Il minore vittima di reati sessuali: credibilità ed utilizzabilità delle sue dichiarazioni
05 Gennaio 2016
Massima
Le dichiarazioni rese dal minore vittima di reati sessuali al consulente tecnico del P.M., officiato di un accertamento psicologico, esauriscono la loro funzione nella definizione delle risposte ai quesiti circa la credibilità del minore e la sussistenza di indici di abuso sessuale ma non possono essere utilizzate, neppure nel giudizio abbreviato, come fonte di prova per la ricostruzione del fatto, stante il divieto espresso di cui all'art. 228, comma 3, c.p.p. Al contrario, sono utilizzabili ai fini della decisione, le dichiarazioni rese dal minore vittima di reato agli assistenti sociali e contenute nelle relazioni dai medesimi svolte, acquisite con il consenso delle parti agli atti del fascicolo del dibattimento, in assenza di una riserva espressa di inutilizzabilità. Il caso
La Corte di cassazione rigettava i ricorsi presentati dai ricorrenti avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo nei confronti degli stessi, che confermava quella resa dal tribunale della medesima città, con la quale i predetti erano stati condannati per il reato di violenza sessuale di gruppo aggravata in pregiudizio di minori di anni dieci e per il reato di maltrattamenti in famiglia dei propri figli minorenni. La sentenza di condanna si fondava su plurimi elementi di prova, ravvisabili, in particolare, per il reato di violenza sessuale di gruppo, nelle dichiarazioni rese dalle vittime, dapprima agli assistenti sociali ed al consulente del P.M. e poi in sede di incidente probatorio, dalle testimonianze rese dai predetti assistenti sociali, dall'esito delle consulenza tecnica svolta dal consulente del P.M. in ordine alla capacità di rendere testimonianza dei minori ed alla loro credibilità clinica, da ulteriori elementi di riscontro, tra i quali la sentenza di condanna resa nei confronti dei coimputati. Per il reato di maltrattamenti gli elementi di prova venivano rilevati dalle dichiarazioni rese dai figli della coppia, dalle dichiarazioni rese dalla responsabile della casa famiglia ove i minori medesimi erano stati inseriti, dalle stesse dichiarazioni rese dai minori vittime di violenza sessuale. I ricorrenti impugnavano la sentenza dinnanzi alla suprema Corte sotto diversi profili, attinenti fondamentalmente alla attendibilità delle dichiarazioni rese dai minori vittime dei reati ed alle modalità di intervista degli stessi nel corso della consulenza psicologica espletata dal consulente del pubblico ministero, nonché all'utilizzabilità – quali fonti di prova – anche delle dichiarazioni rese dai minori al consulente e di quelle rese agli assistenti sociali. La questione
Le questioni in esame sono le seguenti: possono le dichiarazioni rese dai minori vittime di abusi al consulente tecnico nominato dal P.M. essere utilizzate come fonti di prova laddove la relazione di consulenza dal predetto svolta – contenente anche le dichiarazioni medesime – sia stata acquisita nel fascicolo del dibattimento, senza che alla detta acquisizione e conseguente utilizzazione si siano opposte le parti? Possono, altresì, essere utilizzate quali fonti di prova le dichiarazioni rese dai minori vittime di abusi agli assistenti sociali che si sono occupati degli stessi, dichiarazioni contenute nelle relazioni dai medesimi svolte ed acquisite al fascicolo del dibattimento, senza che a tale acquisizione e conseguente utilizzazione si siano opposte le parti? Le soluzioni giuridiche
Con riferimento alle questioni in esame, la Corte di cassazione, nella sentenza di cui è commento opera una distinzione fra le dichiarazioni rese dai minori vittime di reato al consulente del P.M. e le dichiarazioni che il minore fornisce ad altre figure professionali, quali gli assistenti sociali, ritenendo solo queste ultime utilizzabili a fini probatori, laddove acquisite al materiale probatorio dibattimentale con il consenso delle parti. Ed invero, per le prime la questione della loro utilizzabilità o meno discende dal divieto posto dall'art. 228, comma 3, c.p.p. per cui le dichiarazioni raccolte dal consulente possono essere utilizzate unicamente ai fini dell'accertamento peritale. Come è noto, infatti, con le previsioni di cui agli artt. 431, comma 2, e 493, comma 3, c.p.p., viene rimesso alle parti un vero e proprio potere dispositivo all'acquisizione al fascicolo del dibattimento di atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. Tale potere dispositivo incontra però un limite invalicabile, derivante dall'impossibilità di utilizzare atti probatori assunti contra legem. E dunque, mentre, non rileva l'inutilizzabilità c.d. fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in quanto in tal caso il vizio-sanzione dell'atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo, va invece attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell'inutilizzabilità c.d. patologica, inerente, cioè, agli atti probatori assunti la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto in tutte le fasi del procedimento. Pertanto, il divieto di cui all'art. 228, comma 3, c.p.p. viene, con la sentenza in esame, posto come divieto assoluto all'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa al consulente e, pertanto, non superabile neanche dal consenso alla loro acquisizione formulato dalle parti. Tale sentenza è conforme al principio già espresso da recente sentenza emessa sempre dalla terza Sezione, con cui veniva sancita l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal minore vittima di reati sessuali al perito o al consulente tecnico officiato di un accertamento personologico in sede di giudizio abbreviato, come fonte di prova per la ricostruzione del fatto (cfr. sentenza Cass., Sez. III, 19 maggio 2015, n. 36351). Precedentemente la Corte di cassazione aveva, al contrario, rilevato, proprio con riferimento ad un caso di utilizzazione di consulenza psicopedagogica disposta in procedimento per reato di violenza sessuale su minore contenente la descrizione, da parte della persona offesa, degli abusi subiti, come l'inutilizzabilità delle notizie che il perito o il consulente riceva, in sede di espletamento di incarico, dall'imputato, dalla persona offesa o da altre persone, non ha natura patologica bensì fisiologica, sicché il contenuto della consulenza tecnica disposta dal P.M. può essere legittimamente utilizzato nel rito abbreviato, ai fini di prova della responsabilità dell'imputato, anche con riguardo a dette notizie” (cfr. Cass., Sez. III, 11 novembre 2008, n. 2101). Osservazioni
Con la sentenza in esame si consolida, dunque, il principio secondo il quale le dichiarazioni rese al consulente od al perito dal minore afferenti il fatto-reato, non possono essere utilizzate quali fonti di prova, neanche con il consenso delle parti e, pertanto, neanche in sede di giudizio abbreviato. Al contrario le dichiarazioni rese dal minore a diverse figure professionali, quali gli assistenti sociali, possono essere utilizzate, in caso di giudizio abbreviato o comunque di consenso prestato al loro inserimento nel fascicolo dibattimentale, quali elementi di prova. Tali ultime dichiarazioni, infatti, non subiscono la limitazione derivante dal disposto di cui all'art. 228, comma 3, c.p.p., trattandosi di informazioni che gli assistenti sociali ricevono dal minore nell'ambito dello svolgimento di un'attività professionale, che non trova origine in un incarico di consulenza affidato dall'Autorità giudiziaria. Per questo motivo le predette dichiarazioni incontrano i medesimi limiti di utilizzabilità delle dichiarazioni ricevute da soggetti terzi, (quali possono essere, ad esempio, gli insegnanti dei minori o persone ai quali per ragioni di cura i medesimi vengono affidati), trattandosi di dichiarazioni de relato che, una volta entrate nel patrimonio probatorio del processo, possono essere pienamente utilizzate quali riscontri esterni delle dichiarazioni accusatorie rese dalle vittime. La sentenza in commento chiarisce altresì, come il consenso prestato dalle parti all'inserimento nel fascicolo del dibattimento delle relazioni degli assistenti sociali, contenenti le informazioni assunte dai minori loro affidati, in mancanza di una riserva espressa all'inutilizzabilità delle predette, ha reso l'atto medesimo utilizzabile nella sua interezza, non potendosi discutere ex post, in presenza di un atto complesso, quali siano le parti dell'atto per le quali il consenso era stato o meno prestato. In conseguenza degli enunciati principi, le dichiarazioni che il consulente riceve dal minore nel corso dell'attività di consulenza rileveranno unicamente ai fini della risposta ai quesiti oggetto dell'incarico, apparendo comunque fondamentali per le conclusioni inerenti la capacità a testimoniare dei medesimi e la c.d. credibilità clinica. Ed invero, come è noto, la valutazione del contenuto delle dichiarazioni rese da persona offesa minorenne, in tema di reati contro la libertà sessuale , oltre a non sfuggire alle regole generali in materia di testimonianza della persona offesa, richiede la necessità di accertare da una parte la c.d. capacità a deporre, ovvero le competenze cognitive e l'attitudine psichica , rapportate all'età , a memorizzare gli eventi ed a riferirne in modo coerente e compiuto e, dall'altra parte, il complesso delle situazioni che riguardano la sfera interiore del minore, il contesto delle relazioni in ambito familiare ed extra familiare ed i meccanismi psicologici di rielaborazione delle vicende vissute (c.f.r. ex plurimus Cass., Sez. III, 26 settembre 2007, n. 39994) Nella sentenza in esame l'apporto tecnico della consulenza espletata sui minori vittime delle violenze sessuali è stato ritenuto esaustivo ai fini della ricostruzione del giudizio di piena attendibilità dei minori medesimi e della credibilità delle dichiarazioni dagli stessi rese. La suprema Corte ha, altresì, confermato l'infondatezza delle argomentazioni difensive tese a minare l'attendibilità dei minori in relazione alla prospettata inadeguatezza della metodologia della step-wise interview. Ribadisce, infatti, la Corte come tale rilievo non tiene conto che la step-wise interview costituisce uno dei più validi metodi conosciuti e diffusamente praticati per la raccolta della testimonianza dei minori e che, al cospetto di una metodologia scientificamente riconosciuta come idonea per l'espletamento di uno specifico incarico peritale, il giudice, nel valutare i risultati di una perizia o di una consulenza tecnica, ha soltanto l'onere di verificare la validità scientifica dei criteri e dei metodi di indagine utilizzati. Invero la step–wise interview consiste in una tipologia di intervista studiata appositamente per raccogliere la testimonianza dei minori vittime di abusi e viene applicata sulla base di un preciso protocollo che viene continuamente aggiornato. Peraltro, alcun fondamento poteva essere offerto dal mero richiamo effettuato dalla difesa ad una diversa metodologia di ascolto indicata apoditticamente quale “sistema più sicuro” , la c.d. metodologia Tara, senza che della valenza scientifica di tale metodo di ascolto fosse offerta prova con argomenti o con elaborati peritali, che ne sostenessero la validità. Guida all'approfondimento
Sulla metodologia di ascolto dei minori vittime di abusi sessuali: D. Dettore C. Fuligni, L'abuso sessuale sui minorii, Milano, 2008 |