Maltrattamenti o litigi familiari? Il Tribunale traccia la linea sulla soglia penale della violenza verbale in famiglia
01 Settembre 2025
Massima In tema di maltrattamenti in famiglia, non integra il reato la condotta di un coniuge che, pur avendo posto in essere episodi di aggressività verbale e fisica, agisce in un contesto di conflittualità familiare paritaria, privo di sistematicità e di una volontà di dominio o soggezione psicologica dell’altro coniuge. Ai fini della configurabilità del reato, è necessario che le condotte siano reiterate, unidirezionali e idonee a ledere la dignità e la libertà della persona offesa, instaurando un regime di sopraffazione. Il caso Il caso riguarda Tizio, imputato per il reato di cui all'art. 572 c.p., per aver sottoposto la moglie a una lunga serie di comportamenti violenti, umilianti e minacciosi alla presenza dei figli minori. Le condotte descritte sono molteplici e gravi e riguardano la violenza verbale e psicologica, il controllo ossessivo tramite app di messaggistica e insinuazioni di infedeltà fino a sfociare nella violenza fisica e in comportamenti vessatori attinenti alla distruzione di oggetti personali e isolamento. La vicenda ruota attorno a un rapporto coniugale segnato da litigi frequenti, tensioni economiche e abuso di alcol da parte del marito. Il procedimento si è sviluppato attraverso diverse udienze, con l'acquisizione di testimonianze, documentazione e l'escussione della persona offesa. Tuttavia, l'istruttoria ha evidenziato un quadro complesso, in cui la moglie ha riconosciuto l'esistenza di una conflittualità reciproca, l'assenza di un reale stato di soggezione e la volontà di riconciliazione con il marito, con cui aveva ripreso la convivenza. Dalle dichiarazioni della persona offesa e dei testimoni, emerge, difatti, un contesto familiare segnato da litigi frequenti, spesso innescati dall'abuso di alcol da parte dell'imputato e da difficoltà economiche. Gli episodi più gravi, come le minacce verbali, l'espulsione da casa e le percosse, sono stati confermati, ma in modo non sempre coerente e con ammissioni della stessa vittima circa la propria reazione e la mancanza di paura reale. I testimoni, tra cui amici, parenti e assistenti sociali, hanno confermato l'esistenza di un clima conflittuale, ma nessuno ha assistito direttamente a episodi di violenza fisica. La stessa persona offesa ha negato di aver subito dolore fisico e ha dichiarato di non aver mai temuto per la propria incolumità, sottolineando che i litigi erano reciproci e che l'imputato non era “in sé” quando agiva in modo aggressivo. La questione In che misura le condotte conflittuali tra coniugi possono essere penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 572 c.p., e quando invece rientrano nella normale dialettica familiare? Le soluzioni giuridiche L'approccio giuridico adottato dal Tribunale di Potenza nella sentenza del 23 aprile 2025, n. 115, si fonda su una rigorosa applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. In particolare, il Collegio ha operato una distinzione netta tra le condotte penalmente rilevanti e quelle che, pur potenzialmente gravi sul piano etico o relazionale, si collocano nell'ambito di una conflittualità coniugale non punibile penalmente. La decisione si basa sull'assunto che il reato di maltrattamenti richiede, per la sua configurabilità, la presenza di una pluralità di comportamenti reiterati, sistematici e unidirezionali, idonei a ledere la dignità, la libertà e l'integrità psico-fisica della persona offesa. Tali condotte devono inserirsi in un contesto relazionale caratterizzato da una marcata asimmetria di potere, in cui la vittima si trovi in uno stato di soggezione psicologica o di subordinazione affettiva, tale da impedirle di reagire o di sottrarsi alla situazione vessatoria. Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che le condotte dell'imputato, pur connotate da aggressività verbale e, in alcuni casi, fisica, non fossero espressione di un disegno persecutorio o di una volontà di dominio, ma piuttosto manifestazioni episodiche di una crisi coniugale profonda, alimentata da fattori esterni (abuso di alcol, difficoltà economiche) e da una dinamica relazionale conflittuale e reciproca. In tale ottica, il Collegio ha escluso la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato, ritenendo che i fatti contestati non integrassero una condotta abituale di maltrattamento, ma piuttosto episodi isolati e non sufficientemente gravi da superare la soglia della rilevanza penale. La decisione del Tribunale di Potenza si fonda su un impianto motivazionale articolato e coerente, strutturato attorno a tre assi portanti: uno di essi riguarda la qualificazione delle condotte contestate: il Collegio ha escluso che esse fossero espressione di un disegno sistematico di sopraffazione o di dominio psicologico. I giudici hanno ritenuto che i comportamenti dell'imputato, pur connotati da aggressività verbale e, in alcuni casi, fisica, si inserissero in una dinamica familiare conflittuale, ma paritaria, priva di quella asimmetria relazionale che caratterizza il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. Ulteriore aspetto riguarda la inidoneità delle condotte a integrare il reato contestato, elemento centrale è rappresentato dalla valutazione della gravità e della reiterazione delle condotte. Il Tribunale ha ritenuto che gli episodi accertati – due in particolare – non fossero sufficienti, né per quantità né per qualità, a integrare la fattispecie di reato. Le condotte, pur spiacevoli e moralmente censurabili, non hanno raggiunto quella soglia di abitualità e offensività necessaria per configurare il delitto di maltrattamenti, che richiede una lesione sistematica della dignità e dell'integrità psico-fisica della vittima. In questo quadro, il Tribunale ha ritenuto che la relazione tra i coniugi fosse caratterizzata da una conflittualità reciproca, e non da una dinamica di dominio e controllo. Tale impostazione si fonda su un orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui il reato di maltrattamenti si configura solo in presenza di una relazione strutturalmente sbilanciata, in cui uno dei due partner esercita un controllo coercitivo sull'altro, limitandone la libertà, l'autonomia e la dignità (cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 37978/2023). La sentenza si distingue per l'equilibrio e la profondità dell'analisi, ma solleva anche alcune riflessioni critiche. In particolare: la sottovalutazione della violenza psicologica: alcuni episodi, come le minacce, gli insulti sessisti e il controllo ossessivo tramite messaggistica, avrebbero potuto essere letti come segnali di una dinamica di potere più profonda, nonostante l'apparente parità tra i coniugi. Anche la rilevanza dell'abuso di alcol dell'imputato è stata trattata come un fattore contestuale, ma avrebbe potuto essere considerato come elemento di rischio per la recidiva e come aggravante della pericolosità. Osservazioni Uno degli aspetti centrali della sentenza è la distinzione tra conflittualità familiare e maltrattamenti abituali. Il Tribunale ha ritenuto che le condotte dell'imputato, pur gravi e riprovevoli, si inserissero in un contesto di litigi reciproci, privi di quella sistematicità e unidirezionalità che caratterizzano il reato di cui all'art. 572 c.p. Tale impostazione è coerente con la giurisprudenza di legittimità, che richiede, per la configurabilità del reato, la presenza di una relazione strutturalmente sbilanciata, in cui uno dei due partner eserciti un controllo coercitivo sull'altro. Tuttavia, questa distinzione, se applicata in modo troppo rigido, rischia di sottovalutare forme di violenza psicologica o relazionale che, pur non manifestandosi in modo sistematico, possono avere effetti profondamente lesivi sulla vittima. La sentenza riconosce che l'imputato soffriva di una dipendenza da alcol, che influenzava negativamente i rapporti familiari e la sua capacità di autocontrollo. Tuttavia, tale elemento è stato trattato più come un contesto attenuante che come un fattore di rischio. In realtà, la letteratura criminologica e psicologica evidenzia come l'abuso di alcol sia spesso un indicatore di rischio per la violenza domestica, e come la sua presenza debba essere valutata anche in chiave preventiva. Inoltre, le difficoltà economiche della coppia, più volte richiamate nella motivazione, avrebbero potuto essere considerate come fattori aggravanti del disagio familiare, contribuendo a creare un ambiente potenzialmente pericoloso per i soggetti più vulnerabili, in particolare i figli minori. La testimonianza della moglie dell'imputato è stata ritenuta credibile, ma non sufficiente a fondare una condanna. Il Tribunale ha valorizzato la sua mancata costituzione di parte civile come indice di imparzialità, ma ha anche sottolineato le sue ammissioni circa la reciprocità dei litigi e l'assenza di paura reale nei confronti del marito. Tuttavia, è noto che le vittime di violenza domestica possono minimizzare o razionalizzare le condotte subite, anche per motivi affettivi, economici o di protezione dei figli. In questo senso, la dichiarazione “altrimenti non ci sarei ritornata” non dovrebbe essere letta come prova dell'assenza di maltrattamenti, ma piuttosto come un segnale della complessità delle dinamiche relazionali e della difficoltà di uscire da situazioni disfunzionali. Un aspetto che merita particolare attenzione nella sentenza del Tribunale di Potenza è la presenza dei figli minori durante alcuni degli episodi contestati. L'art. 572 c.p. prevede espressamente un'aggravante quando i maltrattamenti sono commessi in presenza di minori, riconoscendo il potenziale danno indiretto che tali condotte possono arrecare allo sviluppo psico-emotivo dei figli. Nel caso di specie, la persona offesa ha riferito che almeno uno degli episodi di aggressione verbale e fisica si è verificato davanti al figlio minore della coppia, e che in altre occasioni i bambini erano comunque presenti in casa. Tuttavia, il Tribunale non ha valorizzato in modo incisivo questo elemento, limitandosi a constatare che la situazione familiare non aveva destato l'attenzione dei servizi sociali o di altri soggetti istituzionali. La Convenzione di Istanbul (ratificata dall'Italia con l. 77/2013) impone agli Stati membri di adottare misure specifiche per proteggere i minori testimoni di violenza domestica, riconoscendoli come vittime a tutti gli effetti. In questo senso, la valutazione del danno psicologico subito dai figli non può essere relegata a un profilo secondario, ma dovrebbe costituire un elemento centrale nell'analisi del fatto. Nel caso in esame, sarebbe stato opportuno un approfondimento istruttorio sul vissuto dei minori, anche attraverso l'audizione protetta o la consulenza di esperti dell'età evolutiva. La mancata valorizzazione di questo profilo rappresenta, a parere di chi scrive, una lacuna nella ricostruzione complessiva del contesto familiare e nella valutazione della gravità delle condotte contestate. |