La tutela del caregiver fra disciplina interna e normativa eurounitaria antidiscriminatoria

19 Maggio 2025

Una lavoratrice, invalida al 50%, portatrice di handicap (non grave) ed allo stesso tempo caregiver della madre disabile grave residente a Napoli, veniva trasferita da un ufficio dell’istituto bancario ad un altro, presso il medesimo Comune di Milano. L’assegnazione alla nuova sede di destinazione era pregiudizievole per l’assistenza della madre, non garantendo alla caregiver la doppia sede Milano-Napoli, della quale invece beneficiava nell’ufficio d’origine. Il Tribunale di Milano, escludendo la tutela di cui all’art. 33 l. 104/92 comma 6, essendo la ricorrente non invalida “grave”, allo stesso tempo riteneva giustificata la deroga al divieto di trasferimento del caregiver per incompatibilità ambientale, dovuta alle “gravissime accuse mosse dalla lavoratrice ai suoi superiori” in un giudizio pendente per mobbing tra le medesime parti.

Massima

Il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, previsto dall'art. 33, comma 5, l. n. 104/1992, si applica solo nel caso in cui il trasferimento comporti un effettivo mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione lavorativa, non rilevando spostamenti all'interno dello stesso comune se non pregiudizievoli per il ruolo di caregiver.

Il trasferimento rappresenta una misura adottabile per tutelare la salute e sicurezza, come imposto dall'art. 2087 c.c., e non una misura discriminatoria o ritorsiva, laddove il dipendente abbia precedentemente denunciato la conflittualità lavorativa, foriera di danni alla salute.

Il divieto di trasferimento sancito dall'art. 33 comma 6 l. 104/1992 trova applicazione solo nel caso di lavoratore portatore di handicap grave.

Il caso

Una Lavoratrice adiva il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, con ricorso ex artt. 700 e 414 c.p.c., per vedere accertata e dichiarata la discriminatorietà del trasferimento disposto nei suoi confronti dalla banca datrice di lavoro.

La ricorrente era stata assunta tramite collocamento obbligatorio, essendo ella invalida civile al 45%, ed assegnata alla sede di Napoli. Nel corso del rapporto di lavoro, a causa delle condizioni di salute della madre, la Lavoratrice ricorreva ai permessi ai sensi della l. n. 104/1992. Anni dopo, la Lavoratrice, dolendosi di una protratta inattività presso la sede di Napoli, otteneva un primo trasferimento a Milano, presso gli uffici del Credit Risk Reporting. Detto spostamento le permetteva comunque di continuare ad accudire la madre, constando l'ufficio di appartenenza di una doppia sede operativa, sia a Milano che a Napoli, ove risiedeva la madre invalida.

Tuttavia, presso la nuova sede di destinazione la Lavoratrice diveniva vittima di mobbing e straining, e denunciava il datore di lavoro. Si veniva così a creare un clima ostile e teso, nocivo per la salute della dipendente, che nel frattempo veniva dichiarata, dall'apposita commissione medica, invalida civile al 50%, oltre ad esserle riconosciuto lo status di soggetto portatore di handicap.

Durante la pendenza del giudizio per mobbing (che si concluderà con esito sfavorevole per la ricorrente), la società datrice le comunicava il suo trasferimento, sempre a Milano, ma presso altro ufficio. Per l'effetto, la ricorrente perdeva la doppia sede operativa Napoli-Milano, della quale invece beneficiava presso gli uffici d'origine.

Per tale ragione, la Lavoratrice invocava la discriminatorietà e/o ritorsività del trasferimento (posto in essere per motivi di rappresaglia visto il giudizio di mobbing instaurato dalla ricorrente contro la datrice di lavoro ed ancora pendente all'epoca della comunicazione del trasferimento), nonché la violazione dell'art. 33 l. 104/1992, che sancisce il divieto di trasferimento del disabile o del “caregiver” senza il consenso di quest'ultimo.   

Il Tribunale di Milano, con una sentenza che desta perplessità, respingeva le doglianze della ricorrente: riteneva il trasferimento legittimo, anzi addirittura necessario ai sensi dell'art. 2087 c.c., e ne escludeva la discriminatorietà e la ritorsività. 

La questione

La sentenza del Tribunale di Milano in commento affronta il tema dei limiti applicativi della regola del divieto di trasferimento del lavoratore disabile o del “caregiver”, ossia colui che presta assistenza ad un parente/convivente disabile, che trova fondamento nell'art. 33 della l. 104/1992.  

Il tema impone, in primo luogo, lo studio della differenza ontologica che sussiste tra il trasferimento di cui all'art. 2103 c.c. e quello regolato dall'art. 33 l. 104. Inoltre, occorre rilevare come scorrendo l'art. 33 l'occhio del lettore si soffermi su tre parole, più volte evocate dal tenore del disposto normativo: “situazione di gravità”. Doverosa, dunque, l'analisi della seconda questione giuridica.

La tutela antidiscriminatoria e l'obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli può estendersi al divieto di trasferimento? Il divieto di trasferimento come accomodamento ragionevole si applica al solo lavoratore disabile grave in base alla l. 104 oppure anche al disabile secondo la nozione eurounitaria?

Senza indugiare, ed ignorando l'ampio dibattito formatosi sul tema, il Tribunale di Milano ha offerto risposta negativa al quesito. Così si legge nella sentenza in commento: “osserva il giudicante che i condivisibili principi richiamati al paragrafo precedente non si attagliano al caso di specie. Ciò in quanto la ricorrente potrebbe invocare le disposizioni e tutele di cui all'art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992 solo in funzione dell'assistenza prestata alla madre in quanto affetta da handicap in stato di gravità (in quanto, sotto il profilo individuale e personale, lo stato di disabilità riconosciuto alla dipendente è privo del connotato della gravità)”.

Sul punto preme evidenziare sin da ora il recente decreto legislativo del 3 maggio 2024, n. 62, tramite il quale l'ordinamento nazionale ha recepito il modello biopsicosociale della disabilità, aderendo all'orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia. Il citato decreto legislativo ha rimodulato la definizione contenuta nell'art. 3, legge n. 104/1992, individuando la «persona con disabilità» in «chi presenta durature compromissioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri, accertate all'esito della valutazione di base» (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 62/2024). 

Anche l'art. 3 comma 3 della L. 104/92, che definisce il concetto di “disabilità grave” è stato oggetto di modifiche. Tuttavia, il legislatore non si è mosso in maniera particolarmente incisiva, posto che può attribuirsi alla disabilità il carattere della gravità solo “Qualora la compromissione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”.

Ora, ci si chiede se l'orientamento avallato dal Tribunale di Milano, cioè la necessarietà del requisito della gravità per accedere ai benefici di cui all'art. 33, sia conforme alla tutela via via crescente ormai riconosciuta dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale al lavoratore disabile, e ciò a prescindere dalla gravità della patologia, che è concetto di diritto interno e, a parere di chi scrive, se utilizzata rigorosamente come unica chiave per l'accesso ai benefici, si rivela un presupposto estremamente restrittivo.

La portata delle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”. L'onere della prova gravante sul datore di lavoro.

Un'ulteriore questione giuridica attiene a quelle esigenze imprenditoriali, in presenza delle quali il datore di lavoro è esonerato dal rispetto del divieto di trasferimento del disabile o del caregiver. In particolare, la tutela rafforzata cui ha diritto il lavoratore che assista con continuità un familiare invalido opera nei confronti delle ordinarie esigenze tecniche, organizzative, produttive, legittimanti la mobilità, con il solo limite della soppressione del posto o di altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte. In tale ultima categoria deve essere ricondotta la ragione dedotta dall'istituto bancario nella vicenda concreta, e considerata congrua dal Giudice del Lavoro: “l'incompatibilità ambientale, in forza delle gravissime accuse mosse dalla lavoratrice nei confronti dei propri superiori” nella sede d'origine.

Esposte in sintesi le questioni giuridiche ci si domanda, alla luce del panorama giurisprudenziale attuale, il divieto di trasferimento previsto dall'art. 33 è regola o eccezione?

Le soluzioni giuridiche

L'esigenza di protezione della disabilità ha comportato l'introduzione, nel rapporto di lavoro subordinato, dell'istituto di cui all'art. 33 della l. 104/1992, denominata dalla dottrina “Statuto dei diritti delle persone portatrici di handicap” (Elmo 2024, 107 ss.).

Anzitutto, preme una disamina dell'art. 33, nei commi che interessano in tal sede.

Il comma 3 individua puntualmente i soggetti che possono essere qualificati “caregiver”, ossia: “il lavoratore dipendente, pubblico o privato che assiste una persona con disabilità in situazione di gravità, che non sia ricoverata a tempo pieno, rispetto alla quale il lavoratore sia coniuge, parte di un'unione civile, convivente di fatto, parente o affine entro il secondo grado. In caso di mancanza o decesso dei genitori o del coniuge o della parte di un'unione civile o del convivente di fatto, ovvero qualora gli stessi siano affetti da patologie invalidanti o abbiano compiuto i sessantacinque anni di età, il diritto è riconosciuto a parenti o affini entro il terzo grado della persona con disabilità in situazione di gravità”. Una volta delineato il profilo del caregiver, il comma 5 del medesimo art. 33 stabilisce che: “Il lavoratore di cui al comma 3 ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”. Queste le disposizioni di riferimento per quanto riguarda il lavoratore che presti assistenza al familiare/convivente disabile.

Quando invece è il medesimo dipendente ad essere portatore di handicap, entra in gioco il comma 6, prevedendo quanto segue: “La persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità può usufruire alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in altra sede, senza il suo consenso”.

L'istituto come esposto, proprio per la sua natura di tutela rafforzata nei confronti del disabile, esula dalle generali regole di cui all'art. 2103 c.c., il quale al comma 8 così dispone: “Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

Due appaiono i concetti chiave, emblematici per carpire la netta distinzione tra la disciplina del trasferimento del lavoratore disabile o del caregiver e di quello “normodotato”: il concetto di “ragioni tecniche, organizzative e produttive”, ed il concetto di “unità produttiva”.

La portata delle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”. L'onere della prova gravante sul datore di lavoro.

Il trasferimento “classico” disciplinato dall'art. 2103 c.c., per essere legittimo, deve essere posto in essere per “comprovate ragioni tecniche, produttive, ed organizzative”. Il legislatore, in tal modo, da un lato intende salvaguardare la discrezionalità di alcune scelte datoriali quali quelle inerenti alla mobilità della forza lavoro; dall'altro lato, impone che le decisioni adottate non risultino lesive della libertà e dignità del lavoratore e non derivino da motivazioni pretestuose o arbitrarie. La nozione di ragioni tecniche, produttive ed organizzative di cui all'art. 2103 c.c. è idonea a ricomprendere un ampio spettro di esigenze, alla sussistenza delle quali il datore di lavoro potrà disporre il trasferimento. Tale perimetro, tuttavia, è grandemente circoscritto per la mobilità del lavoratore disabile o del caregiver. È sotto tale profilo che si manifesta la tutela rafforzata riservata a questa particolare categoria di lavoratori; infatti, la giurisprudenza è ormai pacifica nel ritenere che “Il divieto di trasferimento del lavoratore che assista con continuità un familiare invalido, previsto all'art. 33, comma 5, della l. n. 104 del 1992, nel testo modificato dall'art. 24, comma 1, lett. b), della l. n. 183 del 2010, ponendosi come limite esterno al potere datoriale, prevale nei confronti delle ordinarie esigenze tecniche, organizzative e produttive, legittimanti la mobilità” (così Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 11 novembre 2022, n. 33429). Sul tema la Suprema Corte si è pronunciata a Sezioni Unite, cristallizzando il seguente principio di diritto: “In materia di assistenza alle persone handicappate, alla luce di una interpretazione della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 5, orientata dalla complessiva considerazione dei principi e dei valori costituzionali coinvolti (come delineati, in particolare, dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 406/1992 e Corte cost. n. 325/1996), il diritto del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente od un affine entro il terzo grado handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, (…) non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico- produttive dell'azienda o della P.A.” (Cass. Civ. Sez. Un. 9 luglio 2009 n. 16102).

Ciò nonostante, il diritto del disabile o del caregiver a non essere trasferito in altra sede lavorativa senza il proprio consenso non è assoluto ed incondizionato. L'interesse del dipendente protetto, infatti, pur prevalendo sulle ordinarie esigenze produttive ed organizzative datoriali, deve pur sempre conciliarsi con altri interessi rilevanti che possono manifestarsi durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Esaminando la casistica sviluppatasi nel tempo, le deroghe al divieto di trasferimento possono essere suddivise in tre sottocategorie: la soppressione del posto di lavoro, l'incompatibilità ambientale, il trasferimento o la cessione del ramo d'azienda.

Per quanto riguarda la soppressione del posto di lavoro, la prevalenza di tale situazione di fatto rispetto al divieto di trasferimento si impone per l'esigenza di conservare al lavoratore protetto la sua occupazione, ove vi sia l'impossibilità di mantenerlo nella sede d'origine. A titolo esemplificativo si rammenta Cass. civ., sez. lavoro, ord., 11 novembre 2022, n. 33429, secondo la quale “la tutela rafforzata cui ha diritto il lavoratore che assista con continuità una familiare invalido opera nei confronti delle ordinarie esigenze tecniche, organizzative, produttive, legittimanti la mobilità, con il limite della soppressione del posto o di altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”. Nel caso concreto, è stata confermata la doppia conforme delle Corti di merito che avevano rigettato il ricorso di un lavoratore, caregiver del padre disabile, trasferito per comprovata soppressione del posto di lavoro, dopo aver rifiutato mansioni diverse in alternativa al trasferimento, la Suprema Corte ha ritenuto non applicabile al trasferimento il principio dell'obbligo di ricollocamento o cd. repêchage del lavoratore incombente sul datore di lavoro, che allegava di poter essere adibito a mansioni equivalenti od inferiori nella sede di provenienza (principio applicabile esclusivamente alle ipotesi di licenziamento per GMO) (ibidemCassazione civile sez. lav., 16 febbraio 2023, n. 4944).

Sotto il profilo del trasferimento d'azienda, consta un solo risalente precedente: Tribunale di Roma, ordinanza 11/07/2006. Il caso traeva origine dalla cessione di un ramo d'azienda, ed addetto a quest'ultimo era un lavoratore disabile, invalido al 100%. Egli, non potendosi trasferire da Roma a Cagliari, adiva il giudice del lavoro affinché ordinasse alla cedente e/o alla cessionaria di proseguire il rapporto di lavoro in Roma. In prima battuta il Tribunale accertava il diritto del ricorrente a non essere allontanato dal luogo ove lavorava per la cedente, e quindi a proseguire il rapporto di lavoro a Roma, in quanto: “la circostanza che la cessionaria non abbia propri uffici a Roma non può determinare la violazione di un diritto individuale sancito dalla legge e rispondente ad un'alta esigenza di tutela delle persone meno fortunate”. Il Collegio riformava detto provvedimento enunciando il principio secondo cui: “una volta che la cessione del ramo d'azienda sia stata ritenuta valida ed efficace e che il [lavoratore] sia passato alle dipendenze della società reclamante – la quale pacificamente non dispone di uffici in Roma – il diritto di quest'ultimo al mantenimento della sede di lavoro che occupava presso la [cedente] è destinato a cedere di fronte alla materiale impossibilità di [cessionaria] di ottemperare all'obbligo posto a proprio carico. L'inesistenza dell'oggetto (la sede di lavoro in Roma) opera quale circostanza impeditiva ab origine dell'adempimento al pari dell'impossibilità della prestazione, e preclude certamente al lavoratore di soddisfare il proprio diritto: non si vede infatti in quale modo la società possa mantenere il [lavoratore] in una sede dove non dispone di uffici o dipendenze, se non imponendole la creazione ad hoc di una struttura operativa nella quale inserire quell'unico lavoratore”.

In ultimo, quella che più rileva nel caso concreto è la deroga al divieto per incompatibilità ambientale.

Il Tribunale di Milano in commento ha ritenuto giustificato, ed anzi addirittura obbligato ai sensi dell'art. 2087 c.c., il trasferimento della lavoratrice caregiver, avendo ella precedentemente instaurato un giudizio contro i superiori della sede d'origine per mobbing e straining.

Il caso in commento appare in toto assimilabile ad un precedente di Corte di cassazione (Cass. 05 novembre 2013, n. 24775 (rv. 628506)). Nella vicenda affrontata i giudici di legittimità ritenevano legittimo il trasferimento della caregiver in quanto: “la permanenza del dipendente, addetto alla reception di uno stabile dell'Ente per il Diritto allo Studio Universitario di Pavia, nella sede di lavoro non poteva ulteriormente protrarsi in ragione delle tensioni personali e dei contrasti insorti con gli altri colleghi, tali da provocare rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell'attività lavorativa e da giustificare, quindi, il provvedimento di trasferimento”.

Per incompatibilità ambientale si intende “la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell'ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione” (Cass. 15 dicembre 1987 n. 9276; Cass. 16 aprile 1992 n. 4655; Cass. 28 settembre 1995 n. 10252; Cass. 9 marzo 2001 n. 3525; Cass. 12 dicembre 2002 n. 17786; Cass. 23 febbraio 2007 n. 4265). Nonostante tale situazione di fatto sia riconducibile all'art. 2103 c.c., si differenzia dalle ordinarie esigenze organizzative e produttive, in quanto costituisce essa stessa causa di disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per sé, un'obiettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro (cfr. Cass. n. 4265/2007; Cass.10252/1995). Pertanto, la particolarità delle esigenze sottese a tale situazione, riconducibili a valori di rilievo costituzionale e allo stesso mantenimento dell'assistenza alle persone portatrici di handicap, determina la inapplicabilità, in caso di incompatibilità ambientale, della tutela di cui alla l. n. 104/1992, art. 33, comma 6.

Se ciò è vero, è comunque richiesto al giudice di merito il rigoroso accertamento sull'impossibilità della permanenza del dipendente nella sede di lavoro, in ragione delle tensioni e dei contrasti creatisi nell'ambiente di lavoro, implicanti rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell'attività lavorativa.

Analizzando la pronuncia in commento si dubita che detto accertamento sia in concreto avvenuto. Così si legge in sentenza: “la lavoratrice, in sede giudiziale, aveva mosso gravi accuse ai propri responsabili in relazione a condotte pregiudizievoli del proprio stato di salute. In tale scenario, la scelta aziendale di disporne l'assegnazione altrove (anche se in prossimità della decisione della causa) rappresenta una scelta prudenziale sotto un duplice profilo. Da un lato, per la dedotta ed evidente (seppur potenziale, non essendo stata all'epoca ancora definito il giudizio) incompatibilità ambientale, in forza delle gravissime accuse mosse dalla lavoratrice nei confronti dei propri superiori. Dall'altro lato, a fronte della rappresentazione della dipendente di un contesto lavorativo pregiudizievole per le proprie condizioni di salute, emergendo (come scenario alternativo nel caso di accoglimento delle domande) la necessità, da parte del datore di lavoro, di attivarsi per preservare la salute della dipendente. Trattasi, in tale ultimo caso, di un pieno e doveroso adempimento delle previsioni della norma generale dell'articolo 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di farsi carico di adottare tutte le misure necessarie per garantire e tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Di conseguenza, la società, onde evitare di incorrere in possibili responsabilità nei confronti di tutti i dipendenti dell'ufficio, ha adottato una misura organizzativa necessaria. Vero che detta misura si è risolta nella nuova assegnazione della ricorrente ma, d'altra parte, è comprensibile che la società abbia inteso anche minimizzare l'impatto sull'ufficio giacché, diversamente, avrebbe dovuto stravolgerne l'organigramma (a cominciare dai responsabili)”. Il Giudice milanese àncora la sussistenza dell'incompatibilità ambientale alle sole “gravissime accuse” mosse dalla lavoratrice nei confronti dei propri superiori. Tra l'altro, le domande in tema di mobbing e straining avanzate dalla ricorrente in separato giudizio venivano respinte. Detta circostanza avrebbe potuto essere considerata un indice dell'assenza di un clima lavorativo effettivamente ostile tale da giustificare il trasferimento per incompatibilità ambientale. Al contempo, non risulta che la società datrice abbia assolto l'onere probatorio sulla stessa incombente, ossia quello di offrire la prova dell'oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro, né risultavano dimostrate le disorganizzazioni causate dall'asserito clima disfunzionale. Si ritiene, invece, che se la situazione lavorativa fosse stata così inaccettabile, la ricorrente non avrebbe di certo adito l'autorità giudiziaria per ottenere l'annullamento del trasferimento in altra sede. Al contempo, non risulta essere stata espletata alcuna istruttoria, seppur sommaria in sede di urgenza, e nessun collega di lavoro è stato chiamato quale informatore sull'esistenza o meno di una conflittualità irrimediabile tra le parti tale da creare un danno all'attività lavorativa e da rendere impossibile la permanenza della lavoratrice presso la sede d'origine.

In ultimo, citando la ormai consolidata giurisprudenza sviluppatasi intorno all'art. 2087 c.c.: “In tema di obbligo di protezione ex art. 2087 c.c., la dimensione organizzativa assume rilevanza quale fattore di rischio per la salute dei lavoratori, atteso che l'art. 28 del T.U. n. 81 del 2008, ulteriore specificazione del più generale canone presidiato dall'art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli collegati allo stress lavoro-correlato” (ex multis Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 15/11/2022, n. 33639). Ne consegue che uno degli obblighi datoriali è quello di adottare tutte le misure di prevenzione atte ad evitare il rischio da stress-lavoro correlato, ossia quello di eliminare tutte le situazioni di conflittualità lavorativa. Ebbene, la sentenza in commento supporta la società datrice che, in adempimento all'art. 2087 c.c., opta per sacrificare il dipendente. Emblematico il seguente passaggio motivazionale: “la società, onde evitare di incorrere in possibili responsabilità nei confronti di tutti i dipendenti dell'ufficio, ha adottato una misura organizzativa necessaria. Vero che detta misura si è risolta nella nuova assegnazione della ricorrente ma, d'altra parte, è comprensibile che la società abbia inteso anche minimizzare l'impatto sull'ufficio giacché, diversamente, avrebbe dovuto stravolgerne l'organigramma (a cominciare dai responsabili)”. Se così stanno le cose, la sentenza in commento dimostra che il trasferimento per incompatibilità ambientale, se non accompagnato da un rigoroso accertamento sull'oggettiva esigenza di modifica e sui concreti effetti disfunzionali derivanti dalla conflittualità tra le parti, appare un'arma estremamente pericolosa, facilmente utilizzabile per camuffare provvedimenti di carattere ritorsivo (si ricordi che nel caso concreto il trasferimento veniva disposto in pendenza del giudizio instaurato dalla dipendente contro la società datrice).

Concludendo, la giurisprudenza ammette la possibilità di deroga al divieto di trasferimento consentendo al datore di lavoro di dimostrare in giudizio l'esistenza di specifiche ed effettive esigenze tecniche, organizzative e produttive, purché non ordinarie e insuscettibili di essere diversamente soddisfatte. Queste ultime appiano tassative (soppressione del posto di lavoro, incompatibilità ambientale, trasferimento d'azienda) e rispondenti ad interessi costituzionalmente rilevanti. È proprio qui che risiede la nitida differenza con le ragioni tecniche ordinarie di cui all'art. 2103 c.c., troppo deboli per legittimare il trasferimento del disabile o del caregiver.

La distinzione tra unità produttiva di cui all'art. 2103 c.c. e la sede di lavoro di cui all'art. 33 l. 104.

Se l'art. 2103 c.c. parla di trasferimento in altra “unità produttiva”, quest'ultima non viene mai menzionata dall'art. 33 l. 104, che invece fa sempre riferimento alla “sede di lavoro”. Ne consegue che il divieto di trasferimento del lavoratore disabile o del caregiver opera ogniqualvolta muti definitivamente il luogo geografico di esecuzione della prestazione, anche nell'ambito della medesima unità produttiva che comprenda uffici dislocati in luoghi diversi, in quanto il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente di ritenere tale nozione corrispondente all'unità produttiva di cui all'art. 2103 c.c. Per quest'ultima, invece, si intende: “ogni articolazione autonoma dell'azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale” (Cass. n. 20600/2014; Cass. n. 20520/2019).

Sulla base di quanto esposto, è stato riconosciuto il divieto di trasferimento del caregiver anche nell'ambito del medesimo comprensorio, e si dirà di più, anche nel caso in cui il CCNL applicato al rapporto di lavoro prevedesse espressamente che le disposizioni in tema di trasferimento non si applicassero ai trasferimenti in ambito di comprensorio. Nello specifico, Cass. civ., sez. lavoro, ord., 08 febbraio 2021, n. 2969 ha statuito che: “alle disposizioni contrattual-collettive non è consentito introdurre eccezioni alle tutele apprestate da norme inderogabili quali l'art. 2103 c.c. e la l. n. 104/1992, art. 33 vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente . Nello stesso senso Cass. civ., sez. lavoro, sent., 12 ottobre 2017, n. 24015, che ha riconosciuto il divieto di trasferimento anche in un luogo di lavoro distante pochi chilometri dalla sede d'origine nonché dall'abitazione del lavoratore. La Corte territoriale aveva escluso la legittimità del rifiuto del dipendente caregiver di essere trasferito presso la mensa del carcere, perché la nuova sede di lavoro si trovava a pochi chilometri di distanza dalla originaria sede di lavoro e dalla abitazione del medesimo. Tuttavia, la Suprema Corte cassava la sentenza di secondo grado evidenziando che “la Corte territoriale ha omesso di svolgere qualsiasi accertamento in ordine alla compatibilità della nuova sede di lavoro con gli obblighi di assistenza del familiare pacificamente affetto da handicap, di indagare se il mutamento della sede di lavoro del lavoratore alterasse le condizioni di vita del contesto familiare in cui la persona con disabilità si trovava inserita e il livello di assistenza assicurabile dal C. all'esito del mutamento della sede di lavoro”.

La sentenza del Tribunale di Milano in commento disvela una certa contraddittorietà. Pacifico come la stessa avalli la giurisprudenza di legittimità succitata, riconoscendo che: “ai fini della configurazione di un trasferimento che coinvolge un lavoratore che presti assistenza a un disabile, non deve farsi ricorso alla stretta nozione di trasferimento di cui all'art. 2103 c.c. (con la necessità di doversi individuare due distinte unità produttive per configurare la fattispecie)”. Tuttavia, sembra poi non applicare il suddetto principio al caso concreto. La lavoratrice era stata trasferita da un ufficio di Milano ad un altro, sito all'interno del medesimo Comune ed a poche centinaia di metri l'uno dall'altro. Nonostante si trattasse effettivamente di “luoghi di lavoro diversi”, il Tribunale non qualifica “il provvedimento quale trasferimento in senso stretto”, ma “semplice assegnazione nell'ambito della medesima area”.

Inoltre, il Giudice del Lavoro riteneva non applicabile al caso concreto la tutela di cui all'art. 33 comma 5 l. 104/1992 anche in virtù del fatto che la madre disabile della ricorrente, bisognosa di assistenza, vivesse a Napoli. Quindi, per la scarsa distanza tra la sede d'origine e quella di destinazione, veniva ritenuto che il trasferimento non potesse comportare alcun pregiudizio per l'assistenza della madre invalida, vivendo ella già prima in altra città. Anche tale argomentazione risulta viziata: il Giudice del Lavoro ben sapeva che la nuova assegnazione della ricorrente le avrebbe precluso la doppia sede Milano-Napoli, rendendo senz'altro più difficoltosa l'assistenza della madre. Sul punto, la sentenza omette quel vaglio (indicato come necessario da Cass. civ., sez. lavoro, sent., 12 ottobre 2017, n. 24015) in ordine alla compatibilità della nuova sede di lavoro con gli obblighi di assistenza del familiare pacificamente affetto da handicap che, a parere di chi scrive, avrebbe dovuto risolversi con l'accertamento di un effettivo pregiudizio per la caregiver. Per porre rimedio a tale lacuna, il Giudice del Lavoro si serve di un opinabile escamotage. Così si legge in sentenza: “Deve, semmai, sollecitarsi il datore di lavoro affinché si assicuri - qualora (nonostante l'attivarsi del dipendente) permanga la situazione di disagio lamentata - che la ricorrente possa appoggiarsi agli hub di Napoli (ovviamente dando un congruo preavviso) godendo della disponibilità della postazione, così da eliminare il rischio che non possa accedervi essendo esauriti i posti (adottando, quindi, le relative misure organizzative, quale ragionevole accomodamento). Trattasi, tuttavia, di una modalità organizzativa che può semplicemente essere auspicata nel presente giudizio e affidata alla piena e franca interlocuzione tra le parti”.

È proprio in quest'ultima parte della sentenza che il Tribunale di Milano, con un volo pindarico, non tratta più del divieto di trasferimento ai sensi della l. 104, ma si sposta su di un piano diverso, cominciando a trattare del tema degli “accomodamenti ragionevoli” e della “tutela antidiscriminatoria”.

Necessaria a questo punto la trattazione della successiva questione giuridica.

La tutela antidiscriminatoria e l'obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli può estendersi al divieto di trasferimento? Il divieto di trasferimento come accomodamento ragionevole si applica al solo lavoratore disabile grave in base alla L. 104 oppure anche al disabile secondo la nozione eurounitaria?

Il primo quesito trova senz'altro risposta affermativa. L'istituto degli accomodamenti ragionevoli è stato introdotto nell'ordinamento italiano a seguito della condanna dell'Italia da parte della Corte di Giustizia dell'Unione Europea per il mancato recepimento della direttiva 2000/78/CE nella parte in cui prevede l'obbligo degli accomodamenti ragionevoli (CGUE, 4 luglio 2013, C-312/11, Commissione Europea contro Repubblica Italiana) a seguito della quale è stato inserito il comma 3-bis dell'art. 3 d.lgs. n. 216/2003, che stabilisce: “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, ossia: “modifiche e adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (art. 2, comma 4, della Convenzione ONU del 13 dicembre 2006), Dall'esame del considerando 20 della Direttiva 2000/78/CE risulta  come le misure  possono consistere in interventi sugli immobili (sistemazione dei locali) o sui beni mobili utilizzati dall'impresa (adattamento delle attrezzature), ma possono anche ricomprendere misure organizzative dell'attività, quali ritmi del lavoro e ripartizione dei compiti, od ancora misure inerenti alla formazione del lavoratore, la riduzione dell'orario di lavoro (Corte Giust. 11 aprile 2013 HK Danmark C-335/2011 e C-337/2011 (Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 09/03/2021, n. 6497 (rv. 660632-01 Cass. civ., Sez. lavoro, 22/05/2024, n. 14307), recentemente si è affermato che lo smart working può rappresentare un accomodamento ragionevole, ove fattibile rispetto alla mansione svolta COVID-19 (Cass. Civ. Sez. Lavoro ordinanza 10/1/2025 n. 605; ancora consentire il trasferimento del lavoratore ad una sede, vacante, più vicina a casa sua, in una situazione di disabilità e con necessità di cure antitumorali, costituisce un accomodamento ragionevole (Cass. civ., Sez. Lavoro ordinanza 21/11/2024 n. 30080). Del resto, l'art. 17 del d.lgs. n. 62/2024 ha introdotto all'interno della l. n. 104/1992 l'art. 5-bis, rubricato «Accomodamento ragionevole» e dopo aver premesso la natura sussidiaria di tale strumento – che «non sostituisce né limita il diritto al pieno accesso alle prestazioni, servizi e sostegni riconosciuti dalla legislazione vigente» – al comma 1 specifica che l'accomodamento ragionevole, «ai sensi dell'articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (…), individua le misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato». Ed all'art. 17 vi è la procedimentalizzazione della facoltà della persona con disabilità di richiedere l'adozione di un accomodamento ragionevole, con conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione, riflette il carattere vincolante dell'obbligo di accomodamenti ragionevoli, il cui rifiuto costituisce la discriminazione vietata.

Quindi, l'obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli può estendersi al divieto di trasferimento.

Diverso della applicabilità o meno di tali accomodamenti e quindi del divieto di trasferimento al lavoratore disabile non grave, sul tema si è sviluppato un dibattito, che non pare essere valorizzato dalla sentenza commentata. Nell'arresto del Tribunale Ambrosiano la lavoratrice ricorrente era stata dichiarata da apposita commissione medica invalida al 50% e portatrice di handicap. Il Giudice milanese esclude di poter applicare la disciplina di cui all'art. 33 comma 6 l. 104 “in quanto, sotto il profilo individuale e personale, lo stato di disabilità riconosciuto alla dipendente è privo del connotato della gravità”.

Sul tema sussiste un evidente contrasto giurisprudenziale. Seppur vero che il tenore letterale dell'art. 33 è chiaro nell'evocare il requisito della gravità dell'invalidità, attenta giurisprudenza ha rilevato come ciò si ponga in contrasto con la nuova nozione eurounitaria di handicap e con l'interpretazione sistematica delle fonti multilivello. Su tale scia, la Corte di Cassazione, con due primi interventi, ha inteso estendere i diritti di scelta della sede e di inamovibilità in favore dei prestatori di assistenza dei disabili non gravi: “La disposizione dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati - alla luce dell'art. 3, secondo comma, Cost., dell'art. 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con legge n. 18 del 2009 - in funzione della tutela della persona disabile. Ne consegue che il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte” (Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza, 07/06/2012, n. 9201; Cass. civ., Sez. lavoro, Sentenza 12/12/2016 n. 25379). In particolare, in quest'ultima pronuncia è stato così illustrato che: “va rimarcato che la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del disabile del 13 dicembre 2006 è stata ratificata dall'Italia con l. n. 18 del 2009 e dall'Unione Europea con decisione n. 2010/48/CE (cfr. Cass. n. 2210/2016). Pertanto la Corte territoriale non avrebbe dovuto fermarsi alla mancanza di documentazione proveniente dalle USL sull'invalidità grave della madre della ricorrente, ma procedere ad una valutazione della serietà e rilevanza (sotto lo specifico profilo della necessità di assistenza) dell'handicap da questa sofferta (eventualmente sulla base della documentazione disponibile) a fronte delle esigenze produttive sottese al trasferimento, il che è stato omesso sulla base di una interpretazione letterale della norma in discussione oggi superata dalla giurisprudenza di legittimità”.

Sulla base del medesimo principio, la Suprema Corte ha concluso per l'illegittimità del trasferimento di una lavoratrice, disposto a molte centinaia di chilometri dal luogo in cui ella risiedeva insieme alla madre, invalida civile al 100%, nonostante non fosse mai stata dichiarata portatrice di handicap dalla competente commissione (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 03/11/2015, n. 22421).

Nello stesso solco si è posta più recentemente Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 10/05/2023, n. 12649, la quale, in tema di limitazioni al lavoro notturno, si è spinta oltre trattando del tema della gravità della invalidità. Significative appaiono le motivazioni: “l'insieme di tali orientamenti di legittimità è espressamente ispirato alla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha evidenziato come la L. n. 104 del 1992 abbia preso in particolare considerazione l'esigenza di favorire la socializzazione del soggetto disabile, predisponendo strumenti rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella famiglia, nella scuola e nel lavoro, in attuazione del principio secondo il quale la socializzazione in tutte le sue modalità esplicative è un fondamentale fattore di sviluppo della personalità ed un idoneo strumento di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica (cfr. Corte Cost. n. 215 del 1987; Corte Cost. n. 350 del 2003; ma anche Corte Cost. n. 167 del 1999, n. 226 del 2001 e n. 467 del 2002); è stato altresì sottolineato che una tutela piena dei soggetti deboli richiede, oltre alle necessarie prestazioni sanitarie e di riabilitazione, anche la cura, l'inserimento sociale e, soprattutto, la continuità delle relazioni costitutive della personalità umana (Corte Cost. n. 203 del 2013); questa Corte ha di recente preso atto che i propri precedenti "orientano per una valorizzazione dell'esigenza di tutela del disabile al di là di ogni condizionamento derivante dal mancato accertamento di uno status o da preclusioni collegate all'inesistenza di un provvedimento formale che confermi la ricorrenza della situazione di fatto che conferisce fondamento al diritto del familiare che presta assistenza al disabile" (in termini: Cass. n. 29009 del 2020)”.

D'altronde, tale indirizzo, che prescinde dall'accertamento dello status di portatore di handicap “grave”, si pone in linea con la giurisprudenza eurounitaria. La nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78 non è ricavabile dal diritto interno, ma unicamente dal diritto eurounitario: menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, indipendentemente dall'origine e dalla natura della malattia che le abbia generate (art. 1 direttiva 2000/78 e sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42). Non a caso, il d.lgs. del 3 maggio 2024, n. 62 ha recepito il modello biopsicosociale della disabilità, aderendo all'orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia ed andando così ad incidere sulla definizione di persona con disabilità contenuta nell'art. 3 Legge n. 104/1992.

Non mancano orientamenti contrapposti.

Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 27/09/2018, n. 23338 ha rimarcato l'assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all'accertamento della condizione di handicap grave di cui alla L. n. 104 del 1992.

In particolare, il primo indirizzo estensivo è stato fortemente criticato ritenendo generici e non pertinenti con il tema del grado di handicap i rinvii alla Convenzione di New York e alla giurisprudenza costituzionale in materia. Sotto il primo aspetto è stato sottolineato che la scelta del legislatore interno di riconoscere ai disabili gravi, ossia con ridotta autonomia personale, le agevolazioni di cui all'art. 33 L. 104, costituisce precisa e corretta attuazione degli impegni assunti con l'art. 4 ed accomodamento ragionevole ai sensi dell'art. 5 del testo convenzionale. Per quanto attiene al secondo profilo, è stato evidenziato come la Corte Costituzionale, attraverso le due pronunce 8 maggio 2007 n. 158 e 30 gennaio 2009 n. 19, abbia chiaramente specificato che «la tutela rilevante della persona handicappata è quella relativa al disabile in situazione di gravità» e che appartiene, per il resto, alla discrezionalità del legislatore la decisione su ulteriori interventi: «Se le norme non ledono precetti contenuti nella Carta Fondamentale, e nelle ipotesi di handicap non grave non vi sarebbe alcuna lesione di diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti, spetta al legislatore il compito di individuare nell'ambito della propria discrezionalità i mezzi idonei destinati a garantire la realizzazione e l'integrazione del disabile nell'ambito del rapporto familiare, sociale, scolastico e lavorativo».

A titolo esemplificativo si cita Cass. civ., sez. lavoro, 03 maggio 2013, n. 10338, che àncora l'accesso ai benefici imprescindibilmente allo status di disabilità grave: “il diritto del lavoratore disabile a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può prescindere dall'accertamento della gravità della disabilità di cui il medesimo è affetto. Pertanto, l'inamovibilità del lavoratore è connessa alla gravità dell'handicap dello stesso e si giustifica per la particolare gravosità che lo spostamento, imposto, potrebbe generare in un lavoratore proprio a cagione della rilevante incidenza del suo handicap con riguardo, ad esempio, alla sua autonomia, alla necessità di avvalersi di particolari presidi sanitari non reperibili in ogni sede ovvero di ausili da parte di terzi che un trasferimento imposto potrebbe compromettere”.

Sullo stesso filone si è posta la sentenza in commento.

Secondo quanto sinora esposto, evidente appare la tutela rafforzata riservata al lavoratore disabile o al caregiver dall'art. 33 L. 104, se non fosse per un fondamentale scoglio, fortemente limitativo per l'accesso ai benefici: la gravità dell'handicap.

La tutela antidiscriminatoria ed il divieto di trasferimento come accomodamento ragionevole si applica solo al solo lavoratore disabile oppure anche al lavoratore caregiver di familiare disabile?

Un problema non espressamente affrontato dalla sentenza in commento, pur tuttavia evocato dai fatti oggetto di giudizio (che riguardavano una Lavoratrice caregiver di familiare disabile grave), attiene alla applicabilità della disciplina antidiscriminatoria di derivazione eurounitaria anche ai lavoratori caregiver e non solo ai lavoratori disabili.

Sul punto si registra un duplice arresto della Suprema Corte, che con l'ordinanza interlocutoria di Cass. civile, sez. lav., ord. 17 gennaio 2024, n. 1788, ha sollevato alla CGUE questione di compatibilità con il diritto UE per chiarire se al lavoratore caregiver di un familiare minore con disabilità grave vada riconosciuta la stessa tutela contro le discriminazioni indirette che spetta al disabile stesso se fosse lavoratore. Nel caso esaminato dalla Cassazione, una lavoratrice, madre di un figlio minore con disabilità grave, chiedeva al giudice di accertare se la condotta tenuta dal datore di lavoro nei suoi confronti avesse natura discriminatoria. In particolare, la lavoratrice lamentava la mancata concessione di turni di lavoro che le consentissero di assistere il figlio nelle ore pomeridiane. La lavoratrice era disposta anche a svolgere mansioni di livello inferiore.

Il dubbio della Cassazione nasce dalla circostanza che la sentenza Coleman della CGUE (Grande Sezione della CGUE del 17 luglio 2008, Causa C-303/06, Coleman,) ha esteso la protezione contro le discriminazioni dirette (nel caso della Coleman si trattava di una lavoratrice vittima di molestia) anche ai soggetti che forniscono assistenza essenziale al disabile, ma non ha espressamente affrontato il tema delle discriminazioni indirette. Si pone inoltre la questione se, in caso di risposta affermativa, gravi sul datore di lavoro l'obbligo di adottare "accomodamenti ragionevoli" anche in favore del caregiver, analogamente a quanto previsto dall'art. 5 della Direttiva per i lavoratori disabili. Occorre altresì definire la nozione di caregiver rilevante ai fini dell'applicazione della tutela antidiscriminatoria, chiarendo se essa comprenda qualunque soggetto che presti assistenza continuativa, gratuita e di lunga durata in ambito domestico a persona gravemente disabile e non autosufficiente, o se tale definizione debba essere interpretata in modo più ampio o più restrittivo.

La questione sollevata dalla Suprema Corte appare tuttavia oggi superata dall'introduzione del comma 2-bis del codice delle Pari Opportunità (non applicabile al caso esaminato dalla Cassazione), di cui alla l. 162/2021 che stabilisce che “costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione ..delle esigenze di cura personale o familiare, può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:

a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;

b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;

c) limitazione dell'accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».

Quindi, non contenendo la novella legislativa alcuna distinzione tra discriminazioni dirette o indirette e contemplando un ambito soggettivo di applicazione particolarmente ampia (chiunque abbia “esigenze di cura personale e familiare”) (Cfr. Guariso A. “CASS. SEZ.IV, 17.1.2024 N. 1788: la cassazione interpella la cgue sulla tutela del caregiver in caso di discriminazioni indirette e sulla ampiezza della nozione di caregiver” in Italian Equality Network https://www.italianequalitynetwork.it/cass-sez-iv-17-1-2024-n-1788-la-cassazione-interpella-la-cgue-sulla-tutela-del-caregiver-in-caso-di-discriminazioni-indirette-e-sulla-ampiezza-della-nozione-di-caregiver/ ).

In senso diverso Cass. civile, sez. lav., ordinanza 20/5/2024 n. 13934, sempre con riguardo ad un caso anteriore all'introduzione del comma 2-bis del codice delle Pari Opportunità, ha affermato, senza necessità di interpellare la Corte di Giustizia, anzi richiamando il precedente di CGUE del 17 luglio 2008, Causa C-303/06, Coleman, che in tema di licenziamento discriminatorio per disabilità, il divieto di discriminazione diretta non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili, ma si estende anche ai lavoratori che prestano assistenza a familiari disabili. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio ad altro collegio di giudici di merito la sentenza della Corte d'appello per non aver tenuto conto, nella valutazione della fattispecie (che aveva condotto all'accoglimento parziale della domanda con applicazione, peraltro, della sola tutela indennitaria), della disciplina antidiscriminatoria di cui al D. Lgs. n. 216/2003. Ciò posto, secondo la Corte, la lavoratrice aveva in questo caso provato tale fattore di rischio di una discriminazione e che altri lavoratori coinvolti erano stati trasferiti ad altra sede e non licenziati, mentre lei, pur avendo indicato sedi di trasferimento vicine alla residenza del marito, non era stata accontentata; tutte circostanze di fatto acquisite che avrebbero meritato la verifica da parte della Corte d'appello di una possibile correlazione significativa tra il fattore di rischio indicato e il licenziamento e quindi  del carattere discriminatorio di quest'ultimo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena.

Ebbene, la sentenza in commento, forse implicitamente recependo tale evoluzione emersa in senso al Giudice di Legittimità, ha ritenuto applicabili gli accomodamenti ragionevoli, salvo poi farli coincidere con un obbligo di trasferimento stabilito dal datore di lavoro, alla lavoratrice caregiver.

Osservazioni

All'esito della disamina è possibile concludere che la sentenza in commento offre lo spunto per esaminare una disciplina, quella di cui alla Legge 104, oggetto di recente intervento legislativo, nel solco della disciplina di derivazione eurounitaria, tesa a massimizzare il principio di divieto di discriminazione diretta ed indiretta a causa del fattore di disabilità.  Ora, quanto agli accomodamenti ragionevoli che devono abbracciare il rapporto di lavoro del soggetto disabile, il dibattito con specifico riguardo alla disciplina dell'art. 33 l. 104 appare relativamente recente, tanto che alcuni aspetti della normativa hanno attirato i dubbi della Suprema Corte, rispetto all'estensione della tutela eurounitaria avverso le discriminazioni indirette anche per il lavoratore caregiver, così come appare lungi dall'essere sopito il dibattito in merito alla attuale necessità del carattere di gravita dell'handicap ai fini della fruizione della garanzia di inamovibilità del lavoratore disabile o del suo familiare caregiver.

L'apparente distonia delle sentenze citate, così come di quella in commento, appaiono gli ultimi cambi di programma rispetto ad una generale direzione interpretativa giurisprudenziale che è ormai da tempo tracciata nel senso della estensione dei diritti del disabile e dei familiari che lo assistono.

Riferimenti

A. Guariso La cassazione interpella la cgue sulla tutela del caregiver in caso di discriminazioni indirette e sulla ampiezza della nozione di caregiver” in Italian Equality Network https://www.italianequalitynetwork.it/cass-sez-iv-17-1-2024-n-1788-la-cassazione-interpella-la-cgue-sulla-tutela-del-caregiver-in-caso-di-discriminazioni-indirette-e-sulla-ampiezza-della-nozione-di-caregiver

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