Licenziamento privo di motivazione (o con motivazione generica) nell’area della “tutela reale”

08 Maggio 2025

La sentenza in esame affronta principalmente la questione relativa al licenziamento senza motivazione in aziende medio-grandi: deve essere applicata la tutela reintegratoria (di tipo "pieno" o "attenuato") oppure la tutela indennitaria "debole"? Inoltre, vi è la questione implicita, risolta dalla stessa sentenza, riguardante l'individuazione del momento limite oltre il quale la motivazione non può più essere fornita o precisata. Infine, si discute dell'effettiva operatività dell'articolo 18, sesto comma, del codice del lavoro nell'ambito pratico.

Massima

In tema di vizi della motivazione del licenziamento, nel regime delle imprese con più di 15 dipendenti, la mancata o generica individuazione del fatto non integra una mera violazione formale ma, poiché impedisce che si possa pervenire alla stessa identificazione del fatto, che, pertanto, dovrà essere dichiarato insussistente dal giudice, ha una ricaduta sostanziale che determina l'illegittimità originaria del licenziamento, con applicazione della reintegra attenuata di cui all'art. 18,4 comma, l. 300/1970.

Il caso

Un lavoratore assunto con formale contratto a progetto agisce per la declaratoria di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e conseguente reintegra nel posto di lavoro - ricorrendo i limiti dimensionali per l'operatività della tutela reale -, attesa la mancata motivazione della comunicazione del recesso adottata dal formale committente.

Il giudice di appello dichiara la inefficacia del licenziamento ed applica la tutela indennitaria “debole” di cui all'art. 18, sesto comma, st.lav. (ove è previsto, tra l'altro, che “Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni (…), si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”), sul rilievo che il lavoratore non abbia contestato il fatto integrante giustificato motivo oggettivo evidenziato dalla controparte nel corso del giudizio.   

La S.C. cassa la sentenza di appello e decide secondo il principio riportato in massima.

La questione

La questione principale esaminata dalla sentenza in esame è la seguente: nell’ipotesi di licenziamento privo di motivazione, nelle aziende medio-grandi, si applica la tutela reintegratoria (“piena” o “attenuata”) o la tutela indennitaria “debole”? Vi è poi la questione, per così dire, sottostante, risolta implicitamente dalla predetta sentenza, concernente l’individuazione del momento oltre il quale la motivazione non possa più intervenire (od essere precisata). Vi è, infine, il tema circa l’ambito di concreta operatività della sopra riportata previsione di cui all’art. 18, sesto comma, st.lav. 

Le soluzioni giuridiche

Sullo specifico tema non si rinviene un orientamento nitido della Cassazione, il cui unico approdo certo è che, nell'area della tutela obbligatoria con riguardo ai cd. “vecchi assunti”, al difetto di motivazione non possa conseguire la reintegra (cfr., tra le altre, Cass. 5 settembre 2016, n. 17589, ove è affermato che “Nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, comma 2, della l. n. 604/1996, come modificato dall'art. 1, comma 37, della l. n. 92/2012, trova applicazione l'art. 8 della medesima legge, in virtù di un'interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche l'art. 18 della l. n. 300 del 1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria”).

Il che trova, piuttosto, agevole spiegazione nella constatazione che l'“inefficacia” di cui all'art. 2, comma 2, della l. n. 604/1966, non può più essere intesa, con riferimento all'ipotesi della omessa motivazione del licenziamento, in senso tecnico, a seguito della modifica dell'art. 18 st.lav. ad opera della cd. “legge Fornero”, che non prevede (diversamente da quanto stabilito in caso di licenziamento orale), per detta ipotesi, la sanzione della reintegra.   

E poiché nell'area della tutela reale, come subito vedremo, la omessa (o generica) motivazione dà luogo alla “insussistenza del fatto”, la categoria di riferimento è quella della illegittimità, cui si correla, inevitabilmente, la tutela indennitaria nelle piccole imprese.

In relazione alle aziende medio-grandi si rinviene una unica pronunzia (Cass. 10 agosto 2016, n. 16896), passata, in verità, sotto silenzio, nella quale, pur con riferimento alla motivazione generica, si è optato per la tutela indennitaria “debole” di cui all'art. 18, sesto comma, st.lav.

In realtà, detta sentenza (cui è riferibile la seguente massima: “Nell'ipotesi in cui la contestazione disciplinare, finalizzata al licenziamento, non contenga una sufficiente e specifica descrizione della condotta tenuta dal lavoratore, è applicabile l'art. 18, comma 6, st.lav. - nella formulazione “ratione temporis” vigente, risultante dalla l. n. 92/2012 -, con riferimento alle ipotesi di vizi di forma attinenti alla motivazione del recesso, come ora disciplinata dall'art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966, con conseguente dichiarazione giudiziale di risoluzione del rapporto di lavoro e condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria compresa tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto”) si concentra sulla genericità della contestazione disciplinare, ma avendo dato la stessa rilievo a precisazioni esternate dal datore nel corso del giudizio, è lecito ipotizzare che la motivazione del licenziamento fosse stata una mera replica della predetta contestazione e, pertanto, del pari, generica.

La sentenza qui in esame sgombra il campo da ogni eventuale equivoco e, per la sua conformità alle linee di sistema, si presta, a superamento di precedenti anche implicitamente contrari, a fornire una risposta coerente ai non pochi interrogativi sorti sul tema.

Questi, in sintesi, i passaggi centrali della predetta sentenza: a) l'insussistenza (o la genericità) della motivazione del licenziamento ledono radicalmente il diritto del lavoratore a conoscere le ragioni dell'atto espulsivo in vista di una efficace programmazione delle iniziative da adottarsi (i.e.: impugnazione o meno del licenziamento) e di una adeguata difesa; b) la insussistenza (o la assoluta genericità) della predetta motivazione si risolvono in una mancata esternazione del fatto giustificativo, che, pertanto, è insussistente, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata ex art, 18, quarto comma, st.lav.; c) il licenziamento privo di giustificazione - perché quest'ultima difetti già “a prima vista” per non essere esternata o perché il datore non ne fornisca la prova - viola la norma imperativa di cui all'art. 1 della l. n. 604/1966 (ove è previsto che “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile o per giustificato motivo”), ma non è nullo, in quanto l'art. 1418 c.c. fa salva l'ipotesi in cui la legge disponga diversamente; e, nel caso specifico, l'art. 18 st.lav., quale norma di settore, prevede, appunto, che il licenziamento ingiustificato sia assoggettato ad un regime di tutela diverso da quello in tema di nullità.

Osservazioni

Una volta escluso che, nelle aziende medio-grandi, la tutela indennitaria “debole” possa essere applicata in presenza di omessa (o assoluta genericità) della motivazione del licenziamento, si tratta di circoscrivere l'area di operatività della tutela in questione, che la S.C. riserva, in linea generale, all'ipotesi “in cui risulti un difetto formale nella specificazione dei motivi della causale comunque addotta”.

Nello specifico, la casistica in cui ricorra la mera violazione formale annovera due fondamentali ipotesi.

Quella più semplice riguarda la violazione dell'art. 2, comma 2, della l. n. 604/1966(ove è previsto che “La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”), per essere stata la motivazione resa “successivamente” (anche di un sol giorno) alla comunicazione del licenziamento.

Qui la sanzione della tutela indennitaria debole si giustifica in ragione del mero “ritardo” della motivazione, che non compromette radicalmente la linea di difesa del lavoratore, ma la rende più complicata (soprattutto se si ammette che il termine dell'impugnativa decorra dall'intimazione del licenziamento e non - come invece è scritto nell'art. 6 della citata l. n. 604 del 1966 - dalla comunicazione della motivazione, ove successiva).

L'ipotesi meno lineare è quella in cui la contestazione sia generica ma non al punto da pregiudicare radicalmente l'esigenza di predisposizione di una adeguata linea di difesa ad opera del lavoratore, il quale potrebbe, pur non immediatamente (e con aggravio di proprie attività), percepire comunque il fatto.

Al riguardo, può portarsi l'esempio della motivazione in cui venga in rilievo un fatto individuato nelle sue componenti essenziali ma non esattamente arricchito nei suoi dettagli oppure non esattamente delimitato nelle circostanze di luogo o di tempo del suo verificarsi.

Si tratta, in buona sostanza, di una ipotesi, per così dire, di confine, nell'ambito della quale l'apprezzamento del giudice, circa la sussistenza, o meno, della specificità della motivazione, risulterà decisivo, benché, a volte, inevitabilmente opinabile, potendo essere sottile la distinzione tra motivazione assolutamente generica e motivazione non del tutto specifica.

Certo è che, nel secondo caso - sempreché il lavoratore abbia dedotto la genericità della motivazione ed il pregiudizio subito alle esigenze difensive -, il datore dovrebbe avere la possibilità di integrare la “illustrazione” del fatto posto a base del licenziamento anche nel corso del giudizio, con possibilità del lavoratore di poter, di conseguenza, precisare le proprie difese a seguito della costituzione del datore convenuto.

Ove, poi, l'esito, nel merito, fosse favorevole al lavoratore, per non esser stata provata la sussistenza del fatto, sarebbe applicabile la tutela reintegratoria “attenuata”, essendo assorbita quella, di minor portata, solamente indennitaria (ex art. 18, sesto comma, st.lav., ove è ragionevolmente previsto che “si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata (…), a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo”).

Qualora, per converso, il fatto giustificativo del licenziamento risultasse provato, spetterebbe al lavoratore la tutela indennitaria “debole”, quale “prezzo” pagato dal datore per non aver comunicato al lavoratore medesimo, unitamente al licenziamento, una specifica motivazione.

Si tratta ora di prendere posizione sul tema più delicato, che, come visto, attiene al termine ultimo entro il quale il datore può comunicare la motivazione del licenziamento previamente intimato.

La sentenza in esame offre una prima, implicita indicazione al riguardo, escludendo che, nel caso di specie, potesse rilevare il giustificato motivo oggettivo dedotto dal datore nel corso del giudizio (in caso contrario, infatti, la S.C. non avrebbe esaminato la vicenda sotto il profilo dell'assenza di motivazione del licenziamento).

Una volta ritenuto, plausibilmente, che la motivazione del licenziamento non possa essere contenuta nella memoria difensiva - anche in applicazione del principio della “immodificabilità” dei motivi - resta da capire sino a quando detta motivazione possa essere validamente comunicata nella fase antecedente al giudizio.

Potrebbe sul punto ipotizzarsi che il momento ultimo coincida con il giorno antecedente alla data del deposito del ricorso giudiziale ad opera del lavoratore, poiché è dal momento in questione che il lavoratore medesimo ha cristallizzato, irreversibilmente, il proprio impianto difensivo, nell'ambito di una iniziativa giudiziale che, peraltro, deve necessariamente proseguire ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impedimento della decadenza (ex art. 6 della l. n. 604/1966) attuato con l'impugnativa stragiudiziale (e, in ipotesi con la successiva comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato).

Ove, infatti, il ricorso non venisse notificato, l'effetto impeditivo non verrebbe conservato, ciò verificandosi in tutte le ipotesi di improcedibilità e di estinzione del giudizio.

La successiva motivazione del licenziamento intervenuta anche prima della costituzione del convenuto-datore, pertanto, obbligherebbe il lavoratore a tener comunque fermo l'originario ricorso - senza poterne presentare uno nuovo sulla base della motivazione successivamente esternata - e rivedere in giudizio tutto l'apparato deduttivo e probatorio (mediante l'articolazione di prove a discarico), in contrasto anche con le esigenze di celerità del processo.

È vero che tali esigenze possono essere in parte vanificate anche nel caso, già sopra ipotizzato, in cui il datore si limiti a “precisare”, in un secondo momento, la motivazione già contenuta nell'atto di licenziamento, ma il caso in questione si differenzia nettamente dall'ipotesi di mancata (o assolutamente generica) motivazione, poiché il lavoratore non si trova a dover rivalutare ex novo la compiuta scelta di contrastare l'atto di licenziamento, né a dover rivedere integralmente la linea difensiva già elaborata, dovendo solo apportare a quest'ultima alcuni correttivi.

Sicché non sembra esservi spazio, in tal caso, per un sicuro e marcato aggravamento del processo.     

È da puntualizzare che quanto sopra detto per i cd. “vecchi assunti” nelle aziende medio grandi vale anche per i “nuovi assunti”, avuto riguardo alla disciplina di cui al d.lgs. n. 23/2015 (cd. “Jobs Act”), ove, per quanto qui interessa, è previsto, all'art. 4, che “Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 (…), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto”.

È, infine, utile ricordare che, anche nel sistema delineato dal predetto d.lgs., il licenziamento, sia disciplinare che intimato per giustificato motivo oggettivo, privo di motivazione (o con motivazione affetta da assoluta genericità) integra licenziamento ingiustificato da cui deriva la tutela reintegratoria “attenuata”, essendo state nella sostanza parificate, da Corte cost. 16 luglio 2024, n. 128 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore), le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla accertata insussistenza del fatto.

In precedenza, invece, come è noto, il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, ritenuto ingiustificato, era attratto nell'orbita della tutela indennitaria, con la conseguenza che l'assenza di motivazione del licenziamento, non consentendo di stabilire la tipologia di licenziamento irrogato, avrebbe reso arduo individuare la sanzione – reintegratoria o indennitaria - connessa alla accertata illegittimità.       

Vi è poi il tema dell'individuazione del fatto che deve essere racchiuso nella motivazione.

Se nessun problema si pone quanto al licenziamento disciplinare, essendo chiaro che il fatto debba coincidere con l'addebito (ordinariamente già fatto oggetto di preventiva e necessaria contestazione), il dubbio sorge con riguardo al “repechage”, quale componente della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Come è noto, la giurisprudenza della Cassazione esclude che il detto “repechage” debba essere oggetto di motivazione (cfr., ad esempio, Cass. 7 marzo 2019, n. 6678, la quale ha escluso la necessità che il datore di lavoro, avendo chiaramente indicato come motivo di recesso la sopravvenuta parziale inidoneità fisica del lavoratore, fosse anche tenuto a esporre le ragioni che rendevano impossibile rinvenire in azienda posti disponibili, compatibili con l'idoneità fisica residua).

Tuttavia, l'opzione è discutibile, poiché la motivazione, come già accennato, ha la funzione di consentire al lavoratore anche di poter immediatamente valutare se intraprendere, o meno, azioni di contrasto all'iniziativa datoriale.

Se, pertanto, il “repechage” è da considerarsi quale vero e proprio elemento costitutivo (o requisito di legittimità) del licenziamento per gmo (cfr., tra le tante, Cass. 13 giugno 2016, n. 12101, ove è affermato che “incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del cd. "repechage", ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore”), il lavoratore dovrebbe ragionevolmente poter essere in grado, sin dalla ricezione del licenziamento stesso, di stabilire la convenienza a promuovere una causa anche in rapporto alle possibilità di successo legate all'inadempimento dell'obbligo di “repechage”.

Né la collocazione, ad opera della sopra menzionata sentenza del Giudice delle leggi, del “repechage” fuori dal “fatto”, sì da averne ritenuto sanzionata la mancanza con la tutela indennitaria “forte”, sembra mutare la sopra esposta prospettiva, poiché il predetto “repechage” è comunque parte integrante della “complessa” fattispecie del gmo.  

Un'ulteriore annotazione.

Il citato orientamento giurisprudenziale (di cui è espressione la menzionata Cass. 7 marzo 2019, n. 6678, seguita da Cass. 6 agosto 2020,n. 16795), per svuotare l'obbligo di motivazione del licenziamento quanto al “repechage”, ricorre al principio secondo cui “In tema di licenziamento individuale, la novellazione dell'art. 2, comma 2, della l. n. 604/1966 per opera dell'art. 1, comma 37, della l. n. 92/2012, si è limitata a rimuovere l'anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l'onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, a esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento”.

Il che, tuttavia, potrebbe equivalere a dire che la motivazione del licenziamento può non essere specifica, senza che ne consegua alcuna sanzione per il datore.

La conseguenza che ne deriva è un restringimento dell'area di applicabilità della tutela indennitaria di cui all'art. 18, sesto comma, st.lav., residuando solo il caso di motivazione “non contestuale”.

Il che non pare in linea con la testé riportata norma né con il contenuto della sentenza qui in esame, la quale riserva la tutela predetta ai casi “in cui risulti un difetto formale nella specificazione dei motivi della causale comunque addotta”.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.