Responsabilità genitoriale per atti illeciti di minore incapace: condanna al risarcimento per diffamazione tramite Instagram
12 Maggio 2025
Massima Il genitore convivente è civilmente responsabile, ai sensi dell'art. 2047 c.c., dei danni da cyberbullismo arrecati a terzi dal figlio minorenne, quando ometta di esercitare una vigilanza attiva, costante e tecnicamente adeguata sull'uso dei social‑network, ivi compresa la verifica di eventuali profili “fake”. Non integra prova liberatoria né la mera impartizione di generiche raccomandazioni né il dichiarato difetto di competenze informatiche, essendo richiesto che il genitore dimostri di aver predisposto idonei strumenti di controllo e di aver effettivamente monitorato la condotta online del minore, con particolare rigore in presenza di situazioni di fragilità evolutiva del figlio. Il caso La sentenza riguarda una controversia risarcitoria promossa da una minorenne (attrice) contro i genitori di una coetanea (convenuti), autrice di condotte diffamatorie ai danni della prima minore, tramite profili fake e contenuti realizzati anche tramite tool di Intelligenza Artificiale, diffusi su Instagram. Difatti tra il 2017 e il 2018 la convenuta creò falsi account contenenti fotografie di parte attrice, modificate e così “derivandone” immagini pornografiche, sommandosi a correlati insulti sessuali e minacce, visibili a migliaia di followers sul social. La Procura ha negato la responsabilità in capo alla minorenne autrice della condotta, dichiarata non imputabile per incapacità di intendere e volere a causa di un ritardo intellettivo, accertato medicalmente e documentato. L'attrice ha quindi agito in sede civile contro i genitori della stessa minore, invocando gli artt. 2047 e 2048 c.c., per potersi vedere riconosciuto il danno subito. Arrivando a una sentenza di primo grado di condanna a carico dei responsabili genitoriali, per culpa in educando e vigilando sulla propria figlia minore rea di cyber-bullismo aggravato (dunque per diretta responsabilità ex art. 2047 c.c. ma richiamando, pur indirettamente, l'art. 2048 c.c. circa la “culpa in educando”), per un importo di danno pari a 15.000 euro. La questione Il provvedimento in discussione, in linea con la l. 71/2017 sul cyberbullismo, rafforza l'orientamento per cui la responsabilità genitoriale si estende ai comportamenti online dei figli e impone nuovi oneri di prevenzione digitale in capo alle famiglie (oltre che a scuole e piattaforme). Chiedendo ai genitori di indirizzare i figli a un uso corretto delle tecnologie digitali. Si possono discernere tre questioni principali trattati dai giudici de quo: (a) quale norma applicare, tra l'art. 2047 e l'art. 2048 c.c., a illeciti compiuti online da un minore: la scelta dipende dall'accertamento della capacità del minore al momento dei fatti; (b) se i genitori hanno adempiuto al loro dovere di vigilanza ex art. 2048 c.c., nonostante le assodate criticità psico-comportamentali della figlia; (c) se alla liquidazione del danno non patrimoniale nel caso di diffamazione online siano applicabili le Tabelle di Milano 2024. Le soluzioni giuridiche Circa la prima diatriba, sulla scelta applicativa tra l’art. 2047 o art. 2048 c.c., tradizionalmente la giurisprudenza la distingue così (dando per pacifico che si tratta di criteri di imputazione alternativi e non concorrenti):
Nel caso bresciano in parola, la minore – affetta da comprovato ritardo intellettivo – sarebbe stata naturalmente ricondotta all’art. 2047 c.c.Tuttavia, il giudice ha scelto un approccio ibrido, affiancandovi quelli che paiono criteri “importati” dall’art. 2048 c.c.: la particolare vulnerabilità spinge verso la responsabilità oggettiva e la condotta dei genitori è stata valutata alla luce dell’adeguatezza della vigilanza tecnico‑digitale - già riconosciuta per la mancata educazione ex art. 2048 c.c. - pur se usata per delineare il contenuto della mancata sorveglianza, imposta dall’art. 2047 c.c. del caso de quo. In precedenza – ex multis v. Trib. di Parma, sent. 5 agosto 2020, n. 698, e Cass. civ., sez. III, ord., 24 aprile 2019, n. 11198) – si è data applicazione dell’art. 2048 c.c. solo a minori pienamente capaci, insistendo sul difetto di controllo da parte dei responsabili genitoriali. La sentenza di Brescia, invece, sottolinea che capacità del minore e qualità della vigilanza non sono compartimenti stagni, lasciando aperta la strada a soluzioni combinatorie quando la fragilità cognitiva si accompagni a condotte genitoriali gravemente omissive. Circa il dovere di vigilanza “attiva e tecnicamente adeguata”, secondo snodo dell’analisi, concerne il contenuto del dovere di vigilanza imposto dall’art. 2048 c.c. anche in presenza di criticità psico‑comportamentali. Il Tribunale ha negato qualsiasi esimente ai genitori, ritenendo insufficiente il semplice richiamo difensivo alla “scarsa alfabetizzazione digitale” degli stessi. Per il giudice la vigilanza richiesta può essere così scomposta:
Sono state quindi respinte le difese, debolmente (in)fondate sulla privacy della figlia o sull’ignoranza informatica: il diritto alla riservatezza “cede” davanti alla necessità di prevenire illeciti gravi, mentre l’incompetenza digitale può (e deve) essere colmata come onere dei responsabili genitoriali, anche ricorrendo a mezzi tecnici o a supporto esterno. Tale linea si pone in sintonia con Cass. civ. n. 6902/2022, la quale aveva già sancito la responsabilità per “culpa in educando” dei genitori, anche prescindendo dal dolo del minore. Infine, quale terzo punto di attenzione: quanto al risarcimento, il Tribunale ha riconosciuto 15.000 euro a titolo di danno morale e biologico (in riduzione equitativa rispetto alla richiesta iniziale, partita da ben 26.000 euro) per le gravi ripercussioni psicologiche (ansia, isolamento, agorafobia) arrecate alla vittima (minore anch’essa) e causate dalla diffusione di immagini pornografiche manipolate. Pur senza citarle espressamente, l’importo si colloca nella fascia prevista dalle note Tabelle di Milano 2024 di liquidazione del danno civile per i disturbi psichici di media entità. La motivazione richiama, quali criteri delle Tabelle utilizzati per il computo: (i) il protrarsi delle condotte diffamatorie; (ii) l’uso di deep‑fake a contenuto sessuale; (iii) l’impatto sulla vita scolastica e relazionale della vittima. La scelta conferma la tendenza – già vista per es. nel caso del Trib. di Parma (Trib. Parma sent., 5 agosto 2020, n. 698) e in Cassazione (per es. Cass. civ., sez. III, ord., 2 marzo 2022, n. 6902) – a utilizzare le Tabelle come bussola di uniformità, pur adattandone gli scaglioni ai peculiari effetti dei reati online, spesso più duraturi e stigmatizzanti per le vittime, tanto più se minorenni. Osservazioni La sentenza del Tribunale di Brescia si inserisce in un contesto giuridico e sociale sempre più sensibile alla tutela dei minori nell'era digitale. Difatti la responsabilità genitoriale si colloca in un sistema sempre più integrato e che include il GDPR (v. l'art. 8, sul consenso digitale per minori), il Digital Services Act (Reg. (EU) 2022/2065, v. l'art. 28 sulla protezione online dei minori) e Artificial Intelligence Act (Reg. (EU) 2024/1689, v. l'art. 5.1 lett. b) sul divieto di sistemi di IA che sfruttano la vulnerabilità dovuta all'età). La sentenza in commento pare richiamare implicitamente il principio del best interest of the child (scolpito nella Convenzione ONU del 1989), ribadendo che l'incapacità del minore impone un dovere rafforzato di vigilanza da parte di chi ne ha responsabilità, pur in assenza di competenze tecnico-informatiche. Sebbene il caso non abbia coinvolto direttamente Instagram, il materiale citato evidenzia come, da un lato, le piattaforme social e affini debbano implementare misure di age verification e filtri anti-abuso (v. i casi di provvedimenti contro TikTok, come quelli dell'autorità Garante per la protezione dei dati personali nel 2021 - per es. il provv. d'urgenza del 7 luglio 2021 n. 9788342). La mancata segnalazione di profili fake da parte degli algoritmi solleva interrogativi sull'efficacia degli strumenti di monitoraggio automatizzato, tema centrale nel dibattito sul Digital Services Act e persino sull'Artificial Intelligence Act (quanto ai deep-fake). Dall'altro lato, la sentenza sottolinea l'insufficienza del mero controllo passivo (es. condivisione delle credenziali) in assenza di un percorso educativo attivo. Ciò pare allineare la giurisprudenza (ovviamente se seguirà la strada indicata dal Tribunale di Brescia) alle raccomandazioni dell'AGIA (Autorità Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza) e dell'UNICEF - le quali promuovono l'alfabetizzazione digitale nelle scuole e il coinvolgimento dei servizi socio-educativi. Come nel caso dell'educatrice domiciliare, citata negli atti di Brescia, già coinvolta nel tentativo di alfabetizzare digitalmente la minore. In buona sostanza, i genitori hanno sia omesso di verificare l'effettiva interiorizzazione dei valori impartiti così come non hanno esercitato un controllo sufficiente sull'uso dei social, permettendo la creazione di profili nascosti e relativi abusi. Il giudice ha affermato che l'ignoranza tecnologica nel mondo attuale “onlife” (per usare l'espressione di Luciano Floridi circa la nuova dimensione inestricabile sia online che non delle nostre vite) non può liberare dalla responsabilità: i genitori devono acquisire competenze adeguate o affidarsi a supporto o consulenti adeguati. Si deve pensare sia a un onere formativo a proprio personale carico, insito nel ruolo di genitori, sia dello Stato quanto in grado di offrire canali e supporto adeguati in tal senso. La sentenza di Brescia, rispetto al passato, sembra alzare l'asticella proprio richiedendo non solo un obbligo educativo, oltre che di controllo: si arriva a sancire un onere di alfabetizzazione digitale dei soggetti maggiorenni, se omesso configura di per sé colpa genitoriale. Si alza dunque l'asticella, imponendo un dovere “proattivo” che include la verifica di eventuali account secondari e l'utilizzo di strumenti di sicurezza informatica domestica. Se dovessimo pensare a un breve vademecum per i genitori di oggi, potremmo abbozzare qualcosa del genere: audit digitale periodico (controllare le impostazioni privacy dei dispositivi, la cronologia dei login e la presenza di profili duplicati), adozione di tool di parental‑control avanzati (tramite dashboard che per es. segnalino nuove registrazioni con mail o numeri di telefono dei figli), educazione continua (per es. frequentando corsi di alfabetizzazione digitale e dialogando apertamente sui rischi della rete). Un'idea ulteriore potrebbe essere quella di un'assicurazione RC famigliare che copra anche i danni da illeciti digitali, considerando la crescita del contenzioso in materia. Non solo di genitori dobbiamo parlare, andrebbe varato un nuovo patto educativo e considerato il ruolo della scuola: andrebbero rafforzati i patti di corresponsabilità educativa e i programmi di peer‑education già previsti dalla l. 71/2017, collaborando con servizi sociali e famiglie in caso di early‑warning su condotte online a rischio. Inoltre, le piattaforme potrebbero implementare strumenti che consentano ai tutori legali di ricevere alert su aperture di profili da parte di minori registrati con le medesime credenziali. Trattando di danni non patrimoniali, quelli liquidati a Brescia riconoscono gli effetti devastanti del cyberbullismo sulla vittima (ansia, isolamento, vergogna), in linea con gli studi (citati nella sentenza) su dipendenza digitale e alterazioni dello sviluppo cognitivo. L'approccio adottato dai giudicanti bresciani sulla “modesta gravità” potrebbe però apparire riduttivo, considerata la risonanza su 6.000 follower e la natura pornografica dei contenuti in gioco: fattori che avrebbero forse giustificato un ben diverso inquadramento, persino di “elevata gravità”. Per concludere, la sentenza evidenzia l'attuale e persistente divario tra norme e realtà tecnologica. Mentre le Tabelle di Milano 2024 offrono tuttora utili parametri per la liquidazione del danno in molti casi, servono strumenti più dinamici e focalizzati per valutare il danno psico-sociale in casi coinvolgenti la dimensione digitale. Non è più rimandabile questo aggiornamento. Inoltre il diritto UE non impone alle piattaforme un obbligo generale di segnalare a un'autorità pubblica attività “sospette” come la creazione di profili fake - prevede solo alcuni obblighi mirati di notifica solo per ipotesi di reato grave o di rischio alla vita e alla sicurezza (si veda il Digital Services Act in merito). Ne deriva un effettivo “vuoto” in tema di prevenzione proattiva dei comportamenti illeciti non rientranti in quelle ipotesi, e che dottrina e autorità auspicano di colmare con strumenti supplementari (es. verifica d'identità, KYC light, segnalazioni automatiche alle autorità competenti). |