Il ragionevole dubbio e la regola di giudizio per le dichiarazioni del coindagato

01 Dicembre 2015

La nozione di riscontro altro non è che la semplificazione espressiva di un meccanismo convalidante che il legislatore descrive nell'art. 192, comma 3, c.p.p. con l'espressione altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, espressione riferita alle dichiarazioni rese dal coindagato, portatore di un deficit soggettivo di attendibilità.
Massima

La nozione di riscontro altro non è che la semplificazione espressiva di un meccanismo convalidante che il legislatore descrive nell'art. 192, comma 3, c.p.p. con l'espressione altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, espressione riferita alle dichiarazioni rese dal coindagato, portatore di un deficit soggettivo di attendibilità.

Il caso

La vicenda ha visto Tizio e Caia, padre e figlia, imputati, in due distinti processi, di due distinte imputazioni per il medesimo fatto. Tizio è stato tratto a giudizio per omicidio volontario (senza alcun riferimento all'ipotesi di concorso ex art. 110 c.p.) commesso in danno del proprio figlio neonato, mediante manovre di soffocamento e strozzamento e percosse al capo; Caia è stata tratta a giudizio, in via autonoma, per la medesima imputazione, descritta nello stesso modo.

Il tema controverso del processo a carico di Tizio era rappresentato dall'esatta individuazione delle cause del decesso del neonato, nonché del momento in cui lo stesso si è verificato (subito dopo il parto e ad opera esclusiva della madre, o in un secondo momento, quando il padre lo ha portato via dal luogo del parto).

Tizio, condannato in primo e secondo grado per omicidio volontario del proprio figlio neonato (concepito con la propria figlia, Caia) e per violenza sessuale commessa con minaccia ai danni della stessa Caia, ricorre in Cassazione, articolando distinte doglianze in un unico motivo rubricato in termini di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

In particolare, per il delitto di omicidio il ricorrente ritiene non sia stata congruamente formulata la valutazione di attendibilità intrinseca della figlia, Caia in assenza di riscontri esterni circa la complessiva versione dei fatti resa dalla donna.

La Corte ha giudicato fondato il ricorso, limitatamente alla intervenuta affermazione di responsabilità in riferimento al delitto di omicidio. Mentre per le condotte di reiterato abuso sessuale, la principale fonte di prova era rappresentata dalla vittima, Caia, le cui dichiarazioni hanno trovato riscontro, anche, nell'esame genetico sul neonato deceduto (risultato figlio di Tizio e Caia), per l'omicidio la valutazione del narrato di Caia avrebbe dovuto compiersi necessariamente nel rispetto dell'art. 192, comma 3, c.p.p..

Osserva la Corte come le modalità con cui è stata esercitata l'azione penale risulti logicamente inaccettabile nascondendo una incertezza probatoria sulla effettiva attribuzione soggettiva della condotta contestata. Tali incertezze si sono puntualmente manifestate nella celebrazione dei distinti processi di merito, pervenuti ad esiti tendenzialmente inconciliabili. Il processo a carico di Tizio ha attribuito la condotta materiale in via esclusiva all'imputato/padre, ritenendo non implausibile il concorso nel reato di Caia, sia pure coartata dalle pressioni del padre che voleva sbarazzarsi del neonato per evitare la scoperta dell'incesto, escludendo l'ipotesi dell'infanticidio ex art. 578 c.p.

Nel procedimento contro Caia è stato ravvisato il reato d'infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale.

La possibilità di ipotesi alternative e la tendenziale natura solo probabilistica di un apporto materiale realizzato da Tizio ha reso il percorso motivazionale della decisione impugnata non rispettoso della regola di giudizio posta dall'art. 533 c.p.p. in riferimento della ragionevolezza del dubbio sulla colpevolezza.

In motivazione:

La regola di giudizio espressa dall'art. 533 c.p.p. rifluisce nel giudizio di legittimità come criterio generale alla cui stregua valutare la consistenza logica (e dunque tenuta dimostrativa) delle affermazioni probatorie contenute nella sentenza impugnata (ed il mancato rispetto rifluisce come ipotesi particolare di “apparenza” di motivazione, secondo quanto affermato da Sez. VI, n. 8705 del 24 gennaio 2013). Ciò posto, va aggiunto che la fragilità dimostrativa “interna” alla decisone impugnata – dedotta con i motivi di ricorso – sussiste e deriva, a parere del Collegio, dalla avvenuta considerazione di elementi di prova cui è stata attribuita natura di “riscontro” alle affermazioni resa da Caia in modo illogico e non conforme al contenuto della disposizione regolatrice (art. 192, c. 3 c.p.p.). In particolare, il tragico caso in esame vede contrapposte – sul piano storico – la versione di Caia e quella di Tizio, entrambi soggetti destinatari della “cautela valutativa” di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p..

La principale ragione di annullamento della decisione riguarda, pertanto, le modalità applicative della previsione di legge di cui all'art. 192, comma 3 c.p.p.

Pur essendo di certo necessarie – nell'ambito della valutazione globale dei dati emersi – le informazioni relative alla attendibilità generica del dichiarante, ciò che rileva (in chiave di affermazione di colpevolezza dell'accusato) è l'acquisizione di dati probatori “esterni” e capaci, anche sul piano logico, di accrescere il valore dimostrativo delle specifiche dichiarazioni rese sul tema del coinvolgimento dell'accusato.

La questione

La questione in esame è la seguente: cosa debba intendersi con l'espressione altri elementi di prova utilizzata dal legislatore nell'art. 192, comma 3, c.p.p. al fine di vagliare l'attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputato nel medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p. (art. 210 c.p.p.).

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Sezione I della Corte di cassazione, nell'utilizzare l'espressione elementi di prova il legislatore ha inteso evidenziare:

  • la necessaria natura ontologica: gli elementi di riscontro devono possedere un'autonoma consistenza ed una, sia pur limitata, capacità rappresentativa non potendosi concretizzare in meri sospetti;
  • la pertinenza, ex art. 187 c.p.p., tra detti elementi e l'imputazione contestata: il riscontro non può limitarsi ad accrescere l'attendibilità intrinseca del dichiarante (in punto attendibilità soggettiva), ma deve essere riferibile (sia pure solo sul piano logico-deduttivo) ai fatti delittuosi attribuiti nella specifica decisione all'indagato.

Inoltre, richiamati i principi espressi da alcune precedenti pronunce, la Corte ha precisato come l'idoneità probatoria dell'elemento di riscontro non debba intendersi in termini di autosufficienza ma fungere da necessario completamento della narrazione oggetto di verifica, cioè confermare l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie (Cass. pen. VI, n. 5649/1997).

I riscontri esterni potranno essere sia rappresentativi che logici, purché in grado di resistere agli elementi di segno opposto eventualmente dedotti dall'imputato. Essi non debbono consistere né in una prova autonoma della colpevolezza del chiamato, il che renderebbe superflua la chiamata in correità, né necessariamente concernere in modo diretto il thema probandum, essendo invece sufficiente che si risolvano in una conferma anche indiretta delle dichiarazioni accusatorie, la quale però consenta, per la sua consistenza, di dedurre in via logica, a mente dell'art. 192, comma 3, c.p.p., l'attendibilità di tali fonti di prova (Cass. pen., Sez. VI, n. 4108/1996).

Il dato probatorio (della più diversa natura e provenienza) utilizzabile quale riscontro potrà anche avere riguardo a fatti apparentemente secondari, dai quali sia possibile risalire, con logica deduzione, all'oggetto dell'accusa (Cass. pen. Sez. VI, 6 marzo 2000).

Osservazioni

La pronuncia in esame pone particolare attenzione alla valutazione e consistenza dei riscontri necessari a vagliare l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, distinguendo tra credibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarante.

Si richiede, infatti, che nel compiere l'operazione valutativa venga accuratamente vagliata la capacità dimostrativa del singolo elemento di riscontro, secondo criteri capaci di selezionare – sul piano logico – l'apporto fornito.

Nel caso di specie, la mera presenza di dati di contesto neutri, la scarsa verosimiglianza della versione alternativa resa dall'imputato e la presenza di un movente in capo al medesimo (quale l'interesse processuale ad allontanare dalla sua persona i sospetti di concorso o di azione omicidiaria autonoma) non sono stati ritenuti elementi sufficienti ad avvalorare le dichiarazioni di Caia nei termini richiesti dall'art. 192, comma 3, c.p.p. e a superare la regola di giudizio imposta dall'art. 533, comma 1, c.p.p.

Anche la presenza del movente, infatti, è ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità un dato certo ma non univoco (specie in presenza di ricostruzioni complesse), che può essere letto, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. un., n. 45276/2003), solo in chiave rafforzativa rispetto ad altri elementi obiettivi.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.