La stabilità della convivenza è necessaria per il reato di maltrattamenti in famiglia? E la presenza del minore è essenziale per l'aggravante?
14 Maggio 2025
Massima Nell'ambito delle relazioni interpersonali non qualificate, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p., sono assimilabili ai concetti di "famiglia" e di "convivenza" i rapporti connotati da un radicato e stabile legame affettivo interpersonale e da una duratura comunanza d'affetti che implichino reciproche aspettative di affidamento ed assistenza reciproca e siano al contempo fondati su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continua, intesa come centro della vita familiare ed affettiva, che tuttavia non si estende alla continuativa compresenza sotto lo stesso tetto. Ai fini della configurabilità dell'aggravante ad effetto speciale exart. 572, comma 2 c.p., la locuzione "in presenza del minore" conferisce rilevanza alla percepibilità dell'atto, la quale non si realizza soltanto attraverso il senso della vista, ma coinvolge tutte le componenti sensoriali, mediante le quali un individuo è in grado di registrare e interiorizzare gli stimoli esterni che portano all'assimilazione dell'evento di cui è stato partecipe. Il caso Con Sentenza del 13 dicembre 2023 la Corte di Appello di Roma confermava la decisione del giudice di primo grado, il quale aveva condannato l'imputato per il delitto di maltrattamenti, di lesioni personali e violenza sessuale nei confronti della convivente more uxorio. Avverso tale Sentenza l'imputato proponeva ricorso per Cassazione adducendo plurimi motivi. Esaminando esclusivamente quelli che in questa sede interessano, con il primo motivo il ricorrente deduceva vizio di violazione di legge riferito all'art. 572 c.p. e vizio di motivazione in quanto, riteneva che per il perfezionamento del delitto fosse necessario un rapporto di tipo familiare, di convivenza o di autorità o di affidamento di natura abituale e che non è sufficiente, come invece sostenuto dalla Corte di appello, una relazione che presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà. Sulla scorta delle deduzioni proposte rilevava come dall'istruttoria fosse emerso che la relazione sentimentale con la compagna si era interrotta più volte con conseguenti sospensioni della convivenza per lunghi periodi a causa del rapporto difficile e conflittuale nel corso del quale a volte vi erano anche comportamenti violenti posti in essere da entrambi; tali situazioni, quindi, a dire del ricorrente, escludevano sia che si trattasse di una convivenza stabile, sia che la persona offesa si trovasse in una condizione di soggezione e sia che i comportamenti costituenti reato venissero posti in essere abitualmente. Il ricorrente, inoltre, lamentava il travisamento della prova in quanto non erano state esaminate né la copiosa documentazione depositata, dalla quale si evinceva che si trattasse di una relazione in cui nessuna delle parti era succube dell'altra poiché entrambi erano gelosi, litigiosi, dediti all'alcool e alle droghe, né le dichiarazioni della persona offesa che risultavano essere incompatibili con i messaggi con cui la donna proclamava il suo amore nei confronti del compagno o in cui ammetteva, a seguito dei loro litigi, di averlo "trattato malissimo". In merito all'aggravante prevista dal comma 2 dell'art. 572 c.p., ovvero quando il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, rilevava che essa era stata erroneamente contestata in quanto nessuno dei figli aveva mai assistito agli episodi oggetto del capo di imputazione. Sul punto esaminava, in particolare, un episodio nel corso del quale erano intervenute in casa le forze dell'ordine; in quel caso, però, il minore dormiva in un'altra stanza, motivo per il quale non poteva aver assistito alle scene litigiose, ma, al più, poteva aver solo sentito la persona offesa urlare. Con il terzo motivo lamentava vizio di violazione di legge riferito agli artt. 609-bis c.p. e art. 192 c.p.p. e vizio di motivazione, sostenendo che la condizione di vessazione della compagna relativa al reato di maltrattamenti, fosse stata indebitamente estesa ai rapporti sessuali in considerazione esclusivamente di elementi accusatori deboli (dichiarazioni della persona offesa e certificato medico) senza prendere in considerazione gli elementi addotti dalla difesa, ovvero la mancanza di lucidità in cui versava l'imputato a causa dell'assunzione, insieme alla compagna, di alcool e droghe e l'immediata cessazione della condotta nel momento in cui la donna aveva manifestato il suo dissenso. La Suprema Corte con la Sentenza di cui si tratta, ha rigettato il ricorso. La questione Le questioni presa in esame sono le seguenti: le relazioni interpersonali non qualificate sono assimilabili ai concetti di "famiglia" e di "convivenza”? ai fini della configurazione dell'aggravante ad effetto speciale prevista dall'art. 572 comma 2 c.p. come deve essere interpretata la locuzione fatto commesso “in presenza” del minore? Le soluzioni giuridiche La sentenza in commento ha dichiarato infondato il ricorso offrendo la seguente interpretazione. La Suprema Corte ha ritenuto che i giudici distrettuali abbiano correttamente ricondotto il legame tra la persona offesa e l'imputato ad una relazione affettiva e solidaristica, caratterizzata da una progettualità di vita comune, partendo dal presupposto che gli episodi vessatori fossero avvenuti durante la convivenza o comunque durante la loro assidua frequentazione. Infatti, la burrascosità del rapporto sentimentale non esclude la continuità della convivenza quando il progetto primigenio perseguito da persone legate fra loro da un legame affettivo sia comunque quello di una condivisione di vita, improntata ad una reciproca assistenza e solidarietà; tale presupposto è stato dedotto correttamente dai giudici di merito, in quanto la coppia, nonostante avesse attraversato periodi durante i quali interrompeva la relazione affettiva, trascorso poco tempo riprendeva non solo la relazione affettiva ma anche la coabitazione, emblematica di una mantenuta consuetudine di vita comune e del patto di mutua cooperazione. La sentenza in commento richiama quella giurisprudenza che in più occasioni ha ritenuto che “nell'ambito delle relazioni interpersonali non qualificate, ritiene assimilabile, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 572 c.p., ai concetti di "famiglia" e di "convivenza" i rapporti connotati da un radicato e stabile legame affettivo interpersonale e da una duratura comunanza d'affetti che implichino reciproche aspettative di affidamento ed assistenza reciproca e siano al contempo fondati su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continua, intesa come centro della vita familiare ed affettiva, che tuttavia non si estende alla continuativa compresenza sotto lo stesso tetto (cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 9663/2022 e Cass. pen., n. 39532/2021)”. In merito alle doglianze sulla mancata considerazione della sussistenza della reciprocità delle condotte violente e vessatorie, la Corte rilevava che, in realtà, dalle risultanze istruttorie era emerso che fosse esclusivamente l'imputato a porre in essere le condotte maltrattanti (controllo ininterrotto della donna, accesso costante al suo profilo dei social network e al suo cellulare che quando conteneva messaggi dubbi o a lui non graditi veniva rotto in mille pezzi, continuative ingiurie, minacce ed espressioni denigratorie, brutali aggressioni fisiche). In considerazione di tali comportamenti, era emerso che non vi era una condizione paritetica all'interno della relazione e che, anzi, la donna era succube del comportamento prevaricatorio del compagno, situazione che la rendeva affettivamente dipendente e la spingeva a porre in essere comportamenti dai quali si evinceva che ella nutriva ad ogni episodio la speranza che l'uomo si ravvedesse e cambiasse atteggiamento (messaggi amorevoli, querele sporte e successivamente rimesse, momentanee interruzioni della coabitazione). Per di più, sul punto la difesa dell'imputato non aveva in nessuna sede fornito elementi che provassero il contrario. In ogni caso, anche qualora si fosse ritenuto che le condotte maltrattanti fossero state reciproche, la Suprema Corte ribadiva che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri, poiché l'art. 572 c.p. non prevedendo spazi di impunità in relazione ad improprie forme di autotutela, non consente alcuna "compensazione" fra condotte penalmente rilevanti poste in essere vicendevolmente (Cass. pen., sez. I, n. 19769/2024). Inoltre, in considerazione dell'elevato numero di episodi vessatori verificatisi nell'arco di tre anni, differentemente da quanto affermato dal ricorrente, non poteva certamente essere messa in discussione l'abitualità della condotta; in merito, si specificava che è proprio dalla condizione di abitualità che deriva lo stato di sofferenza fisica o morale cui il soggetto passivo, in quanto legato all'aggressore dal vincolo familiare o para familiare implicante legami di natura affettiva, economica e solidale ben difficili da recidere, è naturalmente esposto. In merito alle contestazioni articolate dal ricorrente sulla configurabilità dell'aggravante prevista dal comma 2 dell'art. 572 c.p., la Corte ha spiegato che “ciò cui il legislatore ha inteso, con la locuzione "in presenza del minore", conferire rilevanza è la percepibilità dell'atto, la quale non si realizza soltanto attraverso il senso della vista, ma coinvolge tutte le componenti sensoriali, mediante le quali un individuo è in grado di registrare e interiorizzare gli stimoli esterni che portano all'assimilazione dell'evento di cui è stato partecipe. La disposizione in esame, applicabile quando "il fatto è commesso in presenza o in danno di un minore" ha infatti inteso, nell'unificare due condizioni fra loro del tutto diverse, nell'un caso trattandosi di uno spettatore e nell'altro della vittima di una condotta lesiva della propria integrità psico-fisica, alzando la soglia di protezione di soggetti il cui sviluppo psico fisico sia in piena formazione, parificare, con l'inasprimento della sanzione applicabile, ogni situazione di coinvolgimento del minore all'interno di una condotta delittuosa riconducibile ai maltrattamenti in ragione delle possibili ricadute sul suo equilibrio, a tutela della corretta formazione della personalità dell'individuo quando la stessa sia nel percorso di crescita ancora in fieri”. Tale orientamento era già stato espresso dalla Suprema Corte con riferimento alla circostanza aggravante comune prevista dall'art. 61 n. 11 quinquies c.p., ritenuta configurabile “tutte le volte che il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato, anche quando la sua presenza non sia visibile all'autore di questo, sempre che l'agente, tuttavia, ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l'ordinaria diligenza (Cass. pen., sez. I, n. 12328/2017). In merito al terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente contestava il concorso tra il reato di maltrattamenti e quello di violenza sessuale, la Corte rilevava, in primo luogo, che nel caso in esame il delitto di violenza sessuale viene circoscritto fin da subito ad un solo episodio e poi che le vessazioni poste in essere erano risultate prive di alcun nesso di strumentalità rispetto alla costrizione sessuale che risultava essere una condotta a sé stante che si inseriva esclusivamente temporalmente all'interno del comportamento maltrattante posto in essere dall'imputato. Basandosi su ciò, quindi, la Corte riteneva sussistente il concorso tra i due reati alla luce del pacifico orientamento secondo il quale “il delitto di maltrattamenti è assorbito da quello di violenza sessuale soltanto quando vi è piena coincidenza tra le condotte, nel senso che gli atti lesivi siano finalizzati esclusivamente alla realizzazione della violenza sessuale e siano strumentali alla stessa, mentre vi è concorso tra i due reati in caso di autonomia anche parziale delle condotte, comprendenti anche atti ripetuti di percosse gratuite e ingiurie non circoscritte alla violenza o alla minaccia strumentale necessaria alla realizzazione della violenza (Cass. pen., sez. III, n. 35700/2020). Per tutti questi motivi, la Suprema Corte di cassazione, ha ritenuto di rigettare il ricorso presentato dall'imputato, di condannarlo al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel giudizio dalla parte civile. Osservazioni Con detta sentenza, la Suprema Corte ha preso in esame diversi aspetti collegati e connessi al reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.. In primo luogo, in merito ai requisiti che devono possedere le relazioni interpersonali per essere assimilate ai concetti di “famiglia” o “convivenza”, occorre rilevare che la giurisprudenza esprime anche un orientamento minoritario, secondo il quale è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un'attesa di reciproca solidarietà (Cass. pen. sez. VI, n. 17888/2021), a fronte di una giurisprudenza prevalente secondo la quale, invece, ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, il concetto di "convivenza", in ossequio al divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, va inteso nell'accezione più ristretta, presupponente una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo (Cass. pen. sez. VI, n. 38336/2022), che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata su una stabile condivisione dell'abitazione, anche se la stessa giurisprudenza precisa che la condivisione dell'abitazione non deve essere necessariamente continua (Cass. pen. sez. VI, n. 9663/2022; Cass. pen., sez. VI, n. 31390/2023). Pur nell'ambito di questo rigoroso orientamento, si manifesta una differenza interpretativa nel rilievo da attribuire alla cessazione della convivenza nel caso di unioni di fatto: secondo una prima interpretazione non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l'ipotesi aggravata del reato di atti persecutori, in presenza di condotte illecite poste in essere da parte di uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell'altro, quando sia cessata la convivenza (Cass. pen., sez. VI, n. 39532/2021; Cass. pen., sez. VI, n. 15883/2022; Cass. pen., sez. VI, n. 31390/2023); mentre, secondo altra interpretazione, nei casi di cessazione della convivenza "more uxorio", è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia, e non invece quello di atti persecutori, quando tra i soggetti permanga un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell'esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter c.c. (Cass. pen., sez. VI, n. 37077/2020). La sentenza in esame sembra aderire in entrambi i casi alle soluzioni interpretative più restrittive, anche se il caso di specie non poneva, in fatto, particolari dubbi, poiché la Corte osserva che “non è certo la burrascosità del rapporto sentimentale ad escludere la continuità della convivenza quando il progetto primigenio perseguito da persone legate fra loro da un legame affettivo sia comunque quello di una condivisione di vita, improntata ad una reciproca assistenza e solidarietà, come del resto comprova il fatto che ai periodi di interruzione - periodi dei quali non è neppure indicata dalla difesa l'estensione - abbia sempre fatto seguito nell'arco del triennio tra il 2018 e il 2021 la ripresa della relazione affettiva e, con essa, della coabitazione, emblematica di una mantenuta consuetudine di vita comune e per l'effetto del patto di mutua cooperazione”. Pur nelle diverse interpretazioni, la giurisprudenza si mostra sempre attenta nell'ampliare lo spettro di tutela per soggetti tipicamente vulnerabili, poiché vittime di condotte prevaricatrici che maturano nell'ambito di rapporti affettivi dai quali hanno naturale difficoltà a sottrarsi, in consonanza con i numerosi passi avanti in tale direzione compiuti dalla legislazione più recente, a cominciare dal d.l. n. 11 del 2009, conv. dalla l. n. 38/2009, che ha introdotto il delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), e dalla stessa l. n. 172/2012, che ha esteso i soggetti passivi del delitto di maltrattamenti alla persona «comunque convivente». Nel corso degli anni la Corte si è trovata a dover stabilire se le relazioni affettive “non tradizionali” potessero rientrare nelle nozioni di "famiglia" o di "convivenza" e ha elaborato un concetto di “convivenza” che fosse adeguata alla mutata realtà sociale e alla stessa evoluzione legislativa. In merito all'ulteriore aspetto preso in esame dalla Suprema Corte con la Sentenza in commento, relativo all'aggravante prevista dal comma 2 dell'art. 572 c.p., è necessario interrogarsi sulla locuzione del significato “in presenza di un minore di anni diciotto” allo scopo di chiarire se sia richiesto che il fatto sia commesso davanti agli occhi del minore o sia sufficiente che lo stesso ne abbia comunque percezione e consapevolezza. Per fare ciò, si ritiene che sia utile partire dalla differenza tra reato di maltrattamenti aggravato dalla circostanza dell'essere stato commesso alla presenza di un minore ovvero dall'essere stato commesso in danno di minore. Originariamente, per ciò che concerne il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, il soggetto minore di età era tutelato dall'art. 61, n. 11 quinquies c.p. che prevedeva una circostanza aggravante nel caso in cui, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale e contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all'articolo 572, il fatto venisse commesso in presenza o in danno di un minore di anni diciotto. Tale circostanza ora è espressamente prevista nel comma 2 dell'art. 572 c.p. che è stato aggiunto dall'art. 9, comma 2 lett. b) della l. n. 69/2019, il quale stabilisce un aumento di pena fino alla metà se il fatto viene commesso in presenza o in danno di una persona minore. Ulteriore circostanza a tutela dei soggetti minorenni, è offerta dal comma 4, inserito dall'art. 9, comma 2 lett. c) della suddetta legge, il quale stabilisce che il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti si considera persona offesa dal reato. Il delitto aggravato si consuma non soltanto attraverso azioni e/o omissioni ma è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all'interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l'abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi (Cass. pen., sez. VI, n. 18833/2018). Sul punto, è stato ulteriormente precisato che integrano il reato di maltrattamenti in danno del figlio minore anche le condotte persecutorie poste in essere da un genitore nei confronti dell'altro quando il figlio è costretto ad assistervi sistematicamente, trattandosi di condotta espressiva di una consapevole indifferenza verso gli elementari bisogni affettivi ed esistenziali del minore ed idonea a provocare sentimenti di sofferenza e frustrazione in quest'ultimo (Cass. pen., sez. V, 29 marzo 2018, n. 32368). Sulla stessa linea interpretativa si pone quella giurisprudenza la quale afferma che integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli, la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente, in quanto lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere del soggetto attivo, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere dall'entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi (Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 2010, n. 41142 - Nella fattispecie sono state valutate le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese le minacce di morte indirizzate alla madre). Il reato aggravato dalla circostanza dell'essere stato commesso alla presenza di un minore, (art. 572, comma 2, c.p.), invece, si differenzia dal reato di maltrattamenti in famiglia in danno di minore, vittima di violenza cd. assistita, perché, ai soli fini della configurabilità dell'aggravante, non è necessario che gli atti di sopraffazione posti in essere alla presenza del minore rivestano il carattere dell'abitualità essendo sufficiente che egli assista ad uno dei fatti che si inseriscono nella condotta costituente reato (Cass. pen., sez. VI, 09 febbraio 2021, n. 8323 e Cass. pen., 25 ottobre 2018, n. 2003). Ma vi è di più. La suddetta aggravante è configurabile tutte le volte che il minore degli anni diciotto percepisca la commissione del reato, anche quando la sua presenza non sia visibile all'autore di questo, sempre che l'agente, tuttavia, ne abbia la consapevolezza ovvero avrebbe dovuto averla usando l'ordinaria diligenza (Cass. pen., sez. I, n. 12328/2017 e Cass. pen., n. 44965/2018); la prescritta "presenza" del minore alla commissione del fatto presuppone la sola percezione visiva o auditiva di quanto accaduto da parte del predetto, indipendentemente dalla sua età, dal grado di maturazione psico-fisica raggiunto o dalla capacità di registrare e interiorizzare gli eventi delittuosi (Cass. pen., sez. III, n. 46236/2024). Riferimenti Codice penale commentato, Giuffrè 2024, a cura di Sergio Beltrani |