Reati tributari e sequestro probatorio della valuta virtuale

20 Maggio 2025

La Corte di cassazione si è interrogata sull'applicazione della disciplina vigente in materia di sequestro probatorio per equivalente nel caso l'oggetto fosse rappresentato da bitcoin.

Massima

È illegittimo il sequestro probatorio per equivalente di bitcoin ritenuti “profitto” del reato tributario di infedele dichiarazione ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000.

Il caso

Il Tribunale di Firenze respingeva il riesame cautelare proposto dal ricorrente avverso il decreto di convalida del sequestro, avente ad oggetto la somma di denaro pari ad euro 120.638,20 quale controvalore al momento del trasferimento in euro del BTC pari a 1,88805294, corrispettivo di imposte evase. Avverso tale ordinanza, veniva proposto ricorso per cassazione.

Nel primo motivo del ricorso, si lamentava la violazione di legge ex art. 325, comma 1, c.p.p., poiché il decreto di convalida aveva attribuito alla valuta virtuale, in modo illegittimo, la natura di profitto di reato tributario di cui all'art. 4, d.lgs. n. 74/2000. In particolare, si osservava che il sequestro probatorio avesse avuto illegittimamente per oggetto un asset rappresentato da valuta virtuale bitcoin al posto dell'ammontare in euro dell'imposta ritenuta evasa.

Il ricorrente sosteneva che le valute virtuali, come i bitcoin, non sono emesse o garantite da enti pubblici e non hanno lo status giuridico di valuta; tuttavia, sono accettate come mezzo di scambio e considerate asset digitali. Nel caso di specie, la criptovaluta veniva erroneamente equiparata all'euro, senza considerare le fluttuazioni del suo valore.

Inoltre, nel secondo motivo del ricorso, il ricorrente lamentava che il Tribunale del riesame non avesse adeguatamente motivato la propria ordinanza, concentrandosi soltanto sulla presunta esistenza del fumus e del periculum, senza spiegare le ragioni giuridiche alla base della decisione di considerare i bitcoin come profitto del reato e di respingere le argomentazioni della difesa.

La questione

La Suprema Corte si è interrogata sull'applicazione della disciplina vigente in materia di sequestro probatorio per equivalente nel caso l'oggetto fosse rappresentato da bitcoin; detto altrimenti, circa la legittimità della misura cautelare applicata alla valuta virtuale, ritenuta profitto del reato tributario.

Le soluzioni giuridiche

I motivi di ricorso sono esaminati congiuntamente dai giudici di legittimità.

In primo luogo, si richiama la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso esclusivamente per violazione di legge. Tale nozione comprende sia gli errori di diritto o procedurali, sia quei difetti della motivazione così gravi da rendere l'argomentazione del provvedimento del tutto assente o priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, risultando, quindi, incapace di rendere comprensibile il percorso logico seguito dal giudice.

Nella pronuncia di cui trattasi, viene sottolineato che la criptovaluta è definita come una rappresentazione di valore digitale che non è emessa né garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.

In merito, occorre richiamare il considerando n. 10 della direttiva antiriciclaggio, secondo il quale, sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, esse potrebbero essere impiegate anche per altri scopi, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate nei casinò online.

Il legislatore italiano, ricordiamolo, definisce la moneta virtuale all'art. 1 d.lgs. n. 231/2007: “una rappresentazione digitale di valore non emessa né garantita da una banca centrale o da un'autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l'acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento, e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”. Questa definizione aggiunge esplicitamente la finalità di investimento rispetto a quella del legislatore comunitario.

I rischi associati ai bitcoin sono evidenti: non sono emessi da una Banca centrale o da un'Autorità pubblica, non sono soggetti al principio nominalistico e sono per lo più privi di regolamentazione vincolante; inoltre, svolgono le funzioni tipiche della moneta, come unità di conto e riserva di valore, a causa della mancanza di potere liberatorio nei pagamenti e dell'estrema volatilità; da ultimo, non esiste un'Autorità che possa stabilizzarne i corsi, causando oscillazioni del cambio e incertezze nella conversione.

Per i giudici di legittimità, l'ordinanza che respingeva il riesame cautelare del ricorrente presentava una carenza di motivazione riguardo alla finalità probatoria perseguita per l'accertamento dei fatti. Inoltre, nel qualificare come profitto del reato l'ammontare dell'imposta evasa collegata alle plusvalenze derivanti da operazioni di trading di criptovalute attraverso account aperti presso diversi exchange, l'ordinanza affermava l'esistenza del nesso di derivazione tra i bitcoin sequestrati e il reato, senza adeguatamente confrontarsi con le critiche contenute nell'atto di gravame.

In definitiva, per la Corte di cassazione, dovevano condividersi le doglianze della difesa, la quale sosteneva l'inconciliabilità delle motivazioni del Tribunale del riesame che, valorizzando il nesso di derivazione tra l'oggetto del sequestro (bitcoin) e il reato, rispetto a un profitto del reato consistente in un'imposta evasa quantificata in 120.638,20 euro, finivano per legittimare un sequestro probatorio del profitto del reato non diretto, ma per equivalente. Questo perché il sequestro ricade non su moneta avente corso legale nello Stato, ma su un asset digitale rappresentato da valuta virtuale, soggetta a continue fluttuazioni di mercato.

Osservazioni

Al fine di comprendere l'importanza della pronuncia in esame, è opportuno ricordare che, sia a livello nazionale che sovranazionale, le cripto-attività sono ancora prive di una normativa di riferimento esaustiva, creando una “zona grigia” in cui le ambiguità richiedono al giudice di intervenire.

Le criptovalute, in virtù delle loro caratteristiche intrinseche (quali, a titolo esemplificativo, la crittografia e l'anonimato), rappresentano anche uno strumento particolarmente funzionale per ripulire i proventi illeciti. Facilitano le transazioni, rendono più agevoli le attività di crowdfunding e offrono soluzioni alla cosiddetta trappola della liquidità ma si prestano, altresì, ad agevolare transazioni illegali, tra cui le frodi, il finanziamento del terrorismo e, soprattutto, il riciclaggio. La materia è stata attenzionata a livello nazionale e sovranazionale al fine di prevedere disposizioni in grado di prevenire e reprimere il fenomeno del riciclaggio mediante monete virtuali, esaminando il lavoro posto in essere dal GAFI, già dal 2015, e le novità apportate dalla IV e V Direttiva Antiriciclaggio (ora, dal AML Package 2024).

La giurisprudenza di legittimità, nel caso de quo, analizzando la natura giuridica delle criptovalute, ha chiarito che queste non possono essere considerate moneta legale, poiché non hanno un valore nominale stabile e non sono garantite da un'Autorità centrale. A causa della loro volatilità e della funzione di asset digitali, è necessario quindi dimostrare un collegamento diretto tra il bene sequestrato e il profitto del reato. Questo collegamento non può essere presunto solo sulla base del controvalore in euro delle criptovalute sequestrate. È e sarà ancora uno dei problemi principali, oltre che delle modalità concrete di sequestro di questi asset, nelle indagini e nei procedimenti per associazione mafiosa, terrorismo, nonché per reati informatici (truffe on line e web extorsions).

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