Sulla legittimità costituzionale dell’acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis

Giuseppe Spadaro
13 Gennaio 2025

Il Tribunale di Bologna, sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, legge 5 febbraio 1992, n. 91, nella parte in cui non preveda alcun limite in merito all’acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis da parte di cittadini residenti all’estero, ritenuto dal giudice a quo contrastante con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 117 Costituzione.

Massima

Non è irragionevole né manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 1, legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis da parte del cittadino straniero nato e residente all'estero, in considerazione degli articoli 1, secondo comma, 3 e 117 della Carta costituzionale, tenuti in considerazione i concetti di cittadinanza, popolo e sovranità fatti propri dalla Costituzione e gli obblighi derivanti dall'ordinamento internazionale, cui il nostro Paese è tenuto a conformarsi.

Il caso

Per mezzo del loro legale, dodici cittadini brasiliani, nati e residenti nel Paese sudamericano, adivano l’Autorità Giudiziaria del capoluogo felsineo affinché accertasse la loro cittadinanza italiana iure sanguinis e ordinasse all’Ufficiale di stato civile del Comune di Marzabotto (BO), ente competente, di procedere alle dovute annotazioni e trascrizioni nei registri del menzionato comune. I ricorrenti, a sostegno della loro richiesta, evidenziavano la loro diretta discendenza da cittadina italiana, nata proprio nel Comune emiliano il 27 aprile 1874 ed emigrata in Brasile, vivendoci sino alla morte.

Tutti i ricorrenti, fra cui alcuni minori, si dichiaravano pertanto nipoti o pronipoti della cittadina italiana ma, oltre a questo pur rilevante aspetto, non adducevano ulteriori legami con lo Stato italiano: non risultava infatti che qualcuno di loro avesse mai soggiornato nel Paese, nemmeno per brevi periodi, né che avesse in progetto di recarvisi in futuro. A quanto risulta dall’avvenuta istruttoria, essi non conoscerebbero nemmeno la lingua e la cultura italiana.

Il Tribunale adito, a valle dell’istruttoria e ritenuti sussistenti i requisiti della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, sollevava dunque questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 Legge Cittadinanza per presunta incostituzionalità rispetto ai parametri di cui agli artt. 1, 3 e 117 della Carta costituzionale, sospendendo conseguentemente il giudizio in attesa del pronunciamento del Giudice delle leggi.

La questione

La questione in esame è la seguente: la disposizione di cui all'art. 1, legge 5 febbraio 1992, n. 91 («Nuove norme sulla cittadinanza»), disponendo che è cittadino italiano chi sia figlio di padre o di madre cittadini, senza prevedere alcun limite temporale o di altra natura al riconoscimento della cittadinanza per discendenza (o iure sanguinis), è costituzionalmente legittima ai sensi degli artt. 1,3 e 117 Cost., tenuto conto delle nozioni di «cittadinanza» e «popolo» desunti dall'ordito costituzionale così come dei principi derivanti dall'ordinamento sovranazionale (spc. art. 9 T.U.E. e 20 T.F.U.E.)?

Le soluzioni giuridiche

Per sua natura, la pronuncia in commento non giunge ad una definizione del problema, ma si limita ad avanzare una proposta di risoluzione delle problematiche ravvisate in punto di legittimità costituzionale.

Il Tribunale di Bologna sottopone alla Corte costituzionale la disposizione di cui all'art. 1, legge n. 91/1992, relativa all'acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis, poiché ritenuta in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3 e 117 della Costituzione. Quanto alla prima delle norme indicate, come si vedrà più approfonditamente infra, viene rilevata una presunta alterazione della concezione di «popolo», base e presupposto del concetto di «sovranità» costituzionale, in ragione delle possibili storture in punto di partecipazione alla politica nazionale. Quanto, poi, al principio di uguaglianza, il Giudice di merito rileva ingiustificate difformità sia nel rapporto fra acquisto della cittadinanza iure sanguinis e modi d'acquisto alternativi, sia fra cittadini italiani nati in Italia e cittadini italiani per mera discendenza (in particolare viene posto l'accento sui profili fiscali). Quanto, infine, all'ultimo fra i parametri di costituzionalità individuati, il Giudice a quo pone l'accento sul principio di effettività della cittadinanza, sancito e ampiamente ribadito dall'ordinamento internazionale, il quale suggerirebbe un rapporto genuino ed effettivo fra singolo e collettività statale e non si limiterebbe alla mera dimensione formalistico-legalista.

Anche alla luce della giurisprudenza di recente espressasi su questi temi (Cass. civ., sez. un., 24 agosto 2022, n. 25317) – che, fra il resto, aveva affermato che «casi di perdita della cittadinanza discendenti dal venire meno di criteri di collegamento tra la persona e lo Stato […] sono al giorno d'oggi teoricamente ammissibili, e forse rispondenti a un significato più completo della cittadinanza come tale, incentrato su una trama di rapporti concreti tra una persona e una comunità» – il Giudice rimettente propone, come risoluzione dei problemi sollevati, una soluzione di compromesso (un «ragionevole punto di equilibrio», come definito al § 12 dell'ordinanza), diretta ad assicurare – nel rispetto degli articoli costituzionali menzionati – una certa effettività del legame fra il cittadino straniero e l'Italia: il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis entro il limite di due generazioni, salva la prova che uno degli ascendenti o la persona interessata abbia vissuto in Italia per almeno due anni.

Osservazioni

La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Bologna involge diversi piani sino a concernere uno fra i principi cardine – o forse il principio cardine – dell'ordinamento italiano quale, nientemeno, la sovranità popolare di cui all'art. 1 della Carta.

Rilevando come l'Italia rappresenti «uno dei rarissimi casi di riconoscimento del legame di sangue senza limiti generazionali» (§ 7 dell'ordinanza) e di come, per converso, tutti gli altri criteri di ottenimento della cittadinanza da parte dello straniero – ius soli, ius communicatio e per benefici di legge – siano invece soggetti a plurimi vincoli, rappresentando peraltro ipotesi eccezionali o comunque estremamente minoritarie di acquisto dello status di cittadino, il Giudice a quo si interroga sulla tenuta costituzionale dell'art. 1 Legge Cittadinanza, relativamente a diversi parametri costituzionali.

In primis viene in rilievo, come già anticipato, la disposizione di apertura della Costituzione, con i suoi riferimenti alle nozioni giuspubblicistiche, per verità non definite dalla Carta, ma non per questo prive di rilevanza costituzionale, di «cittadinanza», «popolo» e «sovranità».

Il Giudice a quo evidenzia infatti come il riconoscimento della cittadinanza italiana alle decine di milioni di potenziali cittadini italiani nel mondo – che, pur in attesa di riconoscimento, sono privi di un qualsiasi collegamento con l'Italia – possa costituire un'inammissibile alterazione della stessa nozione di popolo su cui si fonda l'ordinamento costituzionale (§ 9), soprattutto in considerazione del complesso di diritti politici che derivano proprio dall'acquisto della cittadinanza, che è prerequisito fondamentale dell'appartenenza al popolo stesso: sarebbe evidente, come si legge nell'ordinanza, che l'acquisto indiscriminato della cittadinanza da parte di soggetti che non hanno mai avuto (e probabilmente mai avranno) rapporti con lo Stato italiano può influenzare il funzionamento dei meccanismi istituzionali al punto di distorcere i meccanismi elettorali e compromettere la capacità del singolo cittadino di concorrere alla determinazione della politica nazionale, minando le fondamenta del principio di sovranità per come pensato e strutturato dai Costituenti.

Il riconoscimento dello status di cittadino a milioni di individui nati e residenti all'estero comporterebbe, inoltre, la consegna di estesi poteri rappresentativi ad una popolazione priva di obblighi fiscali nei confronti della Repubblica, determinando un'evidente difformità di trattamento fra cittadini italiani nati in Italia e cittadini nati in altri Paesi ma discendenti da italiani.

Infine, il Tribunale evidenzia l'irragionevole asimmetria fra ius sanguinis e tutti gli altri modi di acquisto della cittadinanza: se questi ultimi sono tutti fondati su un certo consolidamento del rapporto fra cittadino e Stato e perciò soggetti a limitazioni di vario tipo, il primo, come già ampiamente sottolineato, non solo non richiede nulla di tutto ciò, ma prescinde anche da un qualsiasi limite temporale e/o di diversa natura.

Sulla base di questi ultimi rilievi, dunque, il secondo principio costituzionale violato dalla disposizione oggetto di censura sarebbe, a parere del Tribunale, il principio di uguaglianza – sub specie intesa come ragionevolezza e proporzionalità – ex art. 3.

Non vanno poi trascurati i riflessi riverberati sull'ordinamento internazionale e, in specie, le ricadute rispetto agli obblighi da esso derivanti, cui il nostro Paese è tenuto a conformarsi – aspetto che, evidentemente, riguarda il terzo parametro costituzionale identificato dal Giudice bolognese, ossia l'art. 117, nella parte in cui prevede che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato … nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».

Quanto all'ordinamento internazionale lato sensu il Giudice rimettente pone l'accento sul fondamentale principio di effettività, in base al quale dovrebbe escludersi il nesso di cittadinanza ogni qual volta esso si basi su una fictio, ossia in assenza di un qualsiasi vincolo reale con lo Stato. In quest'ottica la cittadinanza non costituirebbe solo un legame legale, ma un «connubio genuino ed effettivo» (§ 10) fra singolo e collettività.

Quanto invece ai più specifici obblighi derivanti dall'ordinamento eurounitario, il Tribunale evidenzia, pur sottolineando l'assoluta libertà per lo Stato membro di adottare una propria e autonoma normativa in punto di cittadinanza, contrasti con gli artt. 9 T.U.E. e 20 T.F.U.E., i quali costituiscono il corpus normativo della cittadinanza europea, la quale è assunta automaticamente all'acquisto della cittadinanza di uno Stato membro e determina l'attribuzione ai singoli di un fascio di diritti di vario genere: libertà di circolazione e di soggiorno, diritti di partecipazione politica, tutela diplomatica, diritto di petizione al Parlamento Europeo, diritto di ricorrere al Mediatore Europeo. Il potenziale accesso, del tutto arbitrario, alla cittadinanza italiana – e con ciò a quella europea – da parte di milioni di persone all'estero potrebbe dunque minare, ancora una volta, il principio di effettività e genuinità del rapporto fra singolo e collettività europea, principio affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea anche in vicende giudiziarie recenti.

L'ordinanza in commento offre alcuni spunti interessanti che meritano di essere brevemente approfonditi.

Con una peculiare attenzione verso il particolarissimo contesto italiano («secondo paese per numero di emigrati» leggiamo nell'ordinanza, § 7), il quale – per l'assenza di limiti nella possibilità di riconoscere lo status di cittadino per discendenza – favorisce una proliferazione potenzialmente illimitata dei cittadini italiani, il Giudice a quo si interroga sulle ricadute sistematiche derivanti dalla vigenza e dall'applicazione dell'art. 1 Legge Cittadinanza.

Interessante, innanzitutto, l'accento su una declinazione meno nota – o forse semplicemente meno approfondita – dell'art. 1 Cost. A venire in rilievo non è il principio di sovranità popolare in sé, quanto le condizioni e i limiti per il riconoscimento dell'appartenenza al “popolo” italiano e gli argomenti snocciolati nell'ordinanza sono tutti legati, come visto, ai rischi (presunti o reali che siano) di inquinamento, come conseguenza dell'ampliamento massiccio della pletora di cittadini italiani, delle usuali dinamiche elettorali e di partecipazione all'agone pubblico da parte dei singoli. Per il giudice a quo sarebbe inoltre compromesso il significato di popolo cristallizzato nel testo costituzionale, concetto non soltanto formale, ma connesso ad una comunanza di caratteri storico-culturali, oltre che sociali ed istituzionali – aspetto che, nel caso dei moltissimi cittadini formalmente italiani che mai hanno avuto e mai avranno contatti con lo Stato, è del tutto assente.

Quanto alla lesione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost. il rilievo è, ad avviso di chi scrive, pertinente, rilevando il Giudice di merito alcune manifeste difformità di trattamento di situazioni analoghe. Che si voglia porre l'accento sul diverso trattamento fiscale fra cittadini o sull'evidente favor tradizionalmente riservato allo ius sanguinis rispetto alle altre modalità di acquisto della cittadinanza, il parametro costituzionale indicato – che ha notoriamente assunto sempre più le sembianze di un principio di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale stessa – può proficuamente venire in aiuto per eliminare (o meramente contenere) le storture rilevate dalla pronuncia.

Quanto, infine, alla presunta violazione dell'art. 117 Cost. basti rilevare con favore l'attenzione del Magistrato rimettente verso i principi dell'ordinamento internazionale nel suo complesso e di quello eurounitario, a dimostrazione dell'influenza sempre maggiore dei circuiti sovranazionali anche riguardo a tematiche da sempre connesso a doppio filo con la sola dimensione interna.

Sulla base di quanto detto, il Giudice ritiene giustiziabile sul piano costituzionale la legge ordinaria che regola l'acquisto della cittadinanza: pur non prevedendo la Carta limiti o condizioni sul punto, è evidente che, se dalle disposizioni in materia derivi nientemeno che l'alterazione dei concetti di popolo e cittadinanza (fra i pilastri fondamentali che identificano, come ben noto, lo Stato), ciò possa essere censurabile.

L'assenza di indicazioni in Costituzione non corrisponde, cioè, ad una neutralità assoluta sulle condizioni di accesso allo status di cittadino.

Non si può sapere come deciderà la Corte. Quel che è certo è che l'ordinanza di rimessione del Tribunale emiliano accende i riflettori su una questione reale: se la disciplina censurata poteva avere un senso in passato, quando l'Italia era paese di emigrazione e molti emigrati effettivamente vi tornavano, ora i dubbi si affacciano prepotentemente, alla luce di tutte le considerazioni esposte in ordinanza. I potenziali italiani nel mondo si attestano sulle decine di milioni, dei quali una stragrande maggioranza non ha né avrà mai interesse a recarsi o vivere in Italia. Forse, allora, basarsi ancora su un'evidente fictio di cittadinanza non ha più così tanto senso, anche considerando le normative ben più restrittive (ius soli etc.) che condannano individui presenti anche da decenni sul suolo nazionale, parte integrante del tessuto sociale italiano (che piaccia o no, la realtà è questa), all'assenza di cittadinanza, creando un'evidente e forse irragionevole disomogeneità di trattamento come rilevato anche dal Giudice a quo nell'ordinanza commentata.

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