Osservazioni e commenti. Dubbi interpretativi, incoerenze normative e conseguenze
La formulazione della norma del Collegato Lavoro 2024, che introduce indicazioni circa le limitazioni di durata del periodo di prova nei contratti di lavoro a tempo indeterminato, presenta alcune incoerenze normative ed alcuni dubbi interpretativi che può creare difficoltà applicative e rischi legali di gestione anche in considerazione della conseguenze derivanti dall'erronea previsione e dal mancato rispetto del periodo di prova pattuito nei contratti individuali di lavoro.
Un primo nodo interpretativo riguarda l'applicazione dei limiti di durata del periodo di prova e, in particolare, le differenze tra calcolo proporzionale e limiti massimi contenuti nella norma. In relazione a un contratto di durata pari a 6 mesi, il calcolo proporzionale fornirebbe un periodo massimo di prova di 12 giorni (1 giorno ogni 15 giorni), mentre il limite massimo normativamente stabilito è di 15 giorni. Tale discrepanza occorre anche in relazione ai contratti di durata fino a 12 mesi, per i quali il calcolo proporzionale produrrebbe un risultato di 24 giorni rispetto ai 30 previsti come limite massimo. Senza considerare che, in relazione a questi ultimi, la norma (diversamente dai contratti “aventi durata non superiore a sei mesi”), si riferisce testualmente ai contratti a termine “aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”e, quindi, si potrebbe sostenere che la limitazione valga solo in relazione ai contratti a termine di durata fino a 11 mesi e 364 giorni (o 365 in caso di anno bisestile).
Il calcolo in questione potrebbe poi presentare ulteriori variazioni laddove si seguissero le indicazioni fornite dalla giurisprudenza per il calcolo del periodo di comporto. Secondo tale orientamento, il periodo determinato in mesi deve essere computato, salvo diversa volontà delle parti sociali, non in base a un criterio convenzionale fisso costituito da un predeterminato numero di giorni (es. trenta), ma secondo il calendario comune in base all'effettiva consistenza degli stessi, per il principio desumibile dall'art. 2963, comma 4, c.c. e dall'art. 155, comma 2, c.c. (Cass. 9751/2019).
Inoltre, la norma non fornisce criteri specifici per determinare i limiti di durata del periodo di prova in relazione ai contratti a termine di durata superiore a 12 mesi (rectius 11 mesi e 364 giorni), creando incertezza per determinate categorie professionali, come i dirigenti, per i quali sono possibili contratti fino a cinque anni (cfr. art. 29, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 81/2015).
Un secondo nodo normativo riguarda la possibilità di prevedere diversi limiti di durata del periodo di prova da parte della contrattazione collettiva con la condizione, però, che si tatti di limiti più favorevoli (testualmente “Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva”).
Tale nodo pone una prima questione circa la fonte contrattuale abilitata alla deroga: nulla specifica l'art. 13 del Collegato Lavoro e il Decreto Trasparenza rinvia alla contrattazione collettiva maggioritaria (contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria ex art. 51, D.Lgs. n. 81/2015, ma in relazione ai meccanismi di risoluzione rapida e diritto di ricorso trattati dall'art. 12).
Una seconda questione è rappresentata dall'interpretazione del concetto di “disposizioni più favorevoli”. Dando per assunto, anche in considerazione dei considerando 27 e 28 della Direttiva (UE) 2019/1152 sopra esaminate, che il canone interpretativo da preferire sia quello del favor praestatoris, la disposizione rimane comunque ambigua. Il predetto canone, infatti, impone di favorire quell'interpretazione che accorda una maggiore tutela al lavoratore in quanto contraente più debole del rapporto di lavoro. Ciò considerato, risponde maggiormente all'interesse del lavoratore un periodo di prova più breve che favorisca una stabilizzazione più rapida del rapporto, o un periodo di prova più lungo che possa offrire opportunità di migliore valutazione della prestazione e che possa scongiurare decisioni affrettate del datore di lavoro circa la non convenienza della conferma del lavoratore?
La giurisprudenza che si è espressa in tema di derogabilità, nel contratto individuale di lavoro, del periodo di prova rispetto ai limiti previsti dalla contrattazione collettiva non aiuta a rispondere con un sufficiente grado di certezza all'interrogativo.
Le decisioni di legittimità che si sono pronunciate sul tema, infatti, hanno avuto modo di affermare che la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto – fermo restando il limite di sei mesi di cui all'art. 10 della legge n. 604 del 1966 – può ritenersi legittima nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l'affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell'interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi (Cass. 8295/2000).
Ancora più precisamente, la Suprema Corte ha ritenuto che la clausola acclusa al contratto recante un periodo di prova maggiore rispetto a quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore è da ritenersi sfavorevole per il lavoratore e, come tale, deve essere sostituita di diritto ai sensi dell'art. 2077, comma 2, c.c., ma laddove il datore di lavoro non abbia dimostrato le ragioni a sostegno della maggiore durata del patto di prova rispetto a quella prevista dal CCNL di riferimento (Cass. 9789/2020).
Nemmeno i provvedimenti amministrativi sull'argomento ad oggi intervenuti (nota INL 9740 del 30.12.2024 che annuncia però un ulteriore prossimo intervento ministeriale) sembrano contribuire a risolvere le sopra esposte questioni.
Sulla base dell'attuale (acerbo) contesto normativo, non è dunque possibile escludere che, in determinate situazioni, il lavoratore in prova assunto a termine abbia un interesse a definire una durata del periodo di prova in misura maggiore rispetto ai limiti normativi. Si pensi, ad esempio, ai rapporti di lavoro a termine con prestatori in possesso di particolari qualifiche, abilità o assunti per lo svolgimento di mansioni non presenti in azienda, peraltro nell'ambito di esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che, in aderenza all'art. 19 D.Lgs. 81/2015, dovrebbero essere riconducibili a situazioni (attività, progetti, fasi di lavoro) temporanee e/o non tipiche del contesto organizzativo aziendale di riferimento.
La soluzione delle questioni che la nuova normativa in tema di ragionevole durata del periodo di prova pone ha una rilevanza diretta ai fini della certezza dei rapporti contrattuali di lavoro a termine e incide sulle conseguenze e tutele in caso di recesso datoriale durante il periodo previsto da un valido patto di prova (sotto il profilo obbligatorio e risarcitorio).
Il recesso esercitato dal datore di lavoro nel corso o al termine del periodo di prova è, infatti, libero ed ha natura discrezionale (art. 2096 c.c.), ma può essere contestato dal lavoratore, tra le altre ipotesi, quando risulti che non sia stata consentita, per la inadeguatezza della durata dell'esperimento, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato (cfr. Cass. 2228/1999).
In tale situazione, come è noto, a fronte dell'illegittimità del licenziamento per mancato superamento di una prova di durata irragionevolmente breve, il lavoratore potrà chiedere (e ottenere), laddove la prosecuzione della prova non sia più possibile, il risarcimento del danno secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza (cfr. Cass. 21965/2010 che qualifica il danno risarcibile come “pregiudizio di mancata assunzione”, utilizzando come parametro di riferimento per la sua quantificazione le “retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito ove il rapporto di lavoro avesse avuto regolare esecuzione”, senza però precisare l'arco temporale di riferimento da tenere in considerazione per la liquidazione del danno).