Licenziamento nullo se le prove a carico del lavoratore sono illecitamente acquisite e senza un fondato sospetto
09 Maggio 2025
Massima In una causa di licenziamento per presunta sottrazione di beni aziendali, non sono utilizzabili le riprese audiovisive realizzate in mancanza di una corretta informazione da parte dell’azienda. In assenza di specifici presupposti oggettivi che giustifichino il monitoraggio e il ricorso a controlli tecnologici difensivi, il materiale acquisito risulta inutilizzabile e il datore di lavoro non può invocarlo a sostegno del recesso, dovendo altresì dimostrare la legittimità del licenziamento secondo gli ordinari oneri probatori previsti dalla legge Il caso Una dipendente responsabile di uno showroom di una nota azienda di moda è stata licenziata con l'accusa di aver sottratto prodotti aziendali, sulla base di riprese audiovisive effettuate senza il rispetto delle garanzie previste dalla normativa. Il Tribunale ha emesso un'ordinanza con cui dichiarava illegittimo il licenziamento della responsabile dello showroom. Conseguentemente l'azienda era stata condannata alla reintegra della lavoratrice e al risarcimento del danno. Così il brand ha proposto opposizione contro l'ordinanza che era stata rigettata e successivamente aveva presentato reclamo avverso la decisione di rigetto ma la Corte d'Appello di Milano ha respinto anche il reclamo, confermando così l'illegittimità del licenziamento. Quest'ultima così come il primo Giudice, hanno ritenuto la mancanza di prove legittimamente acquisite in ordine alla responsabilità della dipendente per i fatti attinenti alla sottrazione di alcuni prodotti, poiché le indagini e le registrazioni audiovisive, realizzate internamente da un collega “investigatore”, erano state condotte senza il rispetto della vigente normativa in materia. Il famoso brand ha proposto ricorso in cassazione, lamentando, tra i motivi, la legittimità dei controlli telematici effettuati, affermando che non vi era il presupposto del fondato sospetto, per poter invocare l'inapplicabilità dell'art. 4, l. n. 300/1970 e poter la società sottrarsi, quindi, agli adempimenti richiesti da tale disposto. Ad avviso dell'azienda, nel caso di specie, sussisteva un “puro convincimento soggettivo" del collega che, rimasto incuriosito dal comportamento della lavoratrice, aveva condotto ulteriori verifiche, il che non consentiva di ricondurre i controlli tramite telecamere ai c.d. controlli difensivi. La questione Possono essere utilizzate le immagini raccolte tramite strumenti di controllo a distanza senza una preventiva e adeguata informativa ai lavoratori? Quali sono i presupposti oggettivi che giustificano il monitoraggio e il ricorso a controlli tecnologici difensivi? Le soluzioni giuridiche La Cassazione, con Ordinanza del 24 aprile 2025 n. 1082 ha confermato l'illegittimità del licenziamento della dipendente, ribadendo che le immagini raccolte tramite strumenti di controllo a distanza non possono essere utilizzate se manca una preventiva e adeguata informativa ai lavoratori. In assenza di specifici presupposti oggettivi che giustifichino il monitoraggio e il ricorso a controlli tecnologici difensivi, il materiale così acquisito risulta inutilizzabile e il datore di lavoro non può invocarlo a sostegno del recesso, dovendo altresì dimostrare la legittimità del licenziamento secondo gli ordinari oneri probatori previsti dalla legge. I giudici di prime e seconde cure, chiamati a giudicare il caso in oggetto, hanno ritenuto che le prove addotte dal datore di lavoro non fossero state legittimamente acquisite. In sintesi, i giudici hanno stabilito l'illegittimità delle prove per diverse ragioni principali: la prima è che un'indagine interna condotta da un collega e le immagini registrate dagli impianti audiovisivi sono state realizzate senza il rispetto della normativa vigente; inoltre, la testimonianza del collega investigatore è stata considerata assolutamente inattendibile. Da ultimo le indagini forensi sugli strumenti aziendali della lavoratrice, disposte dopo il licenziamento, sono state giudicate irrilevanti. Nello specifico la Corte d'Appello, confermando l'impostazione del giudice di primo grado, ha analizzato in dettaglio i motivi dell'inutilizzabilità delle prove: per quanto riguarda i controlli tramite telecamere, ricondotti dal datore di lavoro ai c.d. "controlli difensivi", la Corte ha ritenuto non provato il "fondato sospetto" che avrebbe giustificato l'attivazione di tali controlli in deroga all'applicazione diretta dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Si è ribadito che spetta al datore di lavoro l'onere di allegare e provare le specifiche circostanze che hanno indotto all'attivazione del controllo tecnologico "ex post". Con riferimento alle riprese degli impianti audiovisivi, correttamente ricondotti nell'ambito dei controlli difensivi del patrimonio aziendale, perché rivolti indistintamente a tutti il personale, i giudici di appello ne avevano ritenuto, condividendo, anche sul punto, l'impostazione del Tribunale, la carenza di prova circa l'adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, concludendo per l'inutilizzabilità delle immagini provenienti dagli impianti, nonché del materiale scaturente da tali riprese. Il generico richiamo a documenti come l'autorizzazione o la policy aziendale è stato giudicato insufficiente. Soprattutto, difettava la prova che tale informativa fosse stata effettivamente consegnata o portata a conoscenza della lavoratrice. Le doglianze della dipendente che contestano l'accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine all'interpretazione offerta delle risultanze probatorie acquisite ed alla corrispondente mancata acquisizione di talune prove richieste si sostanziano, in particolare, su una erronea interpretazione delle prove offerte, delle quali, tuttavia, suggerisce un diverso apprezzamento, contrapponendolo alla diversa motivazione della Corte, senza apportare elementi che possano indurre a reputare la prima implausibile. Con particolare riferimento alla lamentata violazione dell'art. 2697 c.c., la Cassazione richiama il consolidato orientamento secondo cui tale violazione è configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il Giudice abbia attribuito l'onere della prova a una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie. La violazione e falsa applicazione della norma in parola non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal Giudice di merito, a meno che si alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali, o valutate secondo il prudente apprezzamento. Nel caso analizzato tale prova è stata ritenuta dal Giudice di secondo grado non adeguatamente offerta dalla parte datoriale e la valutazione relativa risulta sottratta al sindacato della Corte di cassazione. Quanto all'attività di indagine realizzata direttamente dal collega della lavoratrice, il Collegio ha giudicato condivisibile le conclusioni della Corte di merito che aveva ritenuto profilarsi, in linea con il giudice di primo grado, la chiara violazione della disciplina a tutela della riservatezza e della dignità della lavoratrice, attraverso una illecita perquisizione su un bene personale, ovvero la borsa, apparentemente appartenente alla collega. La Corte d'appello ha correttamente ritenuto non tempestiva l'istanza di produzione del comunicato con cui si rendeva nota l'iniziativa aziendale di installare presso tutte le sedi impianti di videosorveglianza, attesa non solo la tardività del deposito, quanto, soprattutto, il difetto della prova relativo alla circostanza che l'informativa in oggetto fosse stata consegnata e/o portata a conoscenza della lavoratrice. Le dichiarazioni del teste (addetto alla sorveglianza), sono considerate non dirimenti e inattendibili in considerazione delle numerose incongruenze, ed a corroborare le stesse non è stato ritenuto sufficiente quanto dichiarato dagli altri testimoni, alla luce dell'assenza del medesimo rispetto al momento della verificazione dei fatti ed al carattere meramente de relato di quanto riferito. Sulla base di tali presupposti i giudici di legittimità hanno ritenuto non censurabile la sentenza impugnata, fondata sul mancato assolvimento dell'onere della prova da parte della datrice di lavoro circa la dimostrazione degli addebiti idonei ad integrare la giusta causa di recesso. Osservazioni I controlli tecnologici "difensivi in senso stretto" sono volti a indagare specifici comportamenti illeciti, commessi dai dipendenti e che danneggiano il patrimonio aziendale, quando sussistono dei fondati indizi di colpa. Essi si distinguono dai controlli ordinari, che riguardano l'attività lavorativa del dipendente. I controlli difensivi non sono volti a monitorare l'attività lavorativa e devono essere avviati in presenza di un fondato sospetto di illecito, basato su indizi concreti e non su un semplice convincimento soggettivo. Per essere legittimi tali controlli devono essere mirati e attuati ex post, cioè dopo che si è avuto il fondato sospetto e il datore di lavoro deve garantire il rispetto della privacy dei lavoratori e bilanciare le esigenze di controllo con le tutele del dipendente. In sintesi, i controlli difensivi in senso stretto sono uno strumento di protezione del patrimonio aziendale, ma la loro legittimità è strettamente subordinata al rispetto di alcuni principi, tra cui il fondato sospetto, la finalità mirata e il rispetto della privacy dei dipendenti. Fra le più recenti pronunce della Corte di cassazione, sul tema della legittimità dei controlli tecnologici cd. difensivi in senso stretto, vi rientra la Sentenza Cass. n. 18168/2023 che presuppone il fondato sospetto del datore di lavoro circa i comportamenti illeciti di uno o più lavoratori e l'Ordinanza della Corte di cassazione del 13 gennaio 2025 n. 807 che preclude al datore di lavoro di ricercare nel passato lavorativo del lavoratore la conferma del fondato sospetto. Lo Statuto dei Lavoratori legittima, infatti, solo i controlli tecnologici ex post, ossia i comportamenti posti in essere dopo l'insorgenza del fondato sospetto. Secondo gli orientamenti della Corte di cassazione “sono consentiti, anche dopo la modifica dell'art. 4 dello St. Lav. ad opera dell'art. 23,d.lgs. n. 151/2015, i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto”. In sostanza può parlarsi di controllo ex post solo se, a seguito del fondato sospetto circa la commissione di illeciti da parte del lavoratore, il datore provvede, da quel momento, a raccogliere informazioni e solo se dette informazioni “successive” potranno fondare l'eventuale esercizio del potere disciplinare. È, invece, precluso al datore di lavoro ricercare nel passato lavorativo elementi di conferma del fondato sospetto ed utilizzarli per fini disciplinari. Ciò consentirebbe di considerare legittimo l'uso di dati probatori raccolti prima (ed archiviati nel sistema informatico), a prescindere dal sospetto di condotte illecite da parte del dipendente. Ad ogni modo spetta al datore di lavoro allegare e provare le specifiche circostanze che l'hanno indotto ad attivare i controlli tecnologici ex post, sia perché solo il predetto sospetto consente l'azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell'art. 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex art. 5 l. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento. |