Il sequestro di persona, tra ragion fattasi e finalità estorsive. La Cassazione torna sulla sottile linea di confine fra artt. 605 e 630 c.p.

02 Gennaio 2017

All'esame della suprema Corte viene sottoposta, una volta di più, la vexata quaestio della distinzione fra sequestro di persona a scopo di estorsione e sequestro di persona “semplice” (ossia ex art. 605 c.p.), nel caso in cui alla privazione della libertà in danno della persona offesa si accompagnino ...
Massima

È configurabile il concorso tra sequestro di persona ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, e non il più grave reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, nell'ipotesi in cui la privazione della libertà altrui sia finalizzata a soddisfare una pretesa non ingiusta, azionabile in sede giudiziaria, quale prezzo della liberazione della persona offesa, specie laddove con il sequestro si vogliano in realtà perseguire ulteriori finalità di natura non economica (fattispecie in cui la condotta è stata realizzata da soggetti minorenni in danno degli operatori di una struttura di accoglienza, al fine di ottenere la dazione di una somma economica destinata ai migranti presso analoghe strutture e di protestare contro il trattamento riservato agli ospiti del centro di accoglienza).

Il caso

La vicenda si svolge nella mattinata del 25 giugno 2016, in un centro di accoglienza presso il quale il ricorrente e altri migranti extracomunitari sono ospiti da qualche giorno. L'indagato (minorenne), assieme ad altri due ospiti della struttura, decide di bloccare la porta d'ingresso del centro con una sbarra metallica, impedendo così agli operatori ivi presenti di uscirne. Scopo dell'iniziativa, posta in essere danneggiando anche alcuni arredi, è quello di ottenere il pagamento del c.d. pocket money, una sorta di argent de poche solitamente versato, con cadenza giornaliera, agli ospiti del centro, per soddisfare le loro esigenze ma anche di ricevere un trattamento migliore di quello loro riservato.

Chiamati telefonicamente dagli operatori rimasti chiusi nella struttura, i Carabinieri sopraggiungono e riescono a liberarli dopo circa venticinque minuti, rimuovendo la sbarra di ferro; quindi raccolgono la loro versione dei fatti e ricostruiscono l'episodio nei termini sopra riassunti: una ricostruzione che, in base a quanto è dato desumere dalla sentenza, non forma oggetto di contestazione.

In relazione all'accaduto, il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale per i minorenni di Caltanissetta emette nei confronti dell'indagato un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, qualificando il fatto come sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.); avverso tale provvedimento viene proposto ricorso al tribunale per il riesame, che riforma parzialmente le statuizioni cautelari adottate dal Gip, riqualificando il fatto ex artt. 605 e 393 c.p. (sequestro di persona ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni) e sostituendo la misura originariamente applicata con quella del collocamento in comunità.

Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni propone ricorso per cassazione, dolendosi di tale diversa e più mite qualificazione giuridica. Alla base delle lagnanze vi è il fatto che il tribunale per il riesame avrebbe sottovalutato la pressione e la coercizione esercitate dall'indagato nei confronti di numerosi operatori presenti nella struttura, allo scopo di conseguire un profitto ingiusto, privando le vittime della libertà per un arco temporale significativo e ponendo oltretutto in essere atti di vandalismo per sottolineare il suo gesto.

La Cassazione, nel rigettare il ricorso, osserva in primo luogo che vi è carenza d'interesse, da parte del P.M. ricorrente, laddove l'impugnazione sia finalizzata unicamente ad ottenere una corretta applicazione della legge. Nella specie, il ricorso non sembrerebbe sorretto prima facie da un concreto interesse a eliminare l'ordinanza impugnata per ottenere una statuizione più favorevole; peraltro, osserva la suprema Corte, tale interesse di natura processuale sarebbe implicitamente ravvisabile nella finalità di ottenere una diversa statuizione cautelare e tale è la ragione per la quale la sentenza in commento, dopo avere esaminato la questione in rito, affronta la questione di merito che qui interessa: ossia quella della linea di confine fra sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) e concorso dei reati di sequestro di persona ex art. 605 c.p. e di ragion fattasi con violenza alle persone o con minaccia, exart. 393 c.p.

La motivazione della pronunzia si snoda, a tale proposito, in un percorso argomentativo nel quale vengono puntualmente esaminate le circostanze fattuali sopra descritte, per giungere alla conclusione che non si può parlare, nel caso di specie, di sequestro di persona a scopo di estorsione, atteso che lo scopo principale perseguito dall'indagato era quello di inscenare una protesta, cui si aggiungeva una pretesa (quella dell'ottenimento della somma di danaro denominata pocket money) che la Cassazione, condividendo l'assunto del tribunale del riesame, giudica legittima. Particolarmente interessante è l'ultima considerazione svolta dalla Corte di legittimità, laddove si osserva che, ai fini della qualificazione giuridica del fatto, non è rilevante l'intensità della violenza o della minaccia, mentre lo è l'ingiustizia del profitto.

La questione

All'esame della suprema Corte viene in sostanza sottoposta, una volta di più, la vexata quaestio della distinzione fra sequestro di persona a scopo di estorsione e sequestro di persona “semplice” (ossia ex art. 605 c.p.), nel caso in cui alla privazione della libertà in danno della persona offesa si accompagnino violenza o minaccia finalizzate ad ottenere un profitto quale prezzo per la liberazione della vittima. La questione è strettamente correlata alla nozione di profitto ingiusto, che qualifica le finalità estorsive rispetto a quelle proprie dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni e dalla quale, nel caso in cui il sequestro di persona sia finalizzato all'ottenimento di un profitto, dipende l'inquadramento della fattispecie ex art. 605 c.p. oppure ex art. 630 c.p..

Le soluzioni giuridiche

È opportuno premettere che è pacifico in giurisprudenza che fra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di sequestro di persona non sussiste alcun rapporto di specialità, in quanto la privazione della libertà personale, intesa quale impedimento alla libertà di locomozione, è requisito estraneo alla fattispecie astratta di cui all'art. 393 c.p., con la conseguenza che le anzidette ipotesi delittuose possono concorrere tra loro (Cass. pen.,Sez. V, 8 ottobre 2014, n. 48359).

Ciò posto, la questione in esame è stata affrontata a più riprese dalla giurisprudenza di legittimità, che ha offerto soluzioni non del tutto unanimi sul punto.

In linea di principio, è configurabile il sequestro di persona a scopo di estorsione allorché il profitto ingiusto, che caratterizza il dolo specifico del delitto, costituisce il prezzo della liberazione della vittima dalla limitazione nella libertà di movimento, laddove invece il dolo di sequestro di persona ex art. 605 c.p. è generico e consiste nella coscienza e volontà di privare alcuno della libertà di movimento (cfr. Cass. pen., Sez. I, 7 marzo 2012, n. 14802).

Su tali basi, secondo un primo orientamento, è stato affermato che, nel caso di violenta privazione della libertà personale della parte offesa per un rilevante periodo di tempo al fine di ottenere la corresponsione di una somma di denaro, quale prezzo della liberazione, resta escluso ogni ragionevole intento di far valere un presunto diritto, con la conseguenza che è da ritenere insussistente l'ipotesi di cui all'art. 393 c.p. e si configura invece quella di cui all'art. 630 c.p. (cfr. per tutte Cass. pen., Sez. VI, 14 novembre 2013, n. 47533; Cass. pen., Sez. I, 7 marzo 2012, n. 14802). In termini non dissimili, la recente Cass. pen., Sez. II, 5 maggio 2012, n. 20032 afferma che, in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione, la privazione della libertà di una persona finalizzata alla riscossione di un preteso credito integra gli estremi dell'ingiusto profitto di natura estorsiva di cui all'art. 630 c.p., derivando l'ingiustizia dalle modalità del fatto.

Quest'ultima linea interpretativa è indirettamente confermata da un indirizzo giurisprudenziale, anch'esso recente, in base al quale il discrimen fra estorsione e ragion fattasi si fonda non già sulla sola giustiziabilità del preteso diritto ma sulle modalità esecutive della condotta, di tal ché integra il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la minaccia di esercitare un diritto, in sé non ingiusta, che sia realizzata con tale forza intimidatoria e sistematica pervicacia da risultare incompatibile con il ragionevole intento di far valere il diritto stesso (da ultimo Cass. pen., Sez. VI, 25 marzo 2015, n. 17785). Ancor più recentemente, su analoga linea interpretativa, si è affermato che è configurabile il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, in presenza di una delle seguenti condizioni relative alla condotta di esazione violenta o minacciosa di un credito: a) la sussistenza di una finalità costrittiva dell'agente, volta non già a persuadere ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive; b) l'estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare ed accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l'esazione con violenza e minaccia del credito altrui; c) la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito sia diretta nei confronti non soltanto del debitore ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale (Cass. pen., Sez. II, 17 febbraio 2016, n. 11453).

In pratica, secondo siffatto indirizzo, per qualificare come ingiusto il profitto avuto di mira dall'autore del fatto si deve prescindere dal fatto che la pretesa sia o meno “giustiziabile” e si deve piuttosto avere riguardo alle modalità esecutive della condotta coercitiva: se cioè tali modalità esecutive si caratterizzano per una particolare pervicacia e gravità intimidatoria il profitto avuto di mira dal soggetto attivo sarà, per ciò stesso, ingiusto, e la sua condotta si connoterà come estorsiva. Da ciò sembra potersi trarre la conseguenza che, se tale condotta si concretizza nella privazione della libertà altrui, con lo scopo di ottenere tale profitto in cambio della liberazione della vittima, si configurerà il grave delitto di cui all'art. 630 c.p.

A fronte di tale rigoroso orientamento, la sentenza in commento si inscrive in una diversa linea interpretativa: ossia quella, sostenuta da altra parte della giurisprudenza di legittimità, in base alla quale integra il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all'art. 630 c.p. e non il concorso del delitto di sequestro di persona con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (artt. 605 e 393 dello stesso codice), la privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire, come prezzo della liberazione, una prestazione patrimoniale eccedente il credito, azionabile in sede giudiziaria, vantato nei confronti della persona offesa (Cass. pen., Sez. VI, 12 giugno 2014, n. 45064). Tale indirizzo è coerente con quello, sostenuto in altre pronunzie, secondo il quale la differenza tra la condotta estorsiva e quella di ragion fattasi non consiste nella materialità del fatto, che può essere identica ma nell'elemento intenzionale che, qualunque sia stata l'intensità e la gravità della violenza o della minaccia, integra la fattispecie estorsiva soltanto quando abbia di mira l'attuazione di una pretesa non tutelabile davanti all'autorità giudiziaria (ex multis, Cass. pen., Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 51433; Cass. pen. Sez. II, 25 giugno 2014, n. 31224; Cass. pen. Sez. II, 30 settembre 2015, n. 42734).

In definitiva, secondo quest'ultimo approccio interpretativo (cui si uniforma la pronunzia qui commentata), l'ingiustizia del profitto che connota il fatto come estorsivo non si misura sulle modalità dell'azione ma, essenzialmente, sulla non tutelabilità della pretesa del soggetto attivo davanti all'autorità giudiziaria; deve cioè aversi riguardo alla natura di tale pretesa, che sarà intrinsecamente ingiusta solo quando essa sia insuscettibile di essere azionata davanti al giudice; nel caso in cui essa sia azionabile in sede giudiziaria, la corretta qualificazione giuridica del fatto sarà quella di ragion fattasi ex art. 393 c.p. e l'eventuale privazione della libertà finalizzata al soddisfacimento di tale pretesa sarà qualificabile come sequestro di persona ex art. 605 c.p. e non come sequestro a scopo di estorsione ex art. 630 c.p..

In dottrina, sul piano generale, prevale l'orientamento secondo il quale la nozione di profitto non è necessariamente costituita da danaro o altra utilità patrimoniale, ma può consistere anche in un'utilità non economicamente valutabile, purché si risolva in una situazione di vantaggio per il soggetto attivo, che abbia rilevanza per il diritto (MANZINI, BRUNELLI, RONCO, FIANDACA-MUSCO).

Più specificamente, secondo MANTOVANI, la nozione di profitto ingiusto che caratterizza il sequestro di persona a scopo di estorsione è la stessa che contraddistingue i delitti di rapina e di estorsione. Secondo MANZINI, il profitto è ingiusto non solo allorché esso è contra ius ma altresì quando è sine iure, ossia quando l'agente si propone di realizzare con la sua azione criminosa una utilità non dovuta per legge; viceversa, secondo ANTOLISEI, un profitto non può mai considerarsi ingiusto quando abbia, come suo fondamento, una pretesa comunque (e perciò anche in modo indiretto) riconosciuta e tutelata dall'ordinamento giuridico; sulla base di tale assunto, lo stesso Autore (così come, in epoca assai più recente, PERRONE CAPANO) esclude che la nozione di ingiustizia del profitto (e, con essa, il delitto p. e p. dall'art. 630 c.p.) possa ravvisarsi, ad esempio, nel caso del sequestro del debitore per ottenere l'adempimento dell'obbligazione quale corrispettivo della liberazione della vittima.

L'elemento soggettivo del sequestro a scopo di estorsione (che, a differenza del sequestro di cui all'art. 605 c.p., è delitto caratterizzato da dolo specifico) implica che l'ingiusto profitto costituisca, al tempo stesso, il fine ulteriore della condotta criminosa perseguito dall'autore e il prezzo della liberazione dell'ostaggio (c.d. riscatto); e che, inoltre, il soggetto attivo agisca nella consapevolezza dell'ingiustizia della propria pretesa, essendo l'elemento intenzionale rilevante a tal fine.

Osservazioni

Ad avviso di chi scrive, meritano piena adesione le considerazioni poste a base della decisione adottata dalla suprema Corte, che muove da un indirizzo interpretativo autorevolmente sostenuto (sebbene non unanime) ed argomenta il proprio dictum sulla base di un'ampia e ricca caratterizzazione del fatto, riportandone tutti gli elementi essenziali alle nozioni e categorie giuridiche rilevanti ai fini della soluzione del problema che qui interessa.

La lettura della vicenda offre, invero, contezza di alcuni elementi che qualificano il fatto in termini non propriamente “estorsivi” e, a ben vedere, di gravità non particolarmente elevata in rapporto ai beni giuridici tutelati. La durata della privazione della libertà è stata alquanto limitata nel tempo e, per di più, gli operatori rimasti chiusi nella struttura hanno potuto chiamare i Carabinieri con il telefono; il cosiddetto pocket money, a quanto è dato comprendere, costituisce un'elargizione corrisposta discrezionalmente e periodicamente agli ospiti della struttura che tuttavia ingenerava in costoro una sorta di aspettativa, talché non sembra potersi parlare di intrinseca ingiustizia del profitto cui il ricorrente e gli altri due compagni aspiravano, quanto meno sotto il profilo del loro convincimento soggettivo. Oltre a ciò, deve considerarsi (e la Corte di legittimità lo ha fatto in più punti della sentenza in commento) che, più che per ottenere la dazione del pocket money, gli autori della condotta avevano agito per protestare contro le condizioni in cui essi erano tenuti presso il centro di accoglienza.Né, infine, sembra potersi parlare di modalità particolarmente violente e coercitive del sequestro, atteso che i soggetti attivi si limitavano sostanzialmente a chiudere il portone della struttura con una sbarra metallica e a distruggere alcuni oggetti ivi presenti ma – a quanto si evince dalla motivazione della pronunzia – senza porre in essere ulteriori condotte intimidatorie nei confronti delle vittime.

A ben vedere, quindi, la condotta del ricorrente non poteva essere qualificata come sequestro di persona a scopo di estorsione in base a nessuno dei diversi orientamenti che si sono dianzi illustrati: non può, infatti, parlarsi di pretesa ingiusta, né sotto il profilo dell'elemento soggettivo, perché l'autore avrebbe agito nella ragionevole opinione di difendere un suo diritto indipendentemente dalla sua effettiva sussistenza (cfr. Cass. pen. Sez. VI, 6 aprile 1998, n. 6387), né sotto il profilo dell'intensità coercitiva della condotta, atteso che quest'ultima non si è estrinsecata secondo modalità di tale forza intimidatoria da andare al di là di ogni ragionevole intento di far valere un preteso diritto (cfr. Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 2015, n. 1921).

Conclusivamente, è del tutto condivisibile quanto stabilito dalla Cassazione nell'escludere che l'episodio di cui trattasi possa essere qualificato come sequestro di persona a scopo di estorsione: un reato, quest'ultimo, al quale l'ordinamento attribuisce un particolare disvalore, che si esprime attraverso una risposta sanzionatoria di notevole rigore come quella prevista ex art. 630 c.p.

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