Nessun automatismo sanzionatorio in caso di condanna in sede penale per vicende extralavorative
06 Maggio 2025
Massima Sebbene dall'integrazione dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., derivi che il lavoratore deve astenersi da qualsiasi condotta, anche extralavorativa e potenzialmente dannosa, che sia in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa, va escluso un automatismo tra la condanna penale e l'integrazione della giusta causa di licenziamento, dovendosi considerare, caso per caso, le implicazioni dei fatti di rilevanza penale sulla regolare esecuzione della prestazione e il comportamento adottato tra le parti nella gestione del rapporto nel tempo successivo alla commissione del fatto illecito. Il caso La vicenda concreta ha ad oggetto il licenziamento di una dipendente di Poste Italiane che, già arrestata nel 2013 per fatti di rilevanza penale consistenti nello spaccio di stupefacenti, fu giudicata penalmente responsabile con sentenza divenuta definitiva nel 2016. Costei, impiegata con mansioni esecutive interne agli uffici, sempre nel 2016, dopo un periodo di congedo per maternità, aveva ripreso la propria attività lavorativa, fino a quando, nel 2019, Poste Italiane, che nel frattempo non aveva adottato alcuna iniziativa disciplinare, l’ha licenziata per giusta causa, ritenendo che il fatto ascrittole ledesse l’immagine aziendale e consentisse il suo licenziamento a mente dell’art. 54, comma 6, lett. h), ccnl, norma che punisce con il recesso per giusta causa il dipendente autore di condotte extralavorative oggetto di condanna in sede penale passata in giudicato. Tanto il Tribunale di Siena, quanto la Corte d’appello competente, avevano accolto l’impugnazione del recesso rilevando l’insussistenza della giusta causa. In particolare, nei due gradi di merito è stato assegnato rilievo alle mansioni impiegatizie interne assegnate alla lavoratrice, prive di visibilità all’esterno, e al fatto che la società non avesse dimostrato l’effettiva rilevanza della condotta extralavorativa, risalente al 2011/12, nel contesto aziendale del 2019. Con il suo ricorso per cassazione, Poste Italiane ha obiettato la mancata valorizzazione dell’acclarata sussistenza del fatto contestato e della sua rilevanza tanto penale, quanto disciplinare. Invero, secondo la società, il contegno censurato fu posto in essere allorché la lavoratrice già lavorava per Poste Italiane, sicché sarebbe innegabile l’inadempimento agli obblighi di diligenza e fedeltà. Inoltre, la sua decisione sarebbe del tutto aderente al dettato dell’art. 54 ccnl. La questione La pronuncia della Corte di cassazione ha respinto il ricorso proposto da Poste Italiane. Nel far ciò ha richiamato i propri precedenti in tema di rilevanza disciplinare delle condotte extralavorative oggetto di condanna in sede penale, chiarendo la mancanza d’ogni automatismo e la necessità di apprezzare il disvalore della condotta nel concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro. Le soluzioni giuridiche A premessa della propria motivazione, la Suprema Corte ha ricordato che dall'integrazione dell'obbligo di fedeltà, di cui all'art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., deriva che il lavoratore deve astenersi da qualsiasi condotta, anche extralavorativa e potenzialmente dannosa, che sia in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa, o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto. Inoltre, la Corte ha ricordato i propri precedenti secondo cui la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva. La concreta valutazione della gravità dei comportamenti nel contesto del rapporto di lavoro. Su queste premesse, la Corte è giunta a ritenere che le decisioni di merito fossero aderenti ai canoni ermeneutici riflessi dalla giurisprudenza di legittimità. In questo senso, ha ritenuto corretta la valorizzazione del fatto che, in epoca successiva alla commissione dei fatti, risalenti al 2011/12, e noti alla società dal 2013, quest'ultima non aveva adottato alcuna iniziativa, quale la sospensione dal lavoro della dipendente, tanto che questa, rientrata dal congedo di maternità, aveva ripreso servizio nel 2016, fino al successivo licenziamento del 2019. La Corte ha inoltre condiviso la valorizzazione del fatto che la lavoratrice fosse occupata in mansioni che non implicavano né il contatto col pubblico, né l'assunzione di responsabilità funzionali o operative, ciò che deporrebbe per l'irrilevanza della condotta rispetto all'immagine aziendale e al rapporto fiduciario. Considerando anche la modesta gravità del fatto accertata in sede penale e la mancanza d'altri precedenti disciplinari, la Cassazione ha confermato la sentenza d'appello, valutando che questa, cogliendo in modo appropriato le implicazioni dei fatti penalmente illeciti sulla regolare esecuzione della prestazione, aveva correttamente escluso la sussistenza della giusta causa, da intendersi quale fatto sussistente non solo in senso «materiale», ma anche in senso «giuridico». Osservazioni La pronuncia in commento offre coordinate interpretative utili per valutare, nel contesto del rapporto di lavoro, le condotte extralavorative del dipendente oggetto di condanna in sede penale. Nella valutazione rimessa al giudice in caso d'impugnazione del licenziamento per giusta causa integrata da un illecito penale, l'accertamento compiuto in sede penale costituisce un punto di partenza, ma non anche un punto d'arrivo, atteso che ciò che è punito penalmente per il suo disvalore sociale non necessariamente assume rilievo dirimente nella dinamica del rapporto di lavoro. Nella pronuncia in commento, la Corte non ha omesso di ricordare che, ai fini dell'integrazione della giusta causa di licenziamento, non è sufficiente che il fatto contestato sia sussistente in senso materiale, dovendosene verificare anche la sussistenza in senso giuridico. La constatazione allude al chiarimento più volte espresso dalla Cassazione secondo cui «l'insussistenza del fatto contestato”, di cui all'art. 18, comma 4, st. lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, comprende sia l'ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, nondimeno non presenti profili di illiceità, sicché, in tale ipotesi, si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata» (Cfr. Cass., n. 13383/2017 e successive conformi ). Del resto, è noto che la nozione legale di giusta causa esprime un concetto indeterminato, che rimanda volutamente ad un variabile contenuto assiologico, allo scopo di consentire l'adeguamento delle nozioni stesse alla realtà, che è articolata e mutevole nel tempo. Pertanto, il contenuto di tali nozioni deve essere necessariamente specificato in sede interpretativa, per mezzo di standard valutativi che tengano conto dell'evoluzione della coscienza sociale(osì G. Proia, Manuale di diritto del lavoro, Cedam, 2024, p. 322 s.) e che vanno comunque calati all'interno del peculiare contesto entro cui è maturato il recesso. Questa configurazione della nozione consente una sua perenne attualizzazione ed un suo adeguamento alle vicende concrete, fermo restando che essa, in ogni caso, si concretizza nella sostanziale negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e nel tradimento del legame fiduciario intercorrente tra le parti. In questa guisa, è consolidata l'idea che essa riguardi condotte ed atti del lavoratore, e, in particolare, gli inadempimenti a lui imputabili. In ordine alla possibilità di ricondurvi vicende attinenti alla sfera personale del dipendente, e dunque comportamenti che prima facie sarebbe avulsi dal rapporto di lavoro e non esprimerebbero un diretto inadempimento delle obbligazioni da esso derivanti, è stato affermato che «la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; tali condotte, ove connotate da caratteri di gravità, possono anche determinare l'irrogazione della sanzione espulsiva» (Cass., n. 267/2024. In termini, v. anche Cass., n. 28368/2021) In effetti, come s'evince anche dalla pronuncia in commento, la valutazione della gravità dell'inadempimento deve essere sempre compiuta considerando tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano la fattispecie concreta, quali l'intensità della fiducia richiesta dalle mansioni svolte, il grado di affidamento che queste implicano, l'intenzionalità dell'inadempimento e l'eventuale esistenza di conseguenze pregiudizievoli. È al lume della valutazione complessiva di tali elementi che occorrerà verificare l'effettiva idoneità dell'atto a ledere il vincolo fiduciario e a giustificare il recesso immediato. Nel far ciò, il giudice dovrà tenere conto dell'assenza di un automatismo tra la condanna penale e l'integrazione della giusta causa di licenziamento. Potrà ritenerla sussistente solo previa valutazione delle concrete ricadute del fatto nel rapporto di lavoro. In quest'ottica, e seguendo il ragionamento della Corte, va senz'altro verificata la potenziale proiezione verso l'esterno della prestazione lavorativa, ciò che è determinante rispetto ad un'eventuale lesione dell'immagine aziendale, ma anche l'effettivo contenuto delle mansioni. Nella specie, per esempio, la mancanza di responsabilità operativa e funzionale nello svolgimento della prestazione, consistente nella lavorazione della corrispondenza destinata ai portalettere e nella gestione della contabilità relativa ai loro incassi, ha assunto rilievo nel senso di escludere che una vicenda attinente allo spaccio di stupefacenti potesse intaccare il rapporto fiduciario. Nell'accezione della Corte, la sua lesione non va apprezzata con riguardo all'affidabilità o onorabilità della «persona» del dipendente –poste in discussione sul piano sociale per chi, per esempio, prenda parte al narcotraffico -, ma dipende da valutazioni attinenti al piano economico-utilitaristico, per cui, di fatto, la mancanza di un legame tra il bene giuridico leso dal reato e quello vagamente riconducibile alla prestazione di lavoro assegnata finisce per escludere la sussistenza della giusta causa. Per ricostruire le ricadute del fatto commesso sul rapporto fiduciario, debbono poi considerarsi i comportamenti delle parti successivi alla commissione del fatto medesimo, nel senso che l'inerzia datoriale può senz'altro confermare la mancanza di “significativi sconvolgimenti”. Nella pronuncia in commento, la Corte ha posto l'accento anche su quest'aspetto, sebbene nel far ciò pare non abbia considerato gli ostacoli concreti che il datore di lavoro avrebbe incontrato rispetto all'adozione di iniziative cautelari. Invero, secondo l'accordo collettivo applicabile, la possibilità di sospensione cautelare del dipendente è consentita solo “per il tempo strettamente necessario” ad “espletare accertamenti sui fatti addebitabili”, con la precisazione che essa è ammessa solo “in ipotesi di particolare gravità”. A fronte di un giudizio penale in corso, non pare che ricorressero i presupposti previsti dalla disciplina collettiva per la sospensione della lavoratrice. Considerando poi che il fatto storico, come accertato in sede penale, non è stato giudicato idoneo a fondare la «giusta causa» di licenziamento, è da ritenere che anche l'eventuale sospensione cautelare si sarebbe rivelata illegittima e che essa, comunque, quandanche adottata, non avrebbe cambiato il segno della decisione sul licenziamento. Ciò induce a sottolineare, conclusivamente, che alla mancanza d'un automatismo tra condanna penale e giusta causa, deve corrispondere la necessità d'apprezzare concretamente anche le ragioni che hanno suggerito al datore di lavoro tempi e modi della sua iniziativa disciplinare. |