Modificabilità o estinzione degli usi aziendali e indagine sulla “volontà” del datore di lavoro

31 Luglio 2025

Il datore di lavoro non può unilateralmente incidere sull’efficacia dell’uso aziendale ove questo risulti sussistente in ragione della reiterazione generalizzata del trattamento di miglior favore nei confronti dei lavoratori. 

Massima

I trattamenti di favore derivanti dall’uso aziendale, proprio in ragione della loro natura analoga ai trattamenti economico-normativi dei contratti collettivi aziendali, sono soggetti alla medesima possibilità di modifica o soppressione, sicché una tale efficacia modificativa o estintiva non può essere riconosciuta a un atto unilaterale del datore di lavoro.

Il caso

La Corte d’Appello di Roma confermava la decisione del giudice di primo grado, con la quale la società-datrice di lavoro era stata condannata a corrispondere le somme rivendicate dai dipendenti a titolo di compenso per la pausa pranzo retribuita di trenta minuti, come previsto dall’art. 26, comma 7, CCNL Telecomunicazioni, nonché di quelle loro corrisposte, per uso aziendale, su turni avvicendati di otto ore aggiuntive di permesso annue. Condividendo l’iter motivazionale del Tribunale, la Corte d’Appello riteneva provata la sussistenza di un uso aziendale consolidato nel senso del pagamento dei predetti emolumenti, oltre che l’ingiustificata cessazione dello stesso mediante una lettera di disdetta della società.

Quest’ultima impugnava la decisione innanzi alla Corte di Cassazione, articolando le proprie doglianze in quattro motivi. In sintesi, la ricorrente lamentava la ricostruzione operata dai giudici di merito relativamente ai benefici riconosciuti ai lavoratori, all’applicazione dell’art. 26 CCNL Telecomunicazioni e alla sussistenza di un uso aziendale. In particolare, veniva criticata la ritenuta mancanza di prova in ordine all’errore interpretativo determinante il riconoscimento del compenso per la pausa pranzo e le ore di permesso aggiuntive, per un lasso temporale di circa quindici anni, a lavoratori non addetti a turni avvicendati. Ad avviso della società, inoltre, doveva ritenersi errata anche l’interpretazione della disdetta degli accordi aziendali.

La questione

Le questioni in esame sono le seguenti: entro quali limiti è possibile accertare la sussistenza di un uso aziendale? Con quali modalità è possibile modificare o estinguere un uso aziendale?

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

I giudici di legittimità hanno osservato che l'art. 26 del CCNL Telecomunicazioni, mentre al comma 6 definisce i lavoratori addetti a turni avvicendati, al successivo comma 7 riconosce a questi ultimi - che prestano la propria attività per otto ore giornaliere e quaranta settimanali - una pausa retribuita di trenta minuti al giorno per la refezione per le ore di presenza in azienda. La società ricorrente, mediante una lettera, aveva formulato la disdetta degli accordi sindacali sulla base del “superamento di erronee applicazioni del dettato contrattuale” anche al personale full-time non addetto a turni avvicendati.

La Corte ha evidenziato che, in base all'accertamento operato dai giudici di merito, doveva ritenersi sussistente una prassi aziendale in quanto risultava provata la reiterazione protratta nel tempo, costante e generalizzata, di un comportamento favorevole della ricorrente nei confronti dei propri dipendenti (i.e. riconoscimento dei benefici contrattuali della mensa retribuita e delle ore di permesso aggiuntive anche ai lavoratori che non ne avrebbero avuto diritto in quanto non organizzati in turni avvicendati). A ciò si aggiungeva l'estensione di tali benefici, mediante accordi collettivi, anche ai lavoratori provenienti da aziende acquisite a seguito di fusioni, per armonizzazione del trattamento applicato a tutti i dipendenti.

Ritenuto non provato l'errore interpretativo asserito da parte della ricorrente, i giudici di legittimità hanno osservato che l'assoluta chiarezza dell'art. 26 CCNL determinava la non credibilità di una erronea interpretazione della disposizione negoziale.

La Corte di Cassazione ha rammentato la propria giurisprudenza secondo la quale, nell'ambito dei rapporti di lavoro, la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell'uso aziendale che, essendo diretto, quale fonte sociale, a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con la collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo - e con la stessa efficacia - di un contratto collettivo aziendale, sicché la modifica o il venir meno dell'uso aziendale può avvenire soltanto mediante un successivo accordo con tra le parti sociali e non mediante un atto unilaterale del datore di lavoro. Su questo punto, inoltre, la Corte ha escluso l'idoneità delle ulteriori circostanze addotte dalla ricorrente (i.e. la mancanza di un intento negoziale; l'avvenuto mutamento delle condizioni aziendali) ad inficiare l'insorgenza dell'uso aziendale.  

Infine, la mancata allegazione della lettera di disdetta da parte della ricorrente non ha consentito ai giudici di legittimità di valutare, senza incorrere in una rivisitazione del merito, il contenuto della stessa e la dedotta violazione interpretativa dell'art. 1373 c.c.

Osservazioni

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione conferma quello che, ad oggi, si presenta come l'orientamento interpretativo prevalente in tema di usi aziendali. Infatti, superata la qualificazione come usi normativi, la giurisprudenza ha ricondotto tali usi alla categoria delle c.d. fonti sociali, al cui interno sono ricompresi i contratti collettivi, nazionali e aziendali. Queste fonti sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, risultando funzionali a realizzare un'uniforme disciplina dei rapporti tra il datore e i lavoratori (anche futuri) impiegati presso l'azienda. Gli usi aziendali, pertanto, agiscono sulla disciplina dei singoli rapporti di lavoro con la medesima efficacia di un contratto collettivo.

Tuttavia, tali usi sono connotati dalla peculiare modalità attraverso la quale essi determinano il sorgere in capo alla parte datoriale di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, considerato che è sufficiente accertare la reiterazione, costante e generalizzata, di un trattamento economico o normativo più favorevole di quello previsto dal contratto collettivo applicato. Sempre in linea con tale orientamento ermeneutico, è da escludere la rilevanza dell'elemento volontaristico, dovendo l'attenzione cadere sul dato oggettivo-fattuale della generalizzata protrazione nel tempo del comportamento datoriale a favore dei dipendenti. La spontaneità del trattamento più favorevole non postulerebbe, dunque, lo scrutinio circa l'elemento soggettivo di ciascuno dei comportamenti reiterati, ma risulterebbe, a posteriori, dall'apprezzamento globale della prassi già consolidata in azienda. Ne consegue che l'eventuale esistenza di un obbligo giuridico pregresso (di fonte legale o contrattuale) assumerebbe rilievo nell'apprezzamento sulla spontaneità della prassi aziendale (Cass. civ., sez. un., n.3134/1994), dovendo quest'ultima essere intesa come “non obbligatorietà” del reiterato comportamento datoriale. Discutibile, invece, è la rilevanza che nel singolo caso concreto può assumere l'erronea interpretazione delle disposizioni normative o negoziali, la quale abbia determinato la reiterazione del trattamento più favorevole. Nella decisione in commento i giudici di legittimità hanno posto l'accento sull'onere probatorio gravante sulla parte datoriale e, in particolare, sull'indicazione di circostanze – quali l'ambiguità delle disposizioni da interpretare - idonee a sostenere l'assenza della condizione della spontaneità nel caso concreto.

Con riferimento all'indagine sulla sfera soggettiva in materia di usi aziendali, sembra opportuno rammentare che, sebbene in tempi risalenti, una parte della giurisprudenza ha ritenuto necessario accertare lo specifico intento negoziale determinante la volontà di regolare, anche per il futuro, determinati aspetti del rapporto di lavoro. Il profilo della volontà, infatti, ben potrebbe acquisire rilevanza laddove la scelta datoriale risulti condizionata da una particolare situazione (anche normativa), cui mutamento comporti il venir meno della necessità di conservare quello specifico trattamento più favorevole (Cass., sez. lav., n. 13816/2008; Cass., sez. lav., n15489/2007; Cass., sez. lav. n. 984/2005; Cass., sez. lav., n. 10783/2000). L'indagine su tale ultimo profilo non sarebbe priva di rilevanza laddove essa si traduca in uno strumento per risolvere i conflitti tra le parti, in particolar modo in quei casi in cui il datore procede ad una modifica unilaterale e peggiorativa dell'uso aziendale. Infatti, non può escludersi che il mutamento del contesto nel quale è si è consolidato l'uso aziendale possa in concreto manifestare delle conseguenze sul piano del mantenimento dello stesso obbligo in capo al datore, potendo costituire un elemento sintomatico del carattere temporaneo dell'impegno assunto nei confronti dei lavoratori.

Tuttavia, se si discute della modificabilità dell'uso aziendale, non può pretermettersi che proprio la sua collocazione sul medesimo piano della contrattazione collettiva - sebbene consenta la modifica dell'uso, anche in peius, mediante il ricorso ad altre fonti di carattere collettivo – comporta l'esclusione della possibilità di una modifica unilaterale del medesimo uso da parte del datore di lavoro (Cass., sez. lav., n. 12477/2025).

Nonostante tale limitazione, però, il datore può legittimamente esprimente la propria volontà di recedere dall'uso aziendale così come dalla contrattazione collettiva applicata in azienda. Infatti, secondo il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, ai contratti collettivi (e quindi agli usi aziendali) deve essere estesa la regola – applicata ai negozi privati - secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all'esigenza di evitare, nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.), la perpetuità del vincolo obbligatorio (Cass., sez. lav., n. 23105/2019), facendo salvi i cc.dd. diritti quesiti.

Analogamente, pertanto, con riferimento alla durata della vincolatività dell'uso aziendale, non potrebbe affermarsi che esso vincoli sine die il datore, così impedendo l'esercizio di una facoltà che è generalmente prevista dal nostro ordinamento. La cristallizzazione dell'uso aziendale finirebbe, invero, per porsi in contrasto con la naturale mutabilità della realtà aziendale.

Il datore, allora, può recedere unilateralmente dall'uso aziendale “a tempo indeterminato”, dovendo però tale possibilità essere esercitata in conformità ai principi sopra richiamati, al fine di evitare che la sottrazione al vincolo scaturisca da una scelta meramente discrezionalità del medesimo datore; ciò, tra l'altro, potrebbe implicare la necessità di un riscontro ulteriore rispetto all'espressa volontà di recesso, quale, ad esempio, un sopravvenuto mutamento delle circostanze esistenti rispetto all'epoca in cui l'uso aziendale si è formato (App. Roma, sez. lav., n. 4475/2022).

Riferimenti

B. De Mozzi, Usi aziendali - Superminimi non riassorbibili per uso aziendale e contrattazione collettiva, in Giur. It.Inizio modulo, n. 2, 1° febbraio 2023, pp. 380 ss.

M. L. Picunio, Usi aziendali e valenza ai fini del riconoscimento dell’inquadramento del lavoratore, in Inizio modulo

ADL, n. 4-5, 1° luglio 2016, pp. 1023 ss.

P. Lambertucci, Gli usi aziendali tra contratto individuale e assetti collettivi dell'impresa: il bilancio giurisprudenziale, in Lav. giur., n. 8-9, 1° agosto 2014, pp. 827 ss.

L. Valente, Gli usi aziendali nella giurisprudenza: un panorama e un bilancio, in ADL, 2007, 1, pp. 281 ss.

G. Quadri, Usi aziendali e autonomia negoziale: regole consuetudinarie e modificazioni unilaterali nel rapporto di lavoro, Napoli, 2008

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