Ricettazione: l'onere di allegazione in capo all'imputato non è onere della prova della sua innocenza

Paola Borrelli
13 Giugno 2017

Se il silenzio o l'indicazione lacunosa della provenienza di un telefono cellulare da parte del suo possessore possano essere considerati sintomatici della sua consapevolezza circa la provenienza delittuosa del bene ovvero se pretendere tale precisa indicazione significhi invertire l'onere della prova a carico dell'imputato.
Massima

Quando il possessore di un cellulare rubato non fornisca una spiegazione attendibile ovvero quando taccia del tutto circa l'origine del possesso, salvo che non emerga che sia lui stesso l'autore del furto, deve rispondere di ricettazione, senza che ciò determini un'inversione dell'onere della prova.

La ricettazione è compatibile con il dolo eventuale, laddove il recettore abbia consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta sia compendio di delitto, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l'ipotesi contravvenzionale dell'acquisto di cose di sospetta provenienza.

Il caso

La Corte di appello dell'Aquila aveva confermato – ancorché modificando la formula di proscioglimento in quella perché il fatto non costituisce reato – la sentenza di assoluzione del tribunale di Pescara emessa in un processo per ricettazione di un telefono cellulare.

La Corte abbruzzese aveva motivato la propria decisione escludendo che, alla ricettazione di un cellulare, potesse applicarsi il principio di diritto secondo cui è possibile valorizzare, come prova dell'elemento soggettivo del reato, l'omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta da parte del possessore del bene; a tale conclusione i giudici di secondo grado erano giunti ritenendo che tale atteggiamento non sia inequivocabilmente rivelatore della volontà di occultamento della provenienza – logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede – perché i cellulari, a differenza che gli assegni, i documenti d'identità e i beni mobili registrati, sono liberamente commerciabili e sono frequentemente commerciati, sicché pretendere l'indicazione delle circostanze dell'acquisto equivarrebbe ad invertire inammissibilmente l'onere della prova, a fortiori laddove il bene sia stato utilizzato solo sporadicamente.

La Corte aveva altresì escluso la possibilità di ripiegare – nel silenzio dell'imputato – sulla contravvenzione di cui all'art. 712 c.p. perché, in assenza di notizie riguardo alle circostanze dell'acquisto, il giudice non può valutare se essere siano o meno idonee ad ingenerare sospetti circa la provenienza illecita del bene.

Nel merito la Corte aveva anche valorizzato, in bonam partem, la circostanza che l'utilizzo del telefono fosse avvenuto, da parte dell'imputato, inserendovi una scheda a sé intestata, invece che con una scheda di un terzo, magari inesistente, il che – grazie al tracciamento del codice IMEI – avrebbe prevedibilmente consentito una sua celere identificazione.

Su ricorso del Procuratore Generale aquilano, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza, ritenendola «macroscopicamente erronea e lacunosa» nella ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sul tema e contestandone, di conseguenza, le conclusioni.

La questione

La questione in esame è la seguente: se il silenzio o l'indicazione lacunosa della provenienza di un telefono cellulare da parte del suo possessore possano essere considerati sintomatici della sua consapevolezza circa la provenienza delittuosa del bene ovvero se pretendere tale precisa indicazione significhi invertire l'onere della prova a carico dell'imputato.

Le soluzioni giuridiche

I giudici della seconda Sezione hanno preliminarmente censurato un errore di impostazione del ragionamento della Corte di appello, laddove hanno reputato essere stati confusi piani diversi, quello in fatto e quello in diritto, in quanto la sentenza impugnata lasciava intendere che la valenza del principio ivi affermato fosse legata anche alla circostanza che, nel caso di specie, vi era stato un utilizzo sporadico dell'apparecchio, evidentemente ritenuto sintomatico di una scarsa attenzione dell'imputato nei confronti del bene.

Altra argomentazione in fatto finita sotto la lente della Cassazione è quella concernente la valenza scagionante dell'utilizzo della scheda propria (siccome indicativa di buona fede, data la tracciabilità del dato), argomentazione rispetto alla quale i giudici romani hanno affermato che le leggi italiane attualmente vigenti non consentono il rilascio di schede SIM anonime – sicché non vi sarebbe valida alternativa all'uso della propria scheda - e che, inoltre, così opinando, si attribuirebbe a chi delinque una patente di competenza tecnica che non è detto che egli possegga.

Ma dove la scure dei giudici di legittimità ha colpito con particolare rigore è stato in ordine alla valenza contra reo della mancata indicazione del meccanismo di ricezione del bene da parte dell'imputato, esclusa dalla Corte d'Appello.

La Cassazione ha, in primo luogo, censurato che la Corte abruzzese non avesse tenuto conto dell'ampio panorama giurisprudenziale a disposizione; i giudici a quo, infatti, avevano – come si legge nella sentenza impugnata – omesso di valutare plurimi precedenti di legittimità concernenti anche specificamente la ricettazione di telefoni cellulari.

A quest'ultimo proposito, infatti, la Suprema Corte ha fatto riferimento a precedenti di legittimità (citando una serie di sentenze non massimate, ma contenute negli archivi della Corte di Cassazione, quali Cass. pen., Sez. VII, 21 ottobre 2014, n. 50288; Cass. pen., Sez. II, 17 ottobre 2014,n. 47407; Cass. pen. Sez. II, 15 luglio 2014, n. 43546; Cass. pen., Sez. VII, 1 luglio 2014, n. 42356), secondo cui la conoscenza della provenienza delittuosa del telefonino in capo all'autore del fatto può desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell'imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata – o non attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, certamente consequenziale alla coscienza di avere effettuato un acquisto illecito.

Tale filone si inserisce in quello, più ampio, precedente e successivo alla pronunzia impugnata, in cui la Corte di cassazione ha affermato detto principio per i veicoli (Cass. pen., Sez. II 25 maggio 2010, n. 29198; Cass. pen., Sez. II, 27 ottobre 2010, n. 41423; Cass. pen.,Sez. I, 13 marzo 2012, n. 13599; Cass. pen., Sez. II, 10 novembre 2016,n. 52271), per gli assegni (Cass. pen., Sez. II, 26 novembre 2013,n. 50952), per un escavatore (Cass. pen., Sez. II, 22 ottobre 2013, n. 5522), per dei dipinti (Cass. pen., Sez. II, 1 giugno 2016,n. 37775) e per delle piante (Cass. pen., Sez. II, 7 settembre 2016,n. 43427).

La Corte, anche in questa occasione, come anche si era precisato in alcune delle pronunzie sopra citate, ha tenuto a puntualizzare che la valenza “salvifica” per la sua posizione attribuita alle spiegazioni dell'interessato non significa che vi sia un'inversione dell'onere della prova, che è e resta a carico della parte pubblica.

Quello che viene in gioco, al contrario, è un onere di allegazione di elementi – non implausibili – da sottoporre al vaglio del giudicante e al contraddittorio delle parti, sì da consentire un approfondimento istruttorio, ove possibile, ovvero, comunque, se del caso, una valutazione di immediata consistenza scagionante sulla base del principio del libero convincimento del giudice.

D'altra parte – ricordano i giudici di legittimità – tale principio si è da tempo consolidato anche quanto all'individuazione della qualificazione giuridica nel non sempre facile discernimento tra furto e ricettazione (in tema cfr. anche Cass. pen., Sez. unite, 12 luglio 2007, n. 35535) laddove si è dato rilievo, oltre che al profilo della contiguità temporale tra furto e scoperta del possesso del bene in capo all'interessato, anche alle spiegazioni che quest'ultimo possa fornire in ordine al luogo dove la sottrazione è avvenuta ovvero alle circostanze di essa. Si tratta di un'operazione interpretativa in cui le dichiarazioni del possessore del bene furtivo sono essenziali, anche se esse devono essere vagliate con estrema severità poiché egli potrebbe avere interesse, data la possibilità di abbattimento della pena per il furto, ancorché pluriaggravato, ad opera delle attenuanti, a dipingersi come ladro e non già come ricettatore.

Questa direttrice esegetica, di particolare rigore, è in sintonia con l'interpretazione che la giurisprudenza di legittimità formatasi sulla ricettazione ha elaborato in materia di elemento psicologico, che può essere anche solo quello del dolo eventuale. Tale coefficiente, com'è noto, ricorre laddove il soggetto agente si sia rappresentato la concreta possibilità della provenienza delittuosa del bene ed abbia accettato il rischio che quest'ultimo abbia tale derivazione (siamo al di là della mera mancanza di diligenza nella verifica pur in presenza di indici di sospetto, propria della contravvenzione di cui all'art. 712 c.p. cfr. Cass. pen., Sez. un., 26 novembre 2009,n. 12433, Cass. pen., Sez. I, 17 giugno 2010,n. 2754).

La Corte ha anche constatato l'assenza di argomentazioni che giustificassero – nel merito – lo scostamento dei giudici di appello dai precedenti sì consolidati, rimarcando che, se è pur vero che la compravendita di telefoni avviene legittimamente anche nel mercato dell'usato, è anche vero che non si tratta di beni di infimo valore e che, nel caso di specie, il furto del corpo del reato risaliva a cinque giorni prima l'accertamento della disponibilità dell'apparecchio in capo all'imputato, il che collocava la ricezione talmente vicino nel tempo da rendere inverosimile una mancanza di ricordi sul punto.

Osservazioni

La sentenza si pone nel solco tracciato da anni nella giurisprudenza di legittimità, che attribuisce un significato univoco al silenzio o al mancato ricordo dell'identità del cedente o delle modalità di acquisto di beni ai fini della prova della consapevolezza della provenienza delittuosa di essi; tale regola di giudizio soccorre rispetto ad un momento probatorio critico, laddove si tratta spesso – salvo atteggiamenti esteriori eclatanti o circostanze di acquisto aliunde accertate e inequivocabilmente indicative di mala fede dell'acquirente, ovvero salvo beni talmente manipolati da appare ictu oculi rubati – di una probatio diabolica perché avente ad oggetto circostanze interne alla persona del colpevole.

Si tratta di un orientamento consolidato che si traduce, nella pratica, in protocolli investigativi prima (si pensi, per esempio, alle innumerevoli indagini c.d. a ritroso sulla ricettazione assegni, che la pratica conosce) ed in schemi istruttori altrettanto consolidati poi.

Tuttavia, pensare che ciò conduca ad un'inversione dell'onere della prova significa, a parere di chi scrive, trincerarsi dietro un'interpretazione formalistica della presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma 2, Cost. e dei ruoli all'interno del processo, trascurando che, di fronte ai nutriti momenti informativi necessari per la celebrazione di un processo – che mettono l'imputato e il suo difensore nella condizione di conoscere perfettamente l'accusa, gli atti processuali e di predisporre le proprie strategie – deve esistere un dovere dell'imputato di attivarsi e di mettere a conoscenza il giudice di quanto necessario a sua difesa.

In altri termini, pensare ad un processo statico, in cui l'imputato – naturalmente messo in condizioni di conoscere e di interloquire – può permettersi di attendere che sia il P.M. a dimostrare finanche il suo atteggiamento interiore, nella specie la sua consapevolezza della provenienza delittuosa del bene ricevuto – quando è in possesso di tutte le informazioni e l'assistenza necessaria per veicolare al giudice le eventuali informazioni necessarie per consentire la ricostruzione dei meccanismi ricettivi – equivale a trasformare le regole fondanti del nostro sistema processuale in un privilegio, sfornito della benché minima logica di garanzia.

Si badi – la Corte lo ha precisato molto chiaramente – questo non significa che l'imputato debba provare la propria innocenza ovvero debba necessariamente fornire ogni informazione utile a tracciare dettagliatamente il percorso fatto dal bene, ma significa esigere che egli consegni al contraddittorio informazioni tali da poter essere verificate o semplicemente vagliate, anche al fine di fondare da sole una pronunzia di assoluzione, perché ritenute plausibili.

L'impostazione seguita dalla Corte di cassazione anche in questa circostanza – sulla scia dei numerosi precedenti conformi – pone, quindi, un tema più generale che è quello del grado di attivismo che deve contrassegnare l'imputato in un processo come quello odierno, dove è divenuto veramente difficile – si pensi, tra l'altro, alla legge 67/2014 sull'assenza – essere processati senza saperlo e senza conoscere le “carte”, poste a disposizione dell'indagato e del suo difensore non più tardi dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Di fronte a tale assetto – e sempre a condizione che ogni onere informativo gravante sul P.M. o sul giudice sia stato regolarmente assolto – la mancata partecipazione al processo o la partecipazione silente o, ancora, l'offerta di dichiarazioni vaghe o insufficienti devono essere considerati – ancorché espressione di scelte processualmente legittime – anche come comportamenti concludenti idonei a dimostrare che il soggetto non possa dare informazioni utili a chiarire la propria posizione.

Guida all'approfondimento

G.P. DEMURO, Il dolo eventuale: alla prova del delitto di ricettazione, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 2011, pag. 308;

M. DONINI, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. le sezioni unite riscoprono l'elemento psicologico, in Cassazione Penale, fasc.7-8, 2010, pag. 2555;

C. QUAGLIERINI, In tema di onere della prova nel processo penale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 1998, pag. 1255.

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