Il trattamento retributivo del pubblico dipendente che viene sospeso dal servizio, in via cautelare, per vicende penali
07 Maggio 2025
Massima Lo svolgimento della detenzione preventiva o custodia cautelare da parte di un dipendente non rientra nei casi considerati dalla legge come situazioni di temporanea incapacità lavorativa, quali la malattia e altri contesti previsti dall'art. 2110 c.c. Questo stato comporta la privazione del diritto alla retribuzione per l'intera durata della detenzione, anche nel caso in cui sia in corso una sospensione precauzionale attuata dal datore di lavoro durante il procedimento penale. In questo contesto, non può essere invocato il principio della precedenza della causa sospensiva del lavoro, secondo il quale si considera prioritaria la causa che è sopraggiunta per prima, poiché tale principio si riferisce esclusivamente alle specifiche cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione. Il caso Un dipendente comunale, con funzioni di responsabile edilizia privata, mentre si trova in stato di malattia con atto dell'ente viene sospeso in via cautelare dal servizio. A motivo del provvedimento, l'intervenuta applicazione nei confronti del lavoratore della misura cautelare della custodia in carcere adottata nell'ambito del procedimento penale che lo coinvolge per fatti di concussione. Successivamente, la carcerazione viene sostituita con gli arresti domiciliari e poi con l'obbligo di presentarsi quotidianamente alla polizia giudiziaria. Fino a che, cessata ogni misura restrittiva della libertà personale, il dipendente chiede di essere riammesso in servizio. La domanda viene però respinta dal Comune il quale, all'opposto, proroga la sospensione dal lavoro del dipendente sino alla sentenza penale definitiva, a titolo di sospensione c.d. facoltativa secondo le previsioni dell'art. 5, comma 3, CCNL di comparto (presumibilmente, Funzioni Locali). Il lavoratore agisce allora in giudizio chiedendo, per tutte le fasi di sospensione cautelare dal servizio, il pagamento della differenza tra il trattamento retributivo contrattualmente previsto e l'assegno alimentare a lui corrisposto. A sostegno del ricorso, il funzionario adduce il principio della prevenzione temporale delle cause di sospensione dal lavoro, la cui applicazione nel caso concreto avrebbe, a suo parere, dovuto impedire, durante malattia, la sospensione del rapporto per le vicende penali. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello respingono la domanda del lavoratore. Quest'ultimo ricorre allora alla Suprema Corte. La questione Quali sono, sul piano del trattamento economico, gli effetti della sospensione cautelare del pubblico dipendente disposta per motivi penali che interviene allorquando lo stesso è già assente dal lavoro per malattia? Le soluzioni giuridiche La questione è collegata al più generale tema delle cause legali di sospensione del contratto di lavoro, che consentono al dipendente di conservare il diritto alla retribuzione pur in mancanza della prestazione lavorativa. L'ordinamento, infatti, in relazione ad alcune situazioni di impossibilità temporanea della prestazione contrattualmente a carico del lavoratore garantisce a quest'ultimo, oltre alla conservazione del rapporto, il corrispettivo economico. Trattasi di una deroga al principio di corrispettività sancito dall'art.2094 c.c., da limitarsi, vista la sua natura, alle ipotesi tassativamente previste dalla legge o dai contratti collettivi. Per quanto concerne le cause di sospensione che si verificano nella sfera personale del lavoratore, le fattispecie normative più comuni sono quelle disciplinate agli art. 2110-2111 c.c.: che regolano gli effetti sul rapporto di lavoro di malattia, infortunio, gravidanza, puerperio e servizio militare, trovando fondamento in disposizioni di rango costituzionale (artt. 32,37 e 38 Cost.). Per i casi non previsti dalla legge, secondo la giurisprudenza, vale la regola opposta: l'impossibilità sopravvenuta per fatto non imputabile all'imprenditore, pur liberando il lavoratore dall'obbligo di effettuare la prestazione lavorativa, esonera il primo dall'obbligo di pagamento della retribuzione. In siffatte ipotesi, si precisa, la prestazione lavorativa deve comunque risultare impossibile ai sensi degli artt. 1206,1256 e 1258 c.c. dovendosi, negli altri casi, necessariamente stipulare un accordo modificativo del contratto individuale di lavoro, in forza del quale le parti convengano che per un certo tempo non saranno eseguite le prestazioni e le controprestazioni (cfr. Cass. n. 7302/1990; Cass. SS.UU. n.5454/1987; Cass. n.3125/1983). In altre parole, nei casi atipici di sospensione lavorativa per fatto riferibile al lavoratore, il datore di lavoro per esimersi dall'obbligazione retributiva ha l'onere di provare l'esistenza d'una causa d'effettiva e assoluta impossibilità sopravvenuta di ricevere la prestazione, a lui non imputabile, senza che a questo fine possano assumere rilevanza eventi riconducibili alla sua stessa gestione imprenditoriale, compresa la diminuzione o l'esaurimento dell'attività produttiva. Quanto sopra in considerazione del principio dettato dall'art. 6, u.c., R.D.L. n.1825/1924 1825 sul contratto di impiego (che prevede il diritto dell'impiegato alla normale retribuzione nel caso di sospensione del lavoro per fatto dipendente dal principale) e, più in generale, sulla scorta della citata disciplina del codice civile in tema di obbligazioni corrispettive (Cass. 22/10/1999 n. 11916). Viene così traslato sulla parte ritenuta contrattualmente più forte il rischio relativo ai casi di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore attinenti alla persona del lavoratore. Tale principio trova applicazione, ad esempio, nelle ipotesi di sopraggiunta inidoneità del dipendente alla mansione specifica a seguito di giudizio negativo del medico competente (c.d. sospensione sanitaria). In quest'ambito, si è ritenuto infatti che lo stipendio non è dovuto, pur se il lavoratore offra di riprendere servizio, nel difetto di comprovata sicurezza della diversa mansione proposta e visto l'incondizionato obbligo per il datore di lavoro di assicurare la tutela della salute sul luogo di lavoro previsto dall'art. 2087 c.c. e, in seguito, dal D. Lgs. n.81/2008 (Cass. n.7619/1995; Trib. Verona, 02/11/2015, n.6750, in dejure.it). Altri esempi possono rinvenirsi allorché il lavoratore non riesca a raggiungere il posto di lavoro per sciopero dei mezzi pubblici, oppure quando lo stesso si vede privato di un'autorizzazione amministrativa per l'ingresso nel luogo di lavoro. Venendo al caso oggetto della pronuncia commentata, la fattispecie è riferita all'evenienza nella quale il fatto impeditivo della prestazione lavorativa deriva da un provvedimento penale restrittivo della libertà personale. In particolare, il tema affrontato dai Supremi Giudici è quello degli effetti, sul piano del trattamento economico e nell'ambito del procedimento disciplinare, della sospensione cautelare dal servizio - dapprima obbligatoria per detenzione in carcere e poi facoltativa secondo le previsioni del contratto collettivo - intervenuta quando il rapporto era già sospeso per la malattia del dipendente. Nell'individuare le conseguenze delle due concomitanti cause di sospensione, la Corte sottolinea come sia costante il proprio orientamento secondo il quale lo stato di carcerazione preventiva (o comunque di custodia cautelare) del lavoratore subordinato non rientra tra le ipotesi, tutelate dalla legge, di impossibilità temporanea della prestazione, quale la malattia e le altre situazioni contemplate dall'art. 2110 cod. civ., e comporta pertanto la perdita del diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione medesima. Ne consegue che in relazione al provvedimento di sospensione cautelare disposto dal datore di lavoro in pendenza del procedimento penale non può essere invocato il principio della c.d. priorità temporale della causa sospensiva della prestazione di lavoro. Quest'ultimo, si ricorda, vale a considerare prevalente, ai fini del trattamento retributivo, la causa verificatasi per prima. Nel caso di specie, il lavoratore ricorrente sosteneva infatti che il principio avrebbe dovuto impedire, nel periodo di malattia, la sospensione del rapporto a causa delle vicende penali. Il Collegio risponde invece che, per consolidato orientamento di legittimità, la regola della priorità della causa sospensiva – di cui, peraltro, non ritiene utile chiarire tratti e presupposti - può riferirsi unicamente al concorso di cause legali di sospensione le quali, tutte, facciano espressamente salvo il diritto alla retribuzione (così Cass. 25 giugno 2013, n. 15941; analogamente, per quanto in tema di cassa integrazione guadagni, Cass. 9 settembre 2011, n. 18528; Cass. 16 ottobre 1990, n. 10087). Per contro, aggiunge la Corte, il lavoratore assente per carcerazione preventiva si trova in condizione di non potere riprendere il lavoro non per fatti involontari o comunque tutelati dalla legge, sicché la pregressa malattia intercetta un successivo fatto impeditivo della prestazione che risale a responsabilità del dipendente e che, in via assorbente, non consente l'accesso alle invocate tutele. Del resto, conclude la sentenza, tale orientamento è pienamente coerente con l'ulteriore principio per cui lo stato di malattia del lavoratore, mentre preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso per giustificato motivo, non gli impedisce l'intimazione del licenziamento per giusta causa, eventualmente preceduta da una sospensione cautelare, non avendo ragion d'essere la conservazione del posto in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure in via temporanea del rapporto (Cass. 6 agosto 2001, n. 10881; Cass. 25 agosto 2003, n. 12481; Cass. 22 febbraio 1995, n. 2019). Osservazioni Come detto, il ragionamento cardine della sentenza è costituito dall'essersi attribuito all'impossibilità della prestazione lavorativa per la carcerazione preventiva, o per gli altri provvedimenti restrittivi della libertà personale, una valenza, sul piano soggettivo, di carattere negativo in quanto riferibile a “responsabilità” del lavoratore (a quest'ultimo sarebbe infatti “addebitabile”, “imputabile” il comportamento “non involontario” che ha dato causa alla sospensione del rapporto di lavoro, si scrive nella pronuncia). E la condizione soggettivamente colpevole della parte contrattuale, ritiene la Corte, non può consentirle di beneficiare delle tutele, di cui all'art. 2110 c.c., tipiche dello stato di malattia, altra causa di sospensione del rapporto nell'occasione concorrente, dovendosi pertanto, a dispetto della richiesta dello stesso lavoratore ricorrente, considerare nella specie inapplicabile il relativo principio di priorità temporale. Da notare che l'assunto, espressamente articolato soltanto con riferimento al periodo in cui il dipendente in questione è stato ristretto in carcere o comunque è stato impedito al lavoro perché agli arresti domiciliari, viene dal giudice sic et simpliciter esteso al successivo momento oggetto della sua valutazione: quello nel quale la prestazione lavorativa, per cessazione delle misure restrittive penali, era tornata possibile ed, anzi, era stata rivendicata dal dipendente ma non era stata consentita per scelta discrezionale del datore di lavoro in base a quanto sul punto previsto dal CCNL di comparto. A sostegno dell'identica soluzione economica (nessun diritto alla retribuzione) statuita in relazione alle due diverse fasi di sospensione, la S.C. afferma che anche tale (seconda) sospensione cautelare dal lavoro, pur se facoltativa, consegue ad un comportamento – quello oggetto del giudizio penale – addebitabile al dipendente. La decisione adottata pare nella sostanza corretta. Meno l'argomento giuridico addottone a motivazione. Certamente sono nel caso di specie evidenti le ragioni cautelari sottese al mantenimento, per l'intero corso del procedimento penale, dello stato di allontanamento del lavoratore dalle pubbliche funzioni che, perlomeno secondo l'accusa, avevano per lui costituito l'occasione realizzare compiere il grave reato (concussione) contestato: considerandosi in proposito, oltre ai presupposti cautelari di natura penale (in particolare, il pericolo di inquinamento delle prove ed il rischio di reiterazione del reato), sul versante giuslavoristico la posizione differenziata dei lavoratori i quali, appunto svolgendo funzioni pubbliche, debbono apparire oltre che essere al di sopra di ogni sospetto circa l'esercizio delle stesse con disciplina e onore (art. 54 Cost.). Intrinsecamente differente è però la condizione lavorativa che, nel tempo, si è accompagnata alla vicenda processuale del dipendente in questione: impossibilità assoluta della prestazione, durante la reclusione in carcere e gli arresti domiciliari; in seguito, valutazione discrezionale da parte del datore di lavoro d'inopportunità della sua presenza in servizio, per l'ulteriore periodo di pendenza del procedimento penale. In relazione a ciò, si impone la considerazione che la sospensione cautelare dal lavoro non è un provvedimento disciplinare bensì una legittima espressione del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro (art. 41 Cost.). Nel settore del lavoro pubblico contrattualizzato, in cui la sospensione cautelare facoltativa dei dipendenti sottoposti a procedimento penale è in linea generale prevista dall'art. 55-ter d. lgs. 165/2001, il concetto è stato ribadito specificandosi come la finalità della misura sia quella di impedire che, in pendenza di un procedimento penale, il lavoratore inquisito permanga in servizio con possibile grave pregiudizio all'immagine ed al prestigio dell'Amministrazione di appartenenza (Cons. Stato, sez. III, 11 luglio 2014, n. 4587). Da quanto sopra discende l'ulteriore regola che il provvedimento datoriale di sospensione cautelare di per sé non comporta la perdita del diritto del dipendente alla retribuzione, salvo che diversamente sia disposto nella disciplina legale o negoziale del rapporto (Cass. n.89/2003; Cass. n. 3209/1998, Cass. n. 12631/1999, Cass. SS. UU., n. 4955/1997). E nel caso di specie, la deliberazione, pur facoltativa, dell'ente comunale di prorogare la sospensione cautelare del proprio funzionario fino alla decisione definitiva del giudice penale trova pieno fondamento nelle disposizioni collettive del comparto funzioni locali. Queste ultime, all'epoca come oggi, espressamente prevedono che, cessato per il dipendente lo stato di restrizione della libertà personale, l'Amministrazione ha la possibilità di prolungare la sospensione del dipendente, con privazione della retribuzione, fino alla sentenza penale definitiva a condizione che i fatti contestati in quest'ultima sede attengano direttamente al rapporto di lavoro o comunque comportino, se accertati, l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento (vd. art.61 CCNL 21/5/2018). Dubbia, nondimeno, appare l'argomentazione giustificativa in punto svolta nella sentenza: quella di rinvenire una condotta colpevole del prestatore di lavoro, con conseguente addebito ontologicamente disciplinare nei suoi confronti, nel comportamento all'origine ed oggetto del procedimento penale. Parole come “addebitabile”, “imputabile” o “non involontario” riferite, come nella pronuncia avviene, ad una condotta del lavoratore da sottoporsi invece al vaglio definitivo del giudice penale mal si attagliano a chi, suo malgrado e più semplicemente, in quel procedimento ha assunto la veste di persona sottoposta alle indagini preliminari e poi di imputato. Senz'altro più coerente sul piano sistematico, a nostro parere, sarebbe stato per contro individuare quale ragione legittimante della condotta nell'occasione tenuta dal datore di lavoro la stessa disciplina interna all'istituto applicato: la sospensione cautelare facoltativa, senza retribuzione, del pubblico dipendente sottoposto a processo penale per fatti attinenti al rapporto di lavoro, secondo le previsioni della contrattazione collettiva e, in via generale, del citato art. 55-ter T.U.P.I. Tale speciale disciplina pensiamo infatti debba considerarsi prevalente rispetto al principio pretorio, dal fondamento e contenuto assai più incerti, della priorità della causa sospensiva. Salvo altro, in quanto la prima è volta, nei modi riferiti, ad attuare i principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità della P.A. (art. 97 Cost.). La stessa pronuncia, nella sua parte finale, pare comunque avvertire l'esigenza di salvaguardare, in favore del dipendente, l'equità sostanziale: precisandosi che se, alla chiusura del procedimento penale, la sospensione dal sevizio, obbligatoria o facoltativa, fosse risultata ingiustificata e non sorretta dal sopravvenire di un legittimo provvedimento disciplinare (licenziamento; sospensione di durata sufficiente a coprirne gli effetti), egli avrebbe avuto comunque diritto ai conseguenti recuperi sul piano retributivo, come in proposito previsto dalla medesima normativa collettiva. |