Bancarotta impropria da reato societario e nuova formulazione del reato di false comunicazioni sociali
09 Novembre 2015
Massima
A seguito delle modifiche apportate dalla l. 69 del 2015 agli artt. 2621 e 2622 c.c., l'ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali risulta ridotto, con esclusione dei cosiddetti falsi valutativi. Devono essere verificati, alla luce dei criteri previsti dall'art. 2 c.p. in materia di successione di leggi penali, gli ambiti applicativi della nuova fattispecie di false comunicazioni sociali i cui fatti sono richiamati dall'art. 223, comma 2, n.1 della legge fallimentare. La valutazione di qualcosa di inesistente, ovvero l'attribuzione di un valore ad una realtà insussistente costituisce l'esposizione di un fatto materiale non rispondente al vero. Il caso
Con distinti ricorsi presentati dai numerosi imputati, la Corte di cassazione viene chiamata a valutare la legittimità della sentenza d'appello che ha confermato le condanne per plurime ipotesi di bancarotta a carico degli amministratori e dei sindaci di una S.P.A. milanese. La condanna di primo grado, confermata pressoché integralmente in appello, riguardava numerosi fatti di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale, nonché ulteriori ipotesi di bancarotta impropria da falso in bilancio: l'accusa assumeva, in particolare, che l'attivo patrimoniale della società fallita presentasse crediti inesigibili, inesistenti o irrealizzabili nonché ulteriori irregolarità contabili quali l'iscrizione di crediti in violazione del principio di competenza e di immobilizzazioni finanziarie al valore di costo anziché a quello effettivo ovvero di valori di avviamento commerciale inesistenti, con sensibile alterazione della rappresentazione della situazione economico patrimoniale della società e conseguente contributo al dissesto di quest'ultima per il ritardo nell'attivare i rimedi previsti dall'art. 2446 c.c. e per il protratto ricorso al credito bancario.
I ricorsi degli imputati, articolati in molteplici motivi, deducono vizi di motivazione e di violazione di legge sostanziale e processuale in riferimento a tutti i capi d'imputazione: all'udienza di discussione del 16 giugno 2015, viene inoltre rilevato da alcuni difensori che solo due giorni prima è entrata in vigore la legge 27 maggio 2015, n. 69, che ha riformato la disciplina del falso in bilancio, della quale si chiede l'applicazione in relazione al reato di bancarotta impropria da reato societario. La questione
Tra le molteplici questioni poste all'attenzione della Corte la più rilevante, anche per la sua oggettiva novità, si presenta subito quella relativa all'impatto della l. 69 del 2015 sul reato di bancarotta impropria da reato societario: l'art. 9 della legge in questione ha, infatti, completamente riscritto gli artt. 2621 e 2622 c.c. i quali costituiscono disposizioni integrative dell'art. 223, comma 2, n. 1 l. fall. Si tratta di questione che, pur essendo stata sollevata in sede di discussione dalla difesa di alcuni imputati era, comunque, rilevabile d'ufficio da parte della Corte trattandosi di stabilire se e in quale misura sussista una continuità normativa tra le nuove e le vecchie disposizioni e, dunque, se possa trovare applicazione l'art. 2 del codice penale, come suggerito dai difensori.
In motivazione Prima di esaminare alcune delle questioni dedotte dalle parti in relazione ai reati sopra indicati, si deve analizzare l'incidenza sulla rilevanza penale dei fatti di bancarotta impropria per cui si procede della recente riforma introdotta con la L. 27 maggio 2015, n. 69, (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio - GU Serie Generale n. 124 del 30-5-2015 - in vigore dal 14 giugno 2015). Infatti, si pone il problema della continuità normativa tra la vecchia e la nuova formulazione delle disposizioni in materia di comunicazioni sociali, giacchè la condotta di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, è quella di aver cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società "commettendo alcuno dei fatti" previsti dal codice civile quali reati societari, tra i quali sono indicati quelli di falsificazione di cui agli artt. 2621 e 2622. È necessario, quindi, verificare se i fatti per cui si procede siano tuttora previsti dalla legge come reato, atteso che successivamente alla proposizione dei ricorsi in esame è entrata in vigore la citata L. n. 69 del 2015, che ha significativamente ridisegnato le fattispecie di false comunicazioni sociali previste dai testi degli artt. 2621 e 2622 c.c., vigenti all'epoca dei fatti e della pronunzia della sentenza impugnata. Le soluzioni giuridiche
Al fine di stabilire se ci si trovi di fronte ad un fenomeno di successione di leggi nel tempo con totale o parziale abolitio criminis, la Corte muove da una dettagliata analisi delle modifiche apportate dalla l. 69/2015 agli artt. 2621 e 2622 c.c., i quali oggi individuano due autonomi delitti con diverso trattamento sanzionatorio a seconda che la società nell'ambito dei quali sono commessi i fatti sia o meno quotata. Superando l'assetto introdotto dalla riforma del 2002, entrambi i delitti sono configurati quali reati di pericolo (sebbene debba trattarsi di pericolo concreto, come si desume dall'avverbio concretamente col quale si qualifica l'idoneità ingannatoria delle condotte di falsa comunicazione) mentre risultano eliminate la procedibilità a querela, per i fatti riferibili a società quotate, e le soglie di punibilità previste dai commi 3 e 4 dell'art. 2621 c.c. nel testo previgente. L'elemento soggettivo è sempre il dolo specifico ma viene meno la sua caratterizzazione come intenzionale; l'avverbio consapevolmente, esclude, inoltre, che si possa trattare di dolo eventuale. Restano identici, invece, i soggetti responsabili (i reati sono propri di amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili, sindaci e liquidatori) nonché l'oggetto materiale del reato, individuato nei bilanci, nelle relazioni e nelle altre comunicazioni dirette ai soci e al pubblico previste dalla legge (viene dunque confermata l'irrilevanza penale delle condotte che riguardano comunicazioni "atipiche", comunicazioni interorganiche e quelle dirette ad unico destinatario, sia esso un soggetto privato o pubblico.) Le condotte incriminate risultano, invece, parzialmente, ridefinite, dacché si richiede oggi che vengano esposti fatti materiali non rispondenti al vero che, per l'ipotesi prevista dall'art. 2621 c.c., devono anche essere rilevanti. Analogamente, nell'ipotesi di infedeltà per omissione, si passa dalle generiche informazioni ai fatti materiali rilevanti. Scompare, dunque, qualunque riferimento alle valutazioni previsto dal testo previgente. L'analisi ermeneutica della Corte entra, a questo punto, nel dettaglio di quest'ultima previsione pervenendo alla conclusione che l'eliminazione dei cosiddetti falsi valutativi dall'area di rilevanza penale è frutto di una precisa scelta del legislatore: lo confermano non soltanto i lavori parlamentari, ma anche la permanenza nel diritto penale societario di altre norme, come l'art. 2638 c.c., che fanno tuttora riferimento alle valutazioni. È dunque evidente, secondo la Corte, che l'eliminazione di qualsiasi riferimento alle valutazioni, anche nella descrizione della condotta omissiva, determina una riduzione di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali con esclusione della rilevanza penale dei fatti derivanti da un procedimento valutativo. Su tali premesse, la sentenza passa ad esaminare come la nuova disciplina si rifletta sui casi in esame in applicazione dei criteri previsti in materia di successione di leggi penali nel tempo, posto che l'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall. richiama i fatti previsti dagli artt. 2621 e 2622 c.c. Secondo la Corte, per quanto la maggior parte delle poste di bilancio rappresenti proprio l'esito di procedimenti valutativi, deve tuttavia considerarsi fatto materiale non corrispondente al vero anche la valutazione di qualcosa d'inesistente ovvero l'attribuzione di un valore ad una realtà insussistente. Inoltre, nei bilanci possono comunque rinvenirsi ipotesi di mendacio fondate esclusivamente su fatti materiali, come nel caso di ricavi “gonfiati”, di costi sostenuti ma sottaciuti, di rapporti di debito – credito fondati su fatture emesse per operazioni inesistenti, di crediti inseriti nel bilancio ma inesigibili per intervenuto fallimento senza attivo del debitore, di mancata svalutazione dei valori di partecipazione nonostante il fallimento della società partecipata. La decisione viene, conseguentemente, modulata in termini specifici sui singoli fatti di bancarotta impropria da reato societario contestati nell'imputazione: annullamento senza rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato per tutte le ipotesi in cui, sulla base dell'accertamento in fatto compiuto dai giudici di merito, le poste di bilancio siano risultate corrispondenti a realtà sottostanti e sussistenti; rigetto del ricorso laddove le condotte siano consistite nell'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero, nei termini sopra specificati. Osservazioni
La sentenza in commento ha il merito di aver fissato, “in tempo reale” e con motivazione ampia e coerente, i canoni interpretativi per risolvere la questione della continuità normativa tra la nuova formulazione dei delitti di false comunicazioni sociali e le fattispecie previgenti. Nel caso di specie, il rinvio non recettizio alle disposizioni penali societarie contenuto nell'art. 223 l. fall. fa sì che le modifiche subite dalle norme richiamate vengano immediatamente assorbite dalla legge fallimentare. A questo si aggiunga che la circostanza che la riduzione dell'area di rilievo penale riguardi l'elemento oggettivo del reato, libera l'interprete dalla necessità di approfondire quale sia la portata del rinvio contenuto nell'art. 223, l. fall. che, com'è noto, richiama i fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, etc., senza chiarire se tali debbano intendersi i “fatti tipici”, completi di tutti gli elementi costitutivi. Ciò premesso, la Corte non fa mistero di considerare negativamente la scelta del legislatore di eliminare ogni riferimento alle valutazioni dai reati di false comunicazioni sociali: la nuova formulazione (fatti materiali o fatti materiali rilevanti) sarebbe non solo incoerente rispetto alla prospettiva di maggior rigore sanzionatorio perseguito dalla riforma ma addirittura si presenterebbe pregna di genericità e poco rispettosa del principio di necessaria tipicità del precetto penale. In questo senso pare si debbano leggere i distinguo posti dalla Corte relativamente alle condotte di falsa, od omessa, esposizione di fatti connessi a valutazioni, che tuttora dovrebbero ritenersi incriminati laddove si basino su qualcosa di inesistente ovvero attribuiscano valore ad una realtà insussistente. Il criterio, infatti, è apparentemente semplice ma lascia aperta la strada ad interpretazioni estensive del precetto penale ogni qual volta, ad esempio, ci si trovi a che fare con la macroscopica ed irragionevole sopravvalutazione di una realtà comunque esistente. In tale caso, ricorrerebbe una delle ipotesi che, anche secondo la giurisprudenza formatasi prima della riforma del 2002 (quando il testo dell'art. 2621 c.c. limitava il riferimento ai fatti), rendeva la condotta penalmente rilevante. Com'è noto, però, la ragionevolezza è un concetto dai confini piuttosto labili e in mancanza di parametri oggettivi ai quali fare riferimento necessita, per esser definito, di lunghi e talora non del tutto lineari percorsi giurisprudenziali. Insomma, la carenza di tipicità lamentata nella motivazione della sentenza in commento diviene tanto più evidente quanto più ci si allontani dall'incontrovertibile dato di fatto della eliminazione dal testo degli artt. 2621 e 2622 c.c. di qualunque riferimento al falso valutativo. Pare, invece, certamente preclusa una lettura delle nuove disposizioni che resusciti la rilevanza penale di un'errata attività valutativa quando risulti comprovato che essa è stata scientemente e dolosamente diretta ad esporre attività o passività non rispondenti al vero: la maggiore intensità del dolo, infatti, non può influenzare la ricostruzione dell'elemento materiale della condotta, tanto più che l'elemento soggettivo del reato è comunque individuato nel dolo specifico. |