La registrazione della conversazione da parte di una persona presente
09 Maggio 2016
Massima
La registrazione di una conversazione telefonica, effettuata da uno dei partecipi al colloquio, costituisce la documentazione fonica di un fatto storico ed è utilizzabile in dibattimento come prova documentale ex art. 234 c.p.p., mentre la sua trascrizione rappresenta la mera trasposizione in forma grafica del contenuto. Il caso
La Corte di appello confermava la condanna di Tizio per i reati di violenza privata, minaccia, lesioni e molestia. Con il ricorso per cassazione, l'imputato deduceva l'inutilizzabilità del verbale di trascrizione di una conversazione telefonica, registrata dalla persona offesa, durante la quale egli stesso aveva profferito minacce di morte nei confronti della vittima. Questa trascrizione, realizzata dalla polizia giudiziaria, era stata acquisita al fascicolo del dibattimento dal tribunale, senza il consenso della difesa e rigettando la richiesta difensiva di disporre una perizia trascrittiva. La questione
La registrazione della conversazione da parte di uno dei presenti e l'utilizzo degli elementi probatori così ottenuti costituisce tuttora un tema che presenta aspetti problematici. Per coglierne la delicatezza si deve considerare che una simile registrazione ha spesso una notevole forza dimostrativa e, quindi, rappresenta una prova particolarmente utile per il giudizio. Essa, peraltro, può prestarsi all'aggiramento della disciplina dell'intercettazione e, dunque, delle garanzie previste dall'art. 15 Cost.; inoltre, rappresenta un atto intrusivo della sfera della riservatezza della persona che non è autorizzato da un'autorità giudiziaria, sebbene sia compiuto da un soggetto ammesso al dialogo e non "terzo" rispetto alla conversazione. Alla complessità dell'argomento aggiunge ulteriori aspetti l'evoluzione tecnologica che ormai permette all'agente di essere attrezzato per captare, oltre al suono, anche le immagini. La questione è particolarmente controversa nel caso in cui colui che realizza la registrazione ha ricevuto incarico dalla polizia giudiziaria ovvero agisce d'accordo con essa o, addirittura, impiega materiale fornito dagli organi investigativi, che, magari, ascoltano, in tempo reale, il colloquio o lo registrano a distanza. Le soluzioni giuridiche
La Corte ha rigettato il ricorso, aderendo all'orientamento secondo il quale la registrazione di una conversazione telefonica, come quella di un colloquio tra persone presenti, costituisce la documentazione fonica di un fatto storico. Essa integra una prova documentale, riconducibile all'art. 234 c.p.p., pienamente utilizzabile nel giudizio; esula dalla disciplina dell'intercettazione, perché è compiuta da una persona presente o ammessa al dialogo e questo anche se fosse stata effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria. Sul contenuto del colloquio, inoltre, la persona che ne è protagonista può rendere testimonianza. Legittimamente, dunque, secondo la decisione, è stata disposta nel processo l'acquisizione del supporto magnetico – nella specie, un Cd – che conteneva la registrazione e della relativa trascrizione. Quest'ultima, sebbene compiuta dalla polizia giudiziaria e non da un perito nominato dal giudice, ha svolto una funzione meramente riproduttiva della prova documentale. La Corte, infine, ha superato la questione relativa alla mancata effettuazione di una perizia trascrittiva rilevando che sul tenore del dialogo aveva deposto la persona offesa e che lo stesso imputato aveva ammesso di aver pronunciato le parole a lui contestate. Queste ulteriori risultanze probatorie avrebbero giustificato la condanna anche nel caso dell'eventuale espunzione della registrazione dal materiale probatorio. Osservazioni
La questione in esame è stata affrontata dalla giurisprudenza in una nota decisione, che ha sancito l'inutilizzabilità delle registrazioni realizzate, in modo segreto, da appartenenti alla polizia giudiziaria, durante colloqui con indagati, confidenti o persone informate sui fatti, perché si prestano all'aggiramento dei divieti in tema di prova dichiarativa (Cass. pen., Sez. unite, n. 36747/2003, Torcasio). Secondo questa sentenza, l'intercettazione presuppone l'occulta percezione del contenuto dichiarativo da parte di terzi estranei alla cerchia degli interlocutori. L'atto consiste in una captazione contestuale alla comunicazione o alla conversazione tra due o più soggetti che agiscono con l'intenzione di escludere gli altri, attuata da un soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato. La registrazione del dialogo da parte di uno dei presenti, invece, esula dall'intercettazione perché l'interlocutore è legittimamente ammesso alla conversazione. Il colloquiante, invero, potrebbe lamentarsi che il dialogo sia stato divulgato da colui che vi ha partecipato senza il suo consenso. Egli potrebbe dolersi della lesione della riservatezza della conversazione e, dunque, del corrispondente diritto della persona. Questo diritto, però, non trova fondamento nell'art. 15 Cost. e, comunque, cede di fronte all'esigenza di formazione della prova. La sentenza dapprima indicata non ha trattato la particolare situazione che si verifica quando la registrazione è stata effettuata da un soggetto che, nel corso delle indagini, opera in accordo con la polizia giudiziaria, da cui semmai è stato "attrezzato". Su quest'aspetto, su cui incidentalmente si sofferma la sentenza in commento, si registrano tuttora oscillazioni della giurisprudenza che ricalcano, esattamente, gli indirizzi elaborati prima della decisione delle Sezioni unite indicata. Secondo un orientamento, quantunque eseguita su suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe costituisce una prova documentale pienamente utilizzabile, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e pienamente legittimata a rendere testimonianza nel processo (Cass. pen., n. 6339/2013; Cass. pen., n. 6297/2010; Cass. pen., n. 16986/2009; Cass. pen., n. 12189/2005). Questo indirizzo si spinge fino a sostenere che la natura di documento non viene meno neppure se la polizia giudiziaria è messa in grado di ascoltare e di registrare contemporaneamente i dialoghi (Cass. pen., n. 14829/2009, in una fattispecie in cui la persona offesa, mentre dialogava, aveva lasciato in funzione il telefono cellulare al fine di consentire alle forze dell'ordine di ascoltare e di intervenire). Di segno opposto l'indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in assenza di autorizzazione del giudice, le registrazioni di conversazioni effettuate da un soggetto extraneus, dotato di strumenti di captazione predisposti e fornitigli dalla polizia giudiziaria, sono inutilizzabili perché realizzano un surrettizio aggiramento delle regole che impongono il ricorso a strumenti tipici per comprimere il bene costituzionalmente protetto della segretezza delle comunicazioni (Cass. pen., n. 42939/2012; Cass. pen., n. 44128/2008; Cass. pen., n. 3846/2000). Sul tema è intervenuta anche la Corte costituzionale: nel dichiarare inammissibile per ragioni processuali la questione sollevata su questo argomento, ha rilevato che le disposizioni del codice di rito sui documenti si riferiscono esclusivamente a ciò che è formato fuori dal procedimento e, comunque, non in vista né tantomeno in funzione del giudizio nel quale si chiede o si dispone che facciano ingresso. La registrazione fonografica eseguita da uno degli interlocutori d'intesa con la polizia giudiziaria e con strumenti da essa forniti, pertanto, non costituisce un documento ma va ricondotta alla nozione di documentazione di un'attività d'indagine. Essa potrebbe integrare una prova non disciplinata dalla legge ai sensi dell'art. 189 c.p.p. o, ledendo diritti meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., in particolare la riservatezza, necessiterebbe di un livello minimo di garanzie, rappresentato da un provvedimento autorizzativo motivato dell'autorità giudiziaria (Corte cost. n. 320/2009). Un indirizzo giurisprudenziale, recependo le indicazioni della Corte che, a loro volta, affondano le radici in un'altra nota sentenza della Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. unite, n. 26795/2006, Prisco), ha riconosciuto che la registrazione eseguita da un privato, su indicazione della polizia giudiziaria e avvalendosi di strumenti da questa predisposti, non costituisce un documento ma la documentazione di un'attività d'indagine, in considerazione dell'uso investigativo dello strumento di captazione che in tal caso viene realizzato. Una simile attività, a differenza della registrazione effettuata d'iniziativa di uno degli interlocutori, però, non incide solo sulla riservatezza ma anche sul diritto alla segretezza delle conversazioni tutelato dall'art. 15 Cost. e, quindi, richiede un controllo dell'autorità giudiziaria. Tale controllo, tuttavia, non implica la necessità di osservare le disposizioni relative all'intercettazione di conversazioni o comunicazioni di cui agli artt. 266 e ss. c.p.p. Essendo effettuate da uno dei partecipi alla conversazione, dette registrazioni implicano un minor grado di ingerenza nella sfera privata, limitata a quella del solo interlocutore ignaro, sicché, ai fini della tutela dell'art. 15 Cost., è sufficiente un livello di garanzia minore, rappresentato da un provvedimento motivato dell'Autorità giudiziaria, che può essere costituito anche da un decreto motivato del pubblico ministero (Cass. pen., n. 23742/2010; Cass. pen., n. 7035/2014; Cass. pen., n. 19158/2015, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto insufficiente, ai fini dell'utilizzabilità delle registrazioni, la mera autorizzazione orale del P.M). La soluzione accolta dall'orientamento giurisprudenziale appena illustrato si pone in una posizione mediana rispetto alle tesi contrapposte dapprima illustrate ed appare ispirata al buon senso. Tre sembrano i punti tuttora critici. Potrebbe legittimamente sostenersi che, rispetto alle prerogative dell'interlocutore ignaro della registrazione in corso, il grado di invasività dell'attività compiuta dall'agente attrezzato dalla polizia giudiziaria sia analogo a quello delle normali intercettazioni; dunque, non si giustificherebbe un minore grado di garanzie. Inoltre, non sembra possa correttamente sostenersi che il ricorso al provvedimento di cui all'art. 267 c.p.p., in particolare al decreto d'urgenza, non possa assicurare il rispetto delle esigenze di celerità dell'indagine, talvolta evocate per giustificare l'iniziativa autonoma della polizia giudiziaria. Il ricorso ad una sorta di principio di non sostituibilità dell'istituto tipico, immanente nel codice di rito, infine, dovrebbe condurre a censurare il mancato impiego delle intercettazioni, sostituite da un espediente investigativo. La soluzione ermeneutica illustrata, comunque, non sembra riferirsi al caso in cui l'agente sia attrezzato per consentire alla polizia giudiziaria di ascoltare, contestualmente, le conversazioni: questa situazione, francamente, appare del tutto assimilabile all'intercettazione e dovrebbe essere ricondotta a tale disciplina. Alla complessità dell'argomento aggiunge ulteriori aspetti l'evoluzione tecnologica che permette all'agente di essere anche attrezzato per captare, oltre al suono, anche le immagini. In questo caso, il problema della registrazione del suono si affianca a quello dell'immagine che va affrontato alla stregua dei principi elaborati dalla giurisprudenza. Le videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi in luoghi riconducibili al concetto di domicilio di cui all'art. 14 Cost., in assenza di una normativa che le consenta, disciplinandone i casi e i modi, debbono considerarsi inibite in assoluto: con la conseguenza che è vietata la loro acquisizione e utilizzazione nel processo, in quanto prova illecita. Le videoriprese in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio, ma meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost., per la riservatezza delle attività che vi si compiono, possono essere eseguite dalla polizia giudiziaria, ma rispettando un “livello minimo di garanzie”, rappresentato da un provvedimento autorizzativo motivato dell'autorità giudiziaria (Cass. pen., Sez. unite, n. 26795/2006, Prisco). La vicenda posta al vaglio della suprema Corte, però, presenta anche un altro profilo peculiare. Trattandosi di una registrazione che era stata compiuta su iniziativa della persona offesa, invero, appare corretto il riferimento alla nozione di prova documentale. È discutibile, invece, l'acquisizione al fascicolo del dibattimento del verbale della polizia giudiziaria che conteneva la trascrizione del colloquio, in difetto del consenso delle parti ai sensi dell'art. 493, comma 3, c.p.p., dinanzi alla richiesta della difesa di svolgere una perizia trascrittiva. Su questo specifico aspetto, la sentenza della suprema Corte si limita a richiamare le ulteriori risultanze probatorie, che avrebbero potuto fondare la decisione di condanna anche nel caso della declaratoria di inutilizzabilità della trascrizione effettuata dalla polizia giudiziaria. Guida all'approfondimento
CAMON, Le intercettazioni nel processo penale, Milano, 1996, p. 33; CAMON, Sub art. 266 c.p.p., in Conso, Illuminati (a cura di), Commentario breve al codice di procedura penale, Padova, 2015, p. 1014; CONTI, Intercettazioni ed inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, in Cass. pen. 2011, 3638 FILIPPI, L'intercettazione di comunicazioni, Milano, 1997, p. 30 FILIPPI, Intercettazioni, tabulati ed altre limitazioni della segretezza delle comunicazioni, in Spangher, Marandola, Garuti, Kalb, Procedura penale. Teoria e pratica del processo, Vol. I Soggetti. Atti. Prove (a cura di Spangher), 988, Torino, 2015; GAETA, È minore l'intrusione nella vita privata rispetto alla pura attività intercettativa, in Guida al diritto 2010, 38, 75. |