Le sorti della cittadinanza dei bipolidi dalla nascita quando il genitore si naturalizza
02 Settembre 2025
Massima Rimessi gli atti alla Presidente ai fini dell’assegnazione alle Sezioni Unite per il necessario chiarimento sull’interpretazione da assegnare al combinato disposto degli artt. 7 e 12 comma II della l. 555/1912, se cioè il figlio di cittadino italiano, nato all’estero, bipolide per il congiunto operare del criterio dello ius sanguinis e dello ius soli, abbia di norma diritto a conservare la cittadinanza, salvo sua rinuncia, con previsione pertanto di un regime speciale, rispetto al quale è ininfluente la naturalizzazione del genitore; ovvero se quest’ultima abbia l’effetto indiretto di far perdere la cittadinanza italiana anche al figlio, in ragione di una decisione che, in quanto adottata dal capo famiglia titolare della patria potestà, all’epoca vigente, ha ricadute indirette anche sui figli. Il caso La Suprema Corte interviene sul tema della cittadinanza, oggetto di contrastanti orientamenti interpretativi nel corso dell'ultimo biennio, e di interventi legislativi, la cui stratificazione rende più impegnativo il lavoro dell'interprete. I principali interventi normativi risalgono alla legge n. 555/1912, alla successiva l. n. 91/1992, e finire con la recentissima l. n. 74/2025 di conversione del decreto-legge n. 36 del 2025, adottata con il fine di ridurre il fenomeno costituito dalle sempre più numerose istanze di riconoscimento della cittadinanza presentate da discendenti di emigrati. Tre figli di padre nato negli Stati Uniti, discendente da cittadina italiana ivi emigrata, instavano per il riconoscimento della cittadinanza italiana. Gli aditi Tribunale e Corte d'Appello di Roma rigettavano la domanda di riconoscimento della cittadinanza. I ricorrenti proponevano alla Suprema Corte una diversa lettura delle norme invocate, avallata da conclusioni adesive del Procuratore Generale. La prima sezione della Cassazione ritiene di dover investire della questione la Prima Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. La questione La questione in esame è la seguente: conserva la cittadinanza il figlio bipolide nato all’estero, ovvero segue le sorti della cittadinanza del genitore italiano naturalizzato? Le soluzioni giuridiche L'orientamento invalso ad oggi, ha visto interpretare le norme della legge 13 giugno 1912 n. 555 come sistema che riconosce e predilige il valore dell'unicità della cittadinanza all'interno di un nucleo familiare, di tal ché ove il pater familias avesse deciso – come nel caso di specie - di naturalizzarsi e perdere la cittadinanza italiana, questo effetto si sarebbe esteso ai figli, provocando anche per loro la perdita della cittadinanza, benché l'acquisto della cittadinanza straniera per questi ultimi risalisse al momento della nascita nel paese di stabilimento (cd. ius soli). Principi questi da intendersi riferiti anche al caso della trasmissione della cittadinanza per linea materna, alla luce dell'equiparazione dei generi ottenuta grazie alla pronuncia della Corte Costituzionale n.30 del 1983. Si parte dalla considerazione - fatta propria dai ricorrenti - che il minore figlio di italiano, nato in un paese nel quale la cittadinanza si acquista per nascita in quel territorio – cd. criterio dello ius soli, acquista alla nascita la doppia cittadinanza e la conserva, e dal momento che la cittadinanza straniera non viene acquisita in occasione della naturalizzazione del genitore, ne discenderebbe che le sorti della cittadinanza genitori-figli siano differenti fra loro e possano non coincidere. Il figlio può sì perdere la cittadinanza straniera acquisita alla nascita, ma solo per una sua precisa scelta, vale a dire per espresso atto di rinuncia, al raggiungimento della maggiore età (o – sempre per rinuncia - allorché emancipato). Questa la lettura corretta – secondo gli istanti - del combinato disposto degli articoli 7 e 8 n. 2, fondata sulla considerazione di un rapporto di specialità rispetto all'art. 12 comma 2 (l.555/1912) riferito alla persona, quale soggetto meritevole di autonoma considerazione. Nell'Ordinanza interlocutoria si evidenziano due letture del tutto contrapposte delle norme. La Cassazione, nella sua funzione nomofilattica, è chiamata a prendere posizione sulla interpretazione da adottare in merito allo status civitatis, secondo le norme della legge 13 giugno 1912 n. 555. Se la ratio legis è stata sinora rinvenuta nell'intenzione del legislatore di ridurre i casi di differente cittadinanza all'interno del medesimo nucleo familiare, occorre interrogarsi se davvero fosse questa l'unica plausibile interpretazione e se non vi sia la possibilità di salvaguardare lo statuto di doppia cittadinanza acquisito contemporaneamente alla nascita, per il congiunto operare dei due criteri dello ius soli e dello ius sanguinis. Al criterio dell'unità familiare si suole far riferimento richiamando l'art. 12 comma 2, secondo il quale il genitore italiano esercente la patria potestà sul figlio minore bipolide, allorché si naturalizzi straniero, non solo perde la cittadinanza (italiana) per sé, ma con ciò provocherebbe la perdita della cittadinanza anche per il figlio minore, in ragione di una concezione che attribuisce importanza alla necessaria unità dello status civitatis all'interno del nucleo familiare. Quale principio debba prevalere? Quello alla univocità della cittadinanza all'interno dello stesso nucleo familiare, che fa sì che la sorte della cittadinanza del figlio debba soccombere rispetto alla scelta effettuata dal pater familias, ovvero il principio che ritiene l'acquisto della cittadinanza da parte del minore ottenuto sia ius soli, sia iure sanguinis indipendente e insensibile alle sorti dello status di cittadino del genitore, con la sola possibilità di rinunciarvi al compimento della maggiore età, ma in piena libertà di scelta? A quest'ultima interpretazione aveva aderito anche il Ministero dell'Interno (Circolare K 28.1 del 18.04.1991 “riconoscimento del possesso dello status civitatis italiano ai cittadini stranieri di ceppo italiano) e quello degli Affari Esteri (Circolare n. 9 del 4 luglio 2011) con proprie circolari, avallate anche da parere del Consiglio di Stato (Parere 7 novembre 1990, n. 1060). Evidentemente si fronteggiano qui due concezioni: una patriarcale, in funzione della quale la cittadinanza del figlio minore deve fare i conti con le scelte effettuate dagli adulti esercenti la potestà e subirne le conseguenze, ed una più moderna, che riconosce al figlio un suo possibile autonomo interesse a mantenere uno status da lui acquisito non in dipendenza dello status del genitore. Il caso di specie si caratterizza per un'ulteriore singolarità: l'ava in questione (la nonna) neppure aveva esercitato la potestà genitoriale sul figlio. Osservazioni Il figlio, al quale viene data la luce, è soggetto distinto da una pretesa entità unica, riconducibile alla famiglia, soggetta alla potestà del pater. Quando viene al mondo, egli acquisisce la cittadinanza per l’effetto di meccanismi di assegnazione che possono anche differire in ragione del luogo dove avviene e a seconda delle norme sullo status civitatis dell’ordinamento del genitore. Pensare che nel corso della sua minore età, egli non possa esercitare un suo diritto a conservare la cittadinanza acquisita alla nascita, significherebbe obliterare le conquiste ottenute nel corso del tempo a favore del riconoscimento dei diritti dei minori. Si confida pertanto che le Sezioni Unite della Cassazione intendano avallare quell’indirizzo di pensiero che attribuisce al figlio la possibilità di mantenere la cittadinanza acquisita dalla nascita, quale pieno riconoscimento dei suoi diritti, da parificarsi senza discriminazioni a quelli degli adulti. |