteso avvalersi del diritto di non rispondere, senza sollevare questione alcuna in punto alla non conoscenza della lingua italiana; la questione non risulta sia stata sollevata neppure con il riesame interposto avverso la misura resa in esito alla trasmissione ex art. 27 c.p.p. Essa è comunque entrata in processo nel corso del riesame, in occasione della relativa udienza camerale, tanto da giustificare in quella sede la richiesta di annullamento articolata dalla difesa. Il ricorrente lamenta violazione dell'art. 143 c.p.p., per la mancata traduzione della ordinanza di custodia cautelare a fronte dell'accertata, in sede di riesame, non conoscenza della lingua italiana da parte dell'indagata, ritenuta erroneamente sanata dalla proposizione nel merito del riesame stesso; ancora, adduce la nullità della ordinanza resa dal tribunale, anche questa non tradotta.
La questione
La questione in esame è la seguente: se, anche in considerazione del sopravvenuto d.lgs. 32/2014 reso in attuazione della direttiva 2010/64/UE in tema di traduzione degli atti, il provvedimento di custodia cautelare debba essere in ogni caso tradotto in tempo utile a consentire all'imputato (indagato) alloglotto che non conosca la lingua italiana di averne piena conoscenza per lo svolgimento dei successivi atti di garanzia, pena la sua invalidità, pur quando il giudice abbia modo di apprendere che questi non conosce la lingua italiana solo dopo l'emissione del provvedimento indicato. Le soluzioni giuridiche
La mancata traduzione integra un vizio genetico che, se fosse stata accertata in fatto la non conoscenza al momento della convalida del fermo, avrebbe potuto in linea di principio caratterizzare la prima ordinanza. Ma poiché il provvedimento impugnato è bensì quello reso dal G.I.P. territorialmente differente e competente in esito alla trasmissione degli atti ex art. 27 c.p.p., che integralmente si sostituisce al primo, e atteso che non si è svolto alcun interrogatorio, il ricorrente:
Osservazioni
Per la giurisprudenza ai sensi dell'art. 143 c.p.p., come novellato dal d.lgs. 32/2014 reso in attuazione della direttiva 2010/64/UE, applicabile ratione temporis, gli atti che dispongono una misura cautelare personale e, dunque, l'ordinanza di custodia cautelare in carcere, vanno tradotti nella lingua dell'indagato entro un termine congruo, tale da consentire all'indagato il pieno esercizio delle relative prerogative difensive. Mentre è poi pacifico, per quanto espressamente indicato dalla citata norma, che solo la cittadinanza italiana fa presumere la conoscenza, fino a prova contraria, della lingua italiana, per altro verso deve ritenersi che la non conoscenza della stessa non è conseguenza immediata e automatica del fatto che l'indagato è di nazionalità e cittadinanza diversa. Piuttosto, spetta sempre al giudice che emette il provvedimento coercitivo, seppur d'ufficio, procedere al relativo accertamento, come si ricava dal comma 4 della citata disposizione normativa, che presuppone una discrezionalità di valutazione e non automatismi imprescindibili. La traduzione della ordinanza custodiale è obbligatoria ma la norma non precisa quali siano le conseguenze di una eventuale inosservanza del precetto, lasciando peraltro indeterminato anche il tempo entro il quale provvedere all'incombente in una materia, quella dell'intervento cautelare, nella quale alla compiutezza del diritto di difesa, la cui ratio resta sottesa all'intervento attuativo della direttiva oltre che alla direttiva stessa, si interseca l'ulteriore profilo, non meno rilevante, della immediatezza della tutela. La legge mantiene fermo il silenzio normativo, per cui può dirsi che la nuova disciplina non imponga valutazioni sostanzialmente differenti rispetto all'assetto precedente (Cass. pen., Sez. un., 24 settembre 2003, n. 5052). La distinzione fondata sul momento di apprensione della mancata conoscenza. Per consolidata giurisprudenza (Cass. pen., Sez. un., 24 settembre 2003 n. 5052) occorre distinguere l'ipotesi in cui già dagli atti, al momento di emissione della misura, emerga la non conoscenza della lingua da parte del destinatario dell'intervento cautelare , costituendo questo un vizio genetico del provvedimento coercitivo, dall'ipotesi in cui siffatto dato emerga successivamente. Nel primo caso, il provvedimento è affetto da nullità, non assoluta ma a regime intermedio, destinata dunque a rimanere sanata ex art. 183 c.p.p., al verificarsi dei presupposti (sul tema, si consideri in senso contrario tuttavia il portato immediatamente precettivo della direttiva che non sembra consentire rinunzie tacite e comportamenti concludenti sananti quali quelli che sarebbero desumibili dal tenore tipizzato dall'art. 183 c.p.p.). Nel secondo caso, la mancata traduzione non incide sulla validità dell'atto ma solo sulla compiutezza dello stesso che rimane privo della idoneità a produrre i relativi effetti in ordine agli spazi difensivi che allo stesso risultano immediatamente correlati: in primo luogo, avuto riguardo al puntuale esercizio delle prerogative difensive da concretare con la proposizione del riesame. Da tale distinzione di principio, seguono i seguenti corollari: solo l'ordinanza non tradotta emessa nella consapevolezza del dover procedere a tanto per la ignoranza della lingua italiana da parte del destinatario della misura giustifica il rimedio del riesame, che presuppone la presenza di vizi invalidanti la legittimità, intrinseca e genetica, del provvedimento cautelare; se, invece, l'obbligo di traduzione emerge successivamente, l'eventuale inottemperanza, senza inficiare a monte il provvedimento, finisce solo per intaccarne la piena efficacia: andrà fatta valere, in coerenza, esclusivamente innanzi al giudice che ha emesso il provvedimento, chiamato a valutare l'effettiva ignoranza della lingua italiana quale presupposto in fatto imprescindibile per procedere alla traduzione. Da questo momento, quello della avvenuta traduzione, decorrerà poi il termine per la proposizione del riesame, altrimenti irritualmente articolato nei confronti di un vizio diverso da quelli attratti alla competenza del tribunale ex art. 309 c.p.p. Ne discende che, attivato sul punto il giudice della cautela, o nel corso dell'interrogatorio di garanzia o se del caso tramite il veicolo processuale ex art. 299 c.p.p., in caso di inottemperanza all'obbligo di traduzione potrà essere attivato l'appello ex art. 310 c.p.p., in esito al quale, accertata siccome fondata la prelativa pretesa, il tribunale dovrà disporre la trasmissione degli atti al G.I.P. perché provveda in tal senso. |