Il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile: i limiti della responsabilità datoriale

05 Maggio 2025

Un caso particolare di licenziamento per superamento del periodo di comporto riguarda l’eventualità in cui il lavoratore sia rimasto assente dal lavoro per un periodo di tempo prolungato a causa non già di uno stato morboso, ma di una disabilità, della quale il datore di lavoro può o meno essere consapevole. Tale provvedimento è, secondo la giurisprudenza maggioritaria, illegittimo allorquando esso sia ricollegabile a una discriminazione indiretta verso il dipendente coinvolto a opera del datore. Ma quando risulta integrata, effettivamente, tale discriminazione? Cosa è chiamato a fare il datore per evitare di incorrere in una tale responsabilità? Diverse pronunce si sono interrogate sul tema nel corso degli ultimi anni; di seguito la nostra analisi dell’argomento, anche alla luce di tali decisioni giurisprudenziali.

Un caso particolare di licenziamento per superamento del periodo di comporto riguarda l’eventualità in cui il lavoratore sia rimasto assente dal lavoro per un periodo di tempo prolungato a causa non già di uno stato morboso, ma di una disabilità, della quale il datore di lavoro può o meno essere consapevole. Tale provvedimento è, secondo la giurisprudenza maggioritaria, illegittimo allorquando esso sia ricollegabile a una discriminazione indiretta verso il dipendente coinvolto a opera del datore. Ma quando risulta integrata, effettivamente, tale discriminazione? Cosa è chiamato a fare il datore per evitare di incorrere in una tale responsabilità? Diverse pronunce si sono interrogate sul tema nel corso degli ultimi anni; di seguito la nostra analisi dell’argomento, anche alla luce di tali decisioni giurisprudenziali.

Il quadro normativo

Il periodo di comporto – il lasso di tempo, cioè, durante il quale il lavoratore assente a causa di uno stato di malattia certificato ha il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro – è un istituto che trova il suo fondamento giuridico nell'art. 2110, comma 2, c.c. La durata di detto periodo, tuttavia, non è definita in tale previsione normativa, essendo rimessa alle disposizioni del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro. Diversamente, in assenza di specificazione, esso è determinato secondo gli usi ovvero dal giudice, secondo equità.

Il CCNL di riferimento può prevedere un periodo di comporto c.d. “secco” (i.e., relativo a un ininterrotto periodo di malattia, connesso ad un unico stato morboso) o c.d. “per sommatoria”, equivalente alla somma del numero massimo di giorni non consecutivi di cui il lavoratore può usufruire, a titolo di comporto, a più riprese, nel corso di un determinato lasso di tempo.

Una volta esaurito il periodo di comporto, qualora l'assenza del lavoratore perpetui oltre la durata prevista e non sia dovuta a malattie c.d. “professionali” (i.e., quelle causate proprio dalla natura dell'attività oggetto del rapporto di lavoro), il datore di lavoro può recedere dal rapporto senza necessità di dimostrare l'esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo: invero, il diritto alla conservazione del posto di lavoro, costituzionalmente garantito, non implica che il relativo rapporto debba proseguire senza limiti se, dall'altro lato, vi è un lavoratore impossibilitato a svolgere la sua prestazione per un lasso di tempo indefinito, considerati gli oneri che ne deriverebbero al datore di lavoro sia sotto il profilo patrimoniale, […] sia sotto quello dell'organizzazione aziendale(Cass. civ., sez. lav., 27 giugno 1996, n. 5927).

In generale, il datore di lavoro che intenda procedere al licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto è tenuto a rispettare il principio di tempestività nell'adozione del provvedimento espulsivo (Cass. civ. sez. lav., 11 settembre 2020, n. 18960). È ammissibile, tuttavia, un periodo, definito “spatium deliberandi”, utile al datore di lavoro per valutare se il dipendente, dopo il lungo periodo di assenza, possa comunque continuare a prestare la propria attività in modo compatibile con gli interessi dell'azienda.

Il periodo di comporto dei lavoratori con disabilità

La disciplina relativa al periodo di comporto, come sopra delineata, si applica in modo uniforme a tutti i lavoratori. Alcune recenti pronunce, tuttavia, hanno evidenziato il carattere indirettamente discriminatorio nei confronti di dipendenti con disabilità accertate dell'adozione per gli stessi del medesimo periodo di comporto riconosciuto ai lavoratori che non si trovino in tali condizioni. Ciò ha aperto a un ampio dibattito, all'interno del quale si discute se provvedimenti di questo tipo rispettino o meno, inter alia, il dettato costituzionale relativo al principio di uguaglianza sostanziale.

In ambito giuslavoristico europeo, la nozione di discriminazione indiretta del dipendente afflitto da disabilità è contenuta nell'art. 2, lett. b), della Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, secondo cui integra una discriminazione indiretta la disposizione, il criterio o la prassi, apparentemente neutri, capaci, tuttavia, di porre le persone disabili in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori non disabili.

Alla luce della previsione ora citata, è necessario chiedersi se possa considerarsi indirettamente discriminatoria la previsione contrattuale che individui un identico periodo di comporto per lavoratori disabili e non disabili, senza tener conto della peculiare condizione di maggiore fragilità dei primi.

Va, infatti, osservato che i lavoratori affetti da disabilità si trovano, per definizione, esposti a un rischio più elevato di contrarre patologie di varia natura, direttamente o indirettamente connesse alla loro disabilità, e quindi soggetti, con maggiore frequenza, a periodi di assenza per malattia dovuti proprio alla patologia cronica della quale sono affetti. L'assoggettamento di tali lavoratori a un identico periodo massimo di comporto previsto per i colleghi non disabili rischia, pertanto, di tradursi in una disparità di trattamento sostanziale e di integrare, in tal modo, un caso di discriminazione indiretta.

Al fine di evitare che si ricada nella fattispecie sopra delineata, e di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento, nell'ambito dei rapporti di lavoro, nei confronti delle persone con disabilità, la Direttiva 2000/78/CE, all'art. 5, richiede che il datore di lavoro adotti dei “provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze e delle situazioni concrete”. Tale previsione è stata recepita anche nella disciplina italiana, laddove l'art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216 del 2003 impone al datore di implementare degli accomodamenti ragionevolinei luoghi di lavoro, che si concretizzino in una serie di adattamenti o modifiche – organizzative, strutturali o procedurali – calibrati in relazione alle esigenze specifiche della disabilità riportata, a condizione che gli stessi non rappresentino un onere finanziario sproporzionato.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che l'obbligo di adottare misure ragionevoli non può imporre sacrifici insostenibili all'organizzazione datoriale. In particolare, è stato affermato che dette misure devono essere proporzionate alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa (si veda Cass. civ., 29 dicembre 2019, n. 34132), nonché compatibili con l'equilibrio economico-finanziario della stessa (Cass. civ., 23 gennaio 2021, n. 4896; Cass. Civile, 26 ottobre 2018 n. 27243), e – laddove ciò sia possibile – il datore di lavoro è tenuto a predisporle al fine di tutelare il diritto costituzionalmente garantito all'inclusione lavorativa delle persone con disabilità.

Aspetti rilevanti in tema di licenziamento per superamento del comporto del lavoratore disabile

Alcune recenti pronunce, sia delle corti territoriali, sia di legittimità, hanno affrontato il tema oggetto della presente trattazione, prendendo, altresì, in considerazione, altri aspetti a esso legati, compresi gli elementi della potenziale responsabilità oggettiva del datore di lavoro o della discriminazione indiretta di eventuali condotte di quest'ultimo che non consentano al dipendente disabile l'esecuzione della propria attività, nonostante la propria condizione.

Un tema di particolare interesse, affrontato più di una volta dal Tribunale di Pavia (ordinanza dell'8 marzo 2022 e del 31 ottobre 2020) – nonostante le pronunce si siano, poi, concentrate su altri argomenti – è quello dell'effettiva conoscenza, da parte del datore di lavoro, della condizione di disabilità ai fini dell'integrazione della fattispecie discriminatoria rispetto al licenziamento comminato. Nella specie, il datore di lavoro aveva provato di non essere a conoscenza del disturbo psichico del lavoratore e, pertanto, l'applicazione della disciplina ordinaria sul comporto non poteva considerarsi discriminatoria, mancando l'elemento soggettivo della consapevolezza datoriale.

Il citato Tribunale ha condiviso l'orientamento giurisprudenziale di merito secondo il quale la disapplicazione del periodo di comporto nei confronti di soggetti disabili per i giorni di malattia connessi allo stato morboso possa costituire una forma di accomodamento ragionevole richiesto per evitare una discriminazione indiretta. Tuttavia, ha ritenuto che, nella fattispecie concreta, l'inadempimento di tale obbligo da parte della società non fosse censurabile, in quanto risultava provata l'inconsapevolezza del datore di lavoro rispetto alla condizione di disabilità del dipendente.

In altre parole, è stato chiarito che l'obbligo di predisporre l'accomodamento ragionevole implica necessariamente la consapevolezza, in capo al datore, della condizione soggettiva del lavoratore, la cui assenza esclude la responsabilità datoriale. Tale impostazione consente di evitare una trasformazione dell'obbligo di non discriminare in una forma di responsabilità oggettiva, che comporta l'illegittimità del licenziamento comminato in qualunque caso, anche laddove il datore non avesse informazioni sufficienti a evitare un tale epilogo.

Su questi temi si è – ormai pacificamente – espressa anche la Corte di Cassazione, che, anche recentemente, ha ribadito (cfr., da ultimo, Cass. n. 170/2025, che richiama giurisprudenza ulteriore, quale Cass. n. 9095 del 2023 e successivamente ribadita e precisata, oltre che da Cass. n. 11731/2024, da Cass. n. 14316/2024 e Cass. 14402/2024; confermate poi da Cass. n. 15282/2024 e Cass. n. 157/2024 Cass. n. 23/2024 e, ancor più di recente, da Cass. n. 24052/2024 e Cass. n. 30095/2024) che integra una discriminazione indiretta l'applicazione dell'ordinario periodo di comporto previsto per il lavoratore non disabile al lavoratore che si trovi in condizione di disabilità secondo il diritto dell'Unione, come menzionato supra.

Ciò, in quanto “la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza   della   disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo dello stesso periodo di comporto in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione particolare svantaggio”.

Per quanto riguarda la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore – o la possibilità di conoscerlo secondo l'ordinaria diligenza – da parte del datore di lavoro, è quest'ultimo a doversi far carico, posta la necessaria collaborazione del proprio dipendente, di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l'eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, così da stabilire l'eventuale necessità di accomodamenti volti a supportare il lavoratore nell'esecuzione delle proprie attività, ed evitare il provvedimento espulsivo.

Uno spunto interessante offerto da queste pronunce riguarda l'esigenza che la contrattazione collettiva, in modo esplicito, disciplini la questione del comporto per i lavoratori disabili avendo riguardo alla condizione soggettiva, stante l'evidente difficoltà del datore di lavoro – posto anche il diritto alla riservatezza del lavoratore – di conoscere effettivamente lo stato patologico di quest'ultimo.

Considerazioni conclusive: analisi dell’orientamento giurisprudenziale e suggerimenti pratici per il datore

Alla luce dell’analisi giurisprudenziali effettuata, appare chiaro che, nell’ambito dei licenziamenti comminati per superamento del periodo di comporto del dipendente con disabilità, il datore di lavoro sia chiamato a un’ulteriore analisi prima di procedere con tale provvedimento, volto a escludere la possibilità che quest’ultimo possa integrare un atto di discriminazione indiretta.

In particolare, non si può non sottolineare come tali condotte possano, invero, generare effetti discriminatori ove non accompagnate da un’attenta valutazione delle condizioni del lavoratore, onerando il datore del dovere di accertarsi, prima di provvedere alla cessazione del rapporto, di aver fatto tutto quanto possibile per essere certo che l’assenza prolungata del proprio dipendente non fosse causata da una disabilità.

Appare complesso, in questo senso, definire quali siano gli accorgimenti che il datore possa eseguire per essere certo dell’assenza di una disabilità. Esclusa, infatti, la responsabilità oggettiva del datore dinanzi alla sua inconsapevolezza, il vero elemento da dibattere, a parere di chi scrive, dovrebbe riguardare le condotte pratiche che il datore di lavoro sia chiamato a eseguire al fine di confermare che questi abbia fatto quanto possibile per assicurarsi l’assenza di una disabilità in capo al lavoratore.

Ebbene, anche in relazione alle pronunce analizzate, sembrerebbe che ciò non possa escludere la necessaria collaborazione del lavoratore coinvolto.

Infatti, nei casi nei quali il dipendente non scelga di confermare espressamente la natura della propria patologia, così confermando che si tratti di una vera e propria disabilità, non sarebbe logicamente possibile per il datore di lavoro comportarsi di conseguenza e supportare il lavoratore nell’esecuzione delle proprie attività, posta l’ignoranza della problematica stessa.

Diversamente, il datore di lavoro non avrebbe modo di venire a conoscenza di tale condizione, stante la riservatezza dei certificati medici – che non riportano i motivi dell’eventuale assenza – oltre all’assenza di un obbligo di comunicazione da parte del dipendente coinvolto.

Nel caso in cui, nonostante tale inconsapevolezza, il datore fosse comunque considerato responsabile del mancato accomodamento nei confronti del dipendente disabile, si configurerebbe una responsabilità di carattere oggettivo. Tuttavia, come detto, non vi sono previsioni legislative che regolino espressamente in tal senso la responsabilità datoriale, né, stante il carattere eccezionale della responsabilità oggettiva, è ipotizzabile un’interpretazione estensiva di altre prescrizioni di legge (come, per esempio, quelle relative allo stato di gravidanza delle lavoratrici e il connesso impedimento al licenziamento, anche laddove la stessa madre non sia ancora a conoscenza del proprio stato) al caso di specie. 

Da quanto precede si ricavano delle rilevanti considerazioni in tema di onere probatorio che graverà sul lavoratore disabile: per ottenere il riconoscimento della discriminazione indiretta, è sufficiente che quest’ultimo dimostri lo stato di disabilità e la conoscenza (o conoscibilità) della stessa da parte del datore. Fornite tali prove, in assenza di accomodamenti, opera una presunzione di discriminazione indiretta, che rende illegittimo il licenziamento.

In tali casi, l’unico modo per evitare la propria responsabilità e, dunque, confermare la legittimità del licenziamento, sarebbe quella, per il datore di lavoro, di dimostrare che la mancata adozione degli accomodamenti ragionevoli sia dipesa da una causa a questi non imputabile.

In altre parole, si aggiunge un ulteriore tassello di complessità per il datore di lavoro che, oltre a non aver fatto quanto necessario al fine di prendere conoscenza dello stato di disabilità del proprio dipendente – laddove avrebbe potuto – è automaticamente responsabile dell’assenza di accomodamenti volti a eliminare le conseguenze dello stesso sulla vita lavorativa di quest’ultimo.

Si tratta, come è evidente, di un necessario corollario di quanto esaminato supra che, inevitabilmente, aggrava la posizione processuale del datore che non abbia approfondito le proprie conoscenze sulla condizione patologica del lavoratore.

Queste previsioni rendono chiaro il supporto che il legislatore ha voluto riconoscere al dipendente affetto da disabilità, ponendo a carico del datore che intenda risolvere il rapporto per superamento del periodo di comporto degli oneri accessori in termini di dovuta diligenza, prima, e di carattere probatorio, poi.

Appare auspicabile l’intervento del legislatore in materia che, pur tutelando il diritto alla riservatezza del dipendente, imponga un onere di comunicazione dello stato di disabilità al datore, così da delimitare nettamente l’obbligo all’adozione degli adeguamenti necessari e la relativa responsabilità datoriale al riguardo.

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