L’impresa familiare e l’evoluzione dei diritti di partecipazione dei suoi componenti

16 Maggio 2025

Nel nostro ordinamento, la disciplina relativa al lavoro nell'impresa familiare assume una funzione residuale o suppletiva, quale tutela minima ed inderogabile pensata dal legislatore per quei rapporti che si svolgono negli ambiti familiari e che non sono riconducibili allo schema classico del lavoro subordinato o autonomo. Viene così favorita una solidale partecipazione di tutti i componenti la comunità familiare agli oneri e ai vantaggi economici connessi al loro comune lavoro, non solo con elisione di ogni presunzione di gratuità, ma anche configurando questa categoria di rapporti, nei loro aspetti interni, come associativi anziché di scambio.

Il quadro normativo

Nel nostro ordinamento l'addentellato normativo di riferimento, in tema di impresa familiare, è da ricondurre al disposto dell'art. 230-bis c.c., introdotto, nell'impianto codicistico, dall'art. 69 della legge di riforma del diritto di famiglia, ovvero la l. 19 maggio 1975, n. 151.

Prima dell'avvento della novella in menzione, invero, il lavoro prestato all'interno dell'impresa familiare da parte degli appartenenti alla famiglia veniva considerato come una prestazione a titolo gratuito, con conseguente presunzione superabile solo mediante la dimostrazione concreta, da parte del familiare istante, dell'esistenza di un vero e proprio rapporto di matrice lavorativa, cui derivava il riconoscimento del diritto alla retribuzione per le attività in tal senso rese.

Oggi, invece, la modifica della previsione codicistica conseguente alla riforma del '75, comporta che, salvo sia configurabile un diverso rapporto tra le parti (sia esso, ad esempio, di natura subordinata, piuttosto che di associazione in partecipazione e similari), il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, partecipando altresì agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Così facendo, l'ordinamento ha rimodulato la propria impostazione valutativa dell'istituto in menzione, al fine di impedire la diffusione di situazioni di sfruttamento in ambito familiare, mediante l'elisione della precedente presunzione iuris tantum di gratuità della prestazione, siccome ancorata al mero dato implicito di quell'affectionis vel benevolentiae causa, di matrice oramai anacronistica in tema di valenza generale.

L'evoluzione normativa e sociale che ha investito anche il comparto de quo, tuttavia, ha imposto l'esigenza di virare nel senso di un pieno riconoscimento, nei confronti del prestatore di lavoro in ambito familiare, di una serie di diritti economici, patrimoniali, gestori e partecipativi, da ricondurre, in ultima istanza, all'attuazione stessa del disposto dell'art. 35 Cost, sotto il profilo della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Analizzeremo, dunque, nel prosieguo del presente focus, se pur in via di sintesi connessa all'esigenze di impostazione redazionale, alcuni dei profili salienti della materia, così da offrire all'utenza una visione d'insieme dell'istituto e dei suoi risvolti operativi.

Natura dell'impresa familiare

Presupposto dell'esistenza dell'impresa familiare è la costituzione di un'impresa ad opera dell'imprenditore titolare e di almeno un suo familiare, in forza di un contratto scritto, ma anche in base ad una specifica manifestazione di volontà espressa o tacita (tranne che ai fini fiscali per la ripartizione degli utili, ex art. 5, comma 4, TUIR), non rilevando, al riguardo, alcun determinato vincolo dimensionale dell'impresa, che potrà essere, pertanto, non solo di piccola, ma anche di media o grande dimensione.

Sul punto, la Suprema Corte, con la recente ordinanza 31 gennaio 2025, n. 2355, ha, invero, ricordato come, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., la concreta collaborazione del partecipante all'impresa familiare comporta il sorgere di un istituto, la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da fatti volontari dai quali si possa desumere l'esistenza della fattispecie, ben potendo l'imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all'impresa, opponendosi all'esercizio di attività lavorativa nell'ambito di essa.

Ed al riguardo, un profilo di interesse qualificatorio attiene alla natura stessa dell'impresa familiare, fronteggiandosi, in merito, due impostazioni di diversa matrice.

La prima, riconduce tale tipologia di attività economica nel novero dell'impresa collettiva, anche se priva del carattere societario, con conseguente ricaduta della responsabilità per le attività svolte su tutti i contitolari dell'azienda, chiamati a garantire con il proprio patrimonio personale l'assolvimento delle obbligazioni sociali in tal veste contratte.

Ciò in quanto le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all'impresa stessa, da cui l'asserita sostenibilità di tale tesi a dire il vero minoritaria e da ritenere superata.

La seconda, invece, considera l'impresa familiare una impresa comunque individuale, agendo la regolamentazione di settore sulla mera sfera dei rapporti interni fra i soggetti che collaborano all'attività, con conseguente esclusione della responsabilità dei familiari per le obbligazioni contratte nell'esercizio dell'impresa e di cui sarà chiamato a rispondere il solo imprenditore individuale, mancando una vera e propria forma di contitolarità sull'azienda.

L'attività di gestione dell'impresa familiare, dunque, sarà tipicamente a nome proprio del titolare della stessa, per cui l'eventuale insolvenza comporterà la sua sola assoggettabilità a fallimento, non estensibile, dunque, anche agli altri familiari partecipanti all'impresa, il cui rischio, a differenza dell'imprenditore che risponde con tutto il proprio patrimonio, appare ancorato alle sole quote accantonate, in uno agli utili ed agli incrementi spettanti.

In tal senso, allora, l'impresa familiare si configurerebbe alla stregua di una impresa individuale caratterizzata da un insieme di soggetti che collaborano per la realizzazione di un fine comune, nei settori del commercio, dei servizi, dell'artigianato e dell'agricoltura, con esclusione per le sole attività coperte da riserva di legge, come le libere professioni ordinistiche.

La questione, si badi, non è affatto speciosa, rappresentando il portato di una circostanza alquanto singolare nell'ordinamento, ovvero quella per cui la costituzione dell'impresa familiare non ha fondamento contrattuale, trovando fonte nell'effettivo svolgimento di un'attività economica continuativa da parte di più famigliari.

In tal senso, infatti, l'incipit del disposto dell'art. 230-bis c.c., sembra condurre ad una sorta di automatismo residuale di tutela suppletiva, per cui il singolo partecipante acquista i diritti, e assume i doveri di cui al dettato codicistico per il sollo fatto di prestare la propria attività di lavoro in maniera stabile e continuativa nell'impresa, salvo che, come sancito dal legislatore, non sia configurabile un diverso rapporto di natura espressa tra le parti.

Vi è, poi, una terza considerazione per cui, indipendentemente dalla qualificazione individuale o societaria dell'impresa familiare, ove il rapporto tra i partecipanti si manifesti, agli occhi dei terzi, come rapporto societario, è ravvisabile la costituzione di una società di fatto, capace di sovrapporsi al rapporto disciplinato dagli artt. 230-bis e 230-ter c.c., e di determinare, così, l'assoggettabilità a fallimento dei componenti l'impresa, riguardo ai quali, possa sostenersi che rivestano la qualità di soci di fatto.

In ogni caso, è essenziale che l'attività prestata dal familiare accresca la produttività dell'impresa, non essendo, pertanto, qualificabile come attività lavorativa nell'impresa familiare, ad esempio, la mera gestione da parte dei familiari di una quota di partecipazione sociale.

La partecipazione all'impresa familiare

Affinché si configuri una impresa familiare occorre, in primo luogo, che i soggetti che vi partecipano abbiano un determinato rapporto con l'imprenditore, intendendosi per familiare, come sancito dal legislatore nel testo dell'art. 230-bis c.c., il coniuge dell'imprenditore, nonché i parenti entro il terzo grado (e, dunque, figli, fratelli, zii) e gli affini entro il secondo grado (suoceri e cognati).

Nondimeno, la novella introdotta dalla l. n. 76/2016 ha comportato la parificazione, alla posizione del coniuge, della persona unita civilmente, aderendo così ad una mutata realtà sociale di ampia diffusione, con la conseguenza per cui quando il convivente di fatto presti stabilmente la propria attività lavorativa all'interno dell'impresa di cui è titolare il convivente, avrà diritto alla partecipazione agli utili e ai beni acquistati con gli utili, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

A ciò va aggiunto il fatto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 148, depositata il 25 luglio 2024, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-bis, comma 3, c.c., nella parte in cui non include anche il «convivente di fatto» tra i familiari che collaborano nell'impresa familiare e non prevede come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto», con estensione, in via consequenziale, della declaratoria di illegittimità costituzionale anche all'art. 230-ter c.c., siccome disponente una tutela significativamente più ridotta per il convivente di fatto, rispetto a quella che consegue all'accoglimento della questione sollevata in riferimento all'art. 230-bis c.c.

Era stato, invero, sollevato il contrasto con riferimento al combinato disposto degli artt. 4,35 e 36 Cost., in termini di lesione dei diritti di libertà, dignità del lavoro e della persona, nonché di adeguatezza della retribuzione, in considerazione della privazione di tutela per le prestazioni lavorative rese dal convivente more uxorio, le quali, in mancanza di applicabilità delle tutele previste per l'impresa familiare, correrebbero il rischio di venire attratte presuntivamente nell'alveo della gratuità propria dello spirito solidaristico sotteso al rapporto affettivo, con conseguente diminutio della tutela del lavoro propria del nostro ordinamento. 

Il Giudice delle leggi, pertanto, ha sancito come ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della legge n. 76/2016), vadano dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all'imprenditore.

La protezione del lavoro del convivente di fatto deve, infatti, essere la stessa di quella del coniuge e non può essere inferiore a quella riconosciuta finanche all'affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell'impresa familiare.

Ed in tal senso, si discute in merito alla necessaria permanenza, o meno, del vincolo familiare per l'intera durata del rapporto di lavoro, specie con riferimento ai rapporti di coniugio e convivenza, con la conseguenza che lo scioglimento della convivenza o la cessazione degli effetti civili del matrimonio comporterebbero l'automatica estinzione della partecipazione all'impresa familiare, non potendo tale forma di adesione più essere fondata sull'affectio coniugalis venuto definitivamente a mancare.

Eppure, la mera appartenenza del soggetto alla categoria dei familiari non è condizione sufficiente e legittimante ex se alla partecipazione all'impresa familiare, essendo la persona non solo tenuta a prestare la propria attività in tale contesto in maniera continuativa, ma dovendo, altresì, il proprio apporto essere chiaramente collegato con lo svolgimento dell'attività di impresa, valendo a tal fine anche un apporto condiviso nella divisione dei compiti in vista dell'attuazione di un programma economico unitario globalmente considerato.

E, a tal fine, va rilevato come (fatta eccezione per il settore agricolo, che ha una disciplina propria) non può essere ritenuto utile il lavoro reso dal familiare in ambito puramente domestico, poiché mediante l'apporto di lavoro si deve costituire un vantaggio non solo per il familiare imprenditore ma anche per l'intero nucleo familiare, non assimilabile, dunque, al mero adempimento di doveri istituzionalmente connessi al matrimonio.

Va, inoltre, in secondo luogo evidenziato come il lavoro occasionale dei familiari non permette la costituzione dell'impresa familiare, che richiede espressamente la continuità dell'apporto lavorativo, considerandosi, pertanto, la prestazione resa dal familiare in maniera saltuaria come soggetta alla presunzione di gratuità, in quanto questa sì resa in virtù del rapporto affettivo e di solidarietà che lega i membri della famiglia.

E, a tal fine, un limite delineante la cornice della occasionalità lo si rileva in ambito previdenziale, avendo il legislatore fatto a tal fine riferimento ad un tetto quantitativo di 90 giorni o 720 ore di lavoro nel corso dell'anno solare, superato il quale la prestazione perde la natura di saltuarietà, così come, ai fini assicurativi, il limite è agganciato al numero massimo di 10 giornate lavorative nel corso dell'anno.

Va, tuttavia, evidenziato come, pur non dovendo l'attività lavorativa essere prestata in modo saltuario o occasionale, la stessa può anche non essere a tempo pieno e non è incompatibile con lo svolgimento di un'altra attività lavorativa.

Le prestazioni di lavoro dei partecipanti all'impresa familiare sono, comunque e di regola, soggette all'assicurazione obbligatoria nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, applicandosi, inoltre, ai collaboratori familiari, le tutele previste in materia di infortunio sul lavoro e malattia professionale, dovendo il titolare dell'impresa denunciare nominativamente agli istituti competenti le prestazioni svolte dai collaboratori e coadiuvanti delle imprese familiari.

Ai componenti dell'impresa familiare, inoltre, si applicano, ai sensi dell'art. 3, comma 12, d.lgs. 81/2008, si applicano le disposizioni sull'utilizzo di attrezzature di lavoro e DPI conformi e l'obbligo di esibire apposita tessera di riconoscimento in caso di prestazione effettuata in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto.

I diritti connessi alla partecipazione all’impresa familiare

La partecipazione all’impresa familiare comporta, invero, una serie di diritti di indubbia centralità ed importanza, considerando la complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori.

Le prestazioni lavorative rese all'interno dell'impresa familiare dai familiari collaboratori si presumono, infatti, gratuite per quanto attiene la retribuzione e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro contrattuale, siccome perfettamente controbilanciate dal diritto al mantenimento del partecipante secondo la condizione patrimoniale della famiglia e, dunque, in assenza di un rapporto di proporzionalità diretta rispetto all’apporto prestato in termini di quantità e qualità della prestazione resa.

Siamo, dunque, in presenza di una importante diversità sostanziale rispetto alla classica regolamentazione lavorativa, in quanto ciò che connota l’articolazione dell’impresa familiare è l’adeguamento del tenore di vita dei singoli alla condizione generale della famiglia più che all’apporto produttivo del singolo, in una sorta di mutualità di parificazione tendenziale che si giustifica con l’intreccio dei diversi interessi economici ed affettivi propri di tale tipologia di impresa.

Al contrario, il principio di proporzionalità rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato torna centrale con riferimento al diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa familiare, ai beni acquistati con essi, agli incrementi dell'azienda ed all'avviamento della stessa, come espressamente sancito dal legislatore nel corpo stesso del primo comma dell’art. 230-bis c.c.

Con particolare riferimento agli utili, trattasi di diritti per lo più condizionati ai risultati raggiunti dall'impresa familiare, con conseguente ripartizione del rischio di mancata monetizzazione in caso di omessa realizzazione, fermo restando come, in assenza di decisione di distribuzione periodica, varrà la regola del reimpiego in azienda.

Ed in tal senso si assiste alla dicotomia tra gestione ordinaria dell’impresa, che, di norma, spetta all’imprenditore titolare dell’impresa familiare, quale unico responsabile anche nei confronti dei terzi per le obbligazioni assunte e con garanzia estesa a tutto il proprio patrimonio, rispetto all’adozione delle decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa, che, invece, sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa, con possibilità di rappresentanza nel voto dei soggetti non pienamente capaci, da parte di chi ne eserciti la potestà sugli stessi.

Tali decisioni vengono prese, di norma, senza formalità particolari e dietro la presentazione del rendiconto dell’imprenditore sull’andamento annuale dell’impresa e delle attività compiute, nella consapevolezza, tuttavia, della chiara rilevanza meramente interna delle disposizioni che regolano la vita dell’impresa familiare.

Ciò comporta che, qualora il titolare dell’impresa agisca in relazione a tali ambiti senza la decisione della maggioranza dei partecipanti ovvero non rispettandone le volontà, lo stesso potrà essere chiamato a risponderne ai fini risarcitori interni ad opera dei membri dell’impresa familiare, senza, tuttavia, alcuna deficienza della decisione o condotta assunta in violazione dei meccanismi procedurali di decisione maggioritaria.

Cessazione dell'impresa familiare

E veniamo, quindi, alle cause di estinzione dell'impresa familiare, di norma ancorate alle ipotesi della morte o fallimento dell'imprenditore, alla impossibilità di prosecuzione dell'attività, al venir meno della pluralità dei famigliari ovvero alla deliberazione di cessazione adottata dalla maggioranza dei partecipanti.

Va, a tal fine, sin da subito evidenziato il dato per cui, trattandosi di impresa individuale con responsabilità personale ed illimitata dell'imprenditore titolare dell'impresa familiare, l'eventuale deliberazione della maggioranza dei partecipanti potrà essere diretta al mero scioglimento della natura familiare della stessa, ma non anche alla conclusione dell'attività d'impresa del soggetto titolare, il quale resterà libero di proseguire la propria iniziativa economico imprenditoriale, mantenendone l'individualità con abdicazione ai soli diritti e doveri sanciti dall'art. 230-bis c.c. e dalle regolamentazione di settore.

Chiaramente, in caso di estinzione dell'impresa familiare ciascun partecipante avrà diritto ad ottenere la liquidazione della propria quota in denaro, con pagamento che potrà avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.

Va, invero, ricordato come il diritto di partecipazione dell'appartenente all'impresa familiare sia, di norma, intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari partecipanti all'impresa e con il consenso di tutti.

Chiara, infatti, appare la ratio sottesa a tale specifica scelta legislativa, in quanto diretta ad evitare l'ingresso di soggetti estranei all'interno del contesto dell'impresa familiare, così da preservarne la peculiarità con correlata comminazione di nullità o di inefficacia per ogni ipotesi contraria, così come la previsione del diritto di prelazione in capo ai partecipanti all'impresa, in caso di divisione ereditarie o trasferimento d'azienda.

Come abbiamo visto in precedenza, inoltre, il diritto di partecipazione all'impresa familiare viene meno in ragione della perdita del legame familiare, come in ipotesi di divorzio tra coniugi o di cessazione della convivenza di fatto, in ossequio alla previsione dell'art. 230- ter c.c., residuando, in ogni caso, la possibilità di manifestare in qualsiasi momento la volontà di abbandono dell'impresa familiare da parte di ciascun partecipante, con richiesta di liquidazione della propria quota, nei modi e termini di legge.

Non sussistendo, inoltre, una specifica previsione regolatrice in tal senso, si ritiene che l'esclusione dall'impresa familiare di un partecipante possa essere deliberata dalla maggioranza dei partecipanti in ipotesi di giusta causa, come atto motivato di straordinaria amministrazione, fermo restando il diritto al risarcimento del danno in caso di illegittimità della decisione, in uno alla doverosa liquidazione della quota di spettanza agli utili dell'impresa.

In conclusione

Quali sintetiche considerazioni di chiusura del presente elaborato, possiamo allora evidenziare come, nel predisporre, con funzione residuale o suppletiva, una tutela minima ed inderogabile ai lavoratori nelle imprese familiari, il legislatore nostrano abbia delineato, con le disposizioni in tema di impresa familiare un istituito volto a favorire una solidale partecipazione di tutti i componenti la comunità familiare agli oneri e ai vantaggi economici connessi al loro comune lavoro, non solo respingendo ogni presunzione di gratuità, ma configurando questa categoria di rapporti, nei loro aspetti interni, come associativi anziché di scambio.

Ecco che, dunque, grazie alla novella di cui all’art. 230-bis c.c., il familiare che presta la propria attività di lavoro, in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare, a favore di un imprenditore a lui legato (da vincolo di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo), gode di una complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori.

E così, nell’ambito dell’impresa familiare, caratterizzata dalla mancanza di un vincolo societario e di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del titolare dell’impresa, vanno distinti un aspetto interno (rappresentato dal rapporto associativo del gruppo familiare per la regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun partecipante) ed un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell’impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente (e solidalmente) con i propri beni personali, diversi dai beni comuni ed indivisi dell’intero gruppo, anch’essi oggetto di garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c..

La disciplina relativa al lavoro nell'impresa familiare, diretta ad offrire una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono negli ambiti familiari e che non sono riconducibili allo schema classico del rapporto di lavoro subordinato o autonomo, si applica, dunque, esclusivamente quando non è configurabile un diverso rapporto di lavoro, avendo la stessa natura residuale o suppletiva rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile.

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