Acquisizione di screenshot da parte della P.G.: il consenso del proprietario del device non è sufficiente

Cesare Parodi
31 Gennaio 2025

La sentenza in esame afferma con chiarezza che l'accesso alle chat e ai documenti contenuti negli smartphone, non può più avvenire liberamente, nemmeno con il consenso dell'indagato, per il solo fatto che vi è un'indagine in corso. 

Massima

Le chat di whastapp presenti su un telefono cellulare non possono essere direttamente acquisite dalla P.G. – a mezzo di screenshot – anche a fronte del consenso del titolare del device, trattandosi di comunicazioni, la cui acquisizione può avvenire solo sulla base di un provvedimento di sequestro dell'a.g., attesa la rilevanza assunta, in questo contesto, dall'art. 15 Cost.

Il caso

Il principio sopra riportato è contenuto in una decisione della S.C. che ha, per altro, rigettato il ricorso presentato dalla difesa. L'imputato, condannato per il delitto di cui all'art. 81 cpv. 73 comma 5 d.p.r. n. 309/1990, proponeva ricorso lamentando – tra l'altro – che a fondamento della decisione vi sarebbero stati anche delle fotografie (c.d. screenshot) delle chat whatsapp estratte dal proprio telefono cellulare ed acquisite con modalità illegittime nel corso della perquisizione e del conseguente sequestro di sostanza stupefacente; screenshot ai quali la P.G. aveva accesso previa comunicazione da parte del ricorrente del codice di accesso al device – avvenuta  in assenza dell'avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore, oltre che del diritto di non prestare il consenso a tale accesso. Nella sentenza di condanna il giudice aveva ritenuto utilizzabili i fotogrammi delle chat estratte dal telefono dell'imputato, sebbene non ritualmente avvisato del diritto ad essere assistito da un difensore, ma non avrebbe considerato che – alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della C. cost. n. 170/2023- la natura di corrispondenza dei messaggi in oggetto (anche se già letti dal destinatario) con conseguente applicazione dell'art. 254 c.p.p. La difesa rilevava, pertanto la inutilizzabilità c.d. patologica dei messaggi, in quanto assunti in violazione dei diritti di difesa e la decisività di tali elementi di prova per l'accertamento della destinazione allo spaccio della sostanza stupefacente sequestrata, chiedendo l'annullamento della condanna.

La questione

La S.C. ha rigettato il ricorso, pure ritenendo fondate – come vedremo – le questioni di inutilizzabilità delle "chat" estrapolate dal contenuto del telefono in possesso dell'imputato in assenza di sequestro, sottolineando la genericità delle altre censure volte a dimostrare la decisività di tali risultanze ai fini dell'accertamento della responsabilità, applicando lo schema logico della c.d. prova di resistenza. In sostanza, la S.C. ha ritenuto che gli altri elementi di prova fossero assolutamente sufficienti a fondare il giudizio di condanna e così ritenendo non decisivo, ai fini del giudizio di responsabilità, l'elemento di prova ritenuto fondatamente inutilizzabile, costituito dalle chat estratte dal telefono cellulare dell'imputato.

Il giudizio di inutilizzabilità espresso per tali chat – estrapolate dall'archivio del telefono cellulare senza che ne venisse disposto il sequestro – deriva direttamente dal principio avente ad oggetto le garanzie di salvaguardia del diritto alla riservatezza dei dati archiviati nella memoria di un telefono cellulare, puntualizzato dalla sentenza della C. cost. n. 170/2023. Tale decisione, come è noto, ha riconosciuto la natura di corrispondenza anche alle comunicazioni non più in itinere ma acquisite dopo la loro ricezione da parte del destinatario. Per la S.C. la garanzia di cui all'art. 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria» si estende «a ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici» e rimane valida «finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento "storico", cui può attribuirsi un valore retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio».

Conseguentemente «anche la messaggistica archiviata nei telefoni cellulari non può più essere considerata alla stregua di un mero documento, liberamente acquisibile senza la garanzia costituzionale prevista dall'art. 15 Cost., ma richiede l'assoggettamento alla disciplina dell'art. 254 c.p.p. che impone la necessità di un provvedimento dell'autorità giudiziaria, necessariamente motivato al fine di giustificare il sacrificio della segretezza della corrispondenza, senza la possibilità di accesso diretto da parte della Polizia Giudiziaria, che ha solo il potere di acquisire materialmente il disposavo elettronico ma senza accesso diretto al suo contenuto, analogamente a quanto previsto per l'invio della corrispondenza postale dall'art. 254, comma 2, c.p.p., e fermo quanto disposto dall'art. 353 c.p.p. sull'apertura dei plichi o di corrispondenza con l'autorizzazione del pubblico ministero quando ciò sia necessario per l'assicurazione elementi di prova che potrebbero andare persi a causa del ritardo».

L'interesse del caso concreto è dato dal fatto che il soggetto al quale la p.g. ha inoltrato la richiesta  di comunicare la password per l'accesso al contenuto dello smartphone era già gravato di significativi elementi indiziari (quali il possesso di stupefacenti occultati che avrebbe dovuto imporre il riconoscimento della qualità di indagato, con conseguenti avvisi di tutte le facoltà difensive ad essa spettanti, ivi compresa quella della facoltà di rifiutare tale collaborazione ed il diritto ad essere assistito da un difensore, espressamente previsto dal combinato disposto degli artt. 356 c.p.p. e 114 disp. att. c.p.p. non solo per le perquisizioni e sequestri (artt. 352 e 354 c.p.p.), ma anche per l'apertura della corrispondenza (ex art. 353 c.p.p.).

Le soluzioni giuridiche

In sostanza, emerge un quadro nel quale il consenso che si assume essere stato prestato liberamente dall'indagato non avrebbe potuto supplire alla carenza di un provvedimento emesso dall'autorità giudiziaria, di autorizzazione preventiva o di convalida successiva dell'atto di indagine posto in essere, invece, in totale autonomia dalla polizia giudiziaria. 

Non solo: rileva la sentenza che già il Giudice di primo grado aveva escluso la possibilità di qualificare come spontanee le dichiarazioni confessorie rese dall'indagato nel medesimo contesto, facendo corretta applicazione del principio di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui le dichiarazioni che tale persona abbia reso su "sollecitazione" della polizia giudiziaria nell'immediatezza dei fatti in assenza di difensore non sono in alcun modo utilizzabili, neanche a suo favore, se non per la prosecuzione delle indagini (Cass. pen., sez. II, 12 gennaio 2017, n. 3930 Rv. 269206).

Secondo la S.C., inoltre «anche se il consenso fosse stato reso dalla persona indagata su sollecitazione della polizia giudiziaria, e pur dopo l'avviso della facoltà di essere assistito da un difensore, resta imprescindibile, onde prevenire il rischio di abusi, che in situazioni del genere la polizia giudiziaria abbia il dovere di procedere al sequestro del telefono senza poter accedere al suo contenuto, prima di una formale autorizzazione da parte del pubblico ministero, in applicazione della disciplina processuale sopra richiamata relativa all'apertura della corrispondenza (vedi art. 353 c.p.p.)».

In questo senso l'acquisizione dei contenuti delle chat – posta in essere sulla base di un rilievo fotografico operato dalla stessa polizia giudiziaria (c.d. screenshot) delle chat whatsapp, senza un provvedimento di sequestro di competenza dell'autorità giudiziaria – non potrebbe essere considerata quale legittima assunzione di una prova atipica. Ciò in quanto «non è consentito alla polizia giudiziaria, in un sistema rigorosamente ispirato al principio di legalità, scostarsi dalle previsioni legislative per compiere atti atipici i quali, permettendo di conseguire risultati identici o analoghi a quelli conseguibili con gli atti tipici, eludano tuttavia le garanzie costituzionali dettate dalla legge per questi ultimi».

Osservazioni

La decisione in oggetto esprime, una volta di più, la centralità che la tutela della riservatezza delle comunicazioni ha assunto nel sistema. La sentenza n. 170/2023 del Corte costituzionale rappresenta un punto di non ritorno. La sentenza in commento afferma con chiarezza che l'accesso alle chat e ai documenti contenuti negli smartphone, non può più avvenire liberamente, nemmeno con il consenso dell'indagato, per il solo fatto che vi è un'indagine in corso. Il telefono cellulare è un “pezzo” di vita del titolare che giustifica una tutela di elevato profilo, che impone una acquisizione solo a fronte di un provvedimento motivato da parte dell'Autorità giudiziaria. Tutte le comunicazioni, comprese le chat, rientrano, pertanto nella copertura costituzionale dell'art. 15 Cost. che «tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, consentendone la limitazione soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria si estende a ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini educativi, compresi quelli elettronici e informatici e rimane valida finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in documento storico, cui può attribuirsi un valore retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio». In questo senso «Il concetto di “corrispondenza” è ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza; in linea generale, pertanto, lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, comma 3, Cost.».

Resta da comprendere un aspetto, del quale la decisione non si è – ovviamente – occupata. Nel caso, tutt'altro che infrequente, nel quale gli screenshot siano acquisiti dal telefono di una persona offesa o di un terzo, poniamo, dalla stessa indicata, quali requisiti formali dovranno essere osservati per poter ipotizzare una “piena” utilizzabilità? Non dimentichiamo che sul telefono della p.o. potranno essere individuati i messaggi inviati dall'autore del reato. È sufficiente, in questi casi, il consenso del titolare del device, ferma restando di verificare autenticità, integrità e riferibilità dei messaggi al soggetto che apparentemente ne risulta autore?

Non mancheranno i dubbi al riguardo, ma allo stato e in attesa dell'approvazione del d.l. n. 806/2023 (che rappresenta, specie nella sua più recente versione, un vero punto di svolta in relazione alla ripartizione delle competenze in materia di sequestro e perquisizioni informatiche: sul tema v. C. Parodi: Signori, si cambia: la nuova disciplina sul sequestro di p.c. e device, in IUS Penale, 13 Marzo 2024) è ragionevole pensare che il consenso del titolare del device possa giustificare una acquisizione diretta da parte della P.G., da attestare a verbale, trattandosi di file – certo, di contenuto comunicativo – nella diretta disponibilità del titolare del cellulare. Nondimeno, senza ombra di dubbio, ci sarà da discutere anche su questo.  

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