Presunzione ex art. 275, comma 3, c.p.p. e “tempo silente”: le diverse soluzioni della giurisprudenza di legittimità
29 Ottobre 2024
Massima In tema di misure cautelari, pur se per i reati di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, e di un'esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli "elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari", cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, del codice di rito. Il caso Il tribunale del riesame confermava la misura cautelare inframuraria applicata nei confronti dell'indagato, in quanto partecipe ad una associazione mafiosa, rilevando – quanto alle esigenze cautelari – la permanenza del sodalizio criminale di appartenenza. La difesa proponeva ricorso in Cassazione, evidenziando che l'ordinanza cautelare era intervenuta a distanza di sei anni dai fatti contestati, senza considerare che il ricorrente svolgeva regolare attività lavorativa. I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso sul rilievo che il tempo trascorso dai fatti contestati, unito alla assenza di condotte sintomatiche della pericolosità dell'indagato, possono essere significativi della inattualità della partecipazione al sodalizio mafioso: la perdurante pericolosità non può essere desunta dalla perdurante vitalità del sodalizio criminale. La questione La questione in esame è la seguente: il c.d. “tempo silente” può elidere la presunzione di pericolosità prevista dall'art. 275, comma 3, c.p.p.? Le soluzioni giuridiche La pronuncia in commento, valorizzando il requisito dell'attualità, attribuisce rilievo al tempo trascorso tra i fatti di reato commessi e la verifica delle esigenze cautelari: la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, prevista dall'art. 275, comma 3, c.p.p., può essere superata in presenza di elementi dai quali risulti l'insussistenza di esigenze cautelari, desunti anche dal tempo trascorso dai fatti addebitati, che porti ad escludere l'attualità del pericolo di reiterazione, pur se non si evidenzi una dissociazione espressa dal sodalizio. Al rilievo del dato temporale in sede di verifica corrisponde il relativo obbligo di motivazione puntuale del giudice della cautela. In altri termini, il giudice è onerato di una motivazione specifica in caso di sussistenza di un significativo "tempo silente"; di recente, infatti, è stato affermato che «in tema di misure cautelari, ai fini del superamento della presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., anche in relazione al reato di partecipazione ad associazioni mafiose "storiche" deve essere espressamente considerato dal giudice, alla luce di una esegesi costituzionalmente orientata della citata presunzione, il tempo trascorso dai fatti contestati, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra "gli elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, c.p.p.» (Cass. pen., n. 2112/2024; Cass. pen., n. 31587/2023). Osservazioni Sul tema di valutazione delle esigenze cautelari nello specifico ambito delimitato dall'art. 275, comma 3, c.p.p., con riguardo al cosiddetto “tempo silente”, cioè quello intercorso tra l'epoca alla quale risalgono i fatti contestati e la verifica dell'attualità delle esigenze cautelari, sia nel momento dell'emissione della misura che di seguito a fronte di eventuali istanze di revoca o modifica migliorativa, si registrano orientamenti divergenti. La pronuncia in commento si pone in antitesi rispetto a quel formante a mente del quale l'art. 275, comma 3, c.p. prevede una doppia presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, ed assoluta con riguardo all'adeguatezza della misura carceraria; ne consegue che in presenza di gravi indizi di colpevolezza del delitto di partecipazione ad un'associazione mafiosa il giudice non ha un obbligo di dimostrare in positivo la ricorrenza dei pericula libertatis ma deve soltanto apprezzare l'eventuale sussistenza di segnali di rescissione del legame del soggetto con il sodalizio criminale tali da smentire, nel caso concreto, l'effetto della presunzione, in mancanza dei quali trova applicazione in via obbligatoria la sola misura della custodia in carcere. Sicché, in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti di indagato del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, la presunzione relativa di pericolosità sociale, di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., come novellato dalla legge n. 47 del 2015, può essere superata solo quando dagli elementi a disposizione del giudice emerga che l'associato abbia stabilmente rescisso i suoi legami con l'organizzazione criminosa (Cass. pen., n. 52303/2016), tenuto conto altresì del fatto che, sempre in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari prevista dall'art. 275, comma 3, c.p.p. non è superata per effetto del decorso di un tempo considerevole tra l'emissione della misura e i fatti contestati qualora risultino accertate la consolidata esistenza dell'associazione, la pregressa partecipazione alla stessa dell'indagato e la sua perdurante adesione ai valori del sodalizio (Cass. pen., n. 19787/2019), fermo restando che l'irrilevanza del tempo trascorso dalla consumazione dei fatti ai fini del superamento della presunzione è stabilita anche da altre pronunce secondo cui in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. può essere superata solo con il recesso dell'indagato dall'associazione o con l'esaurimento dell'attività associativa, mentre il c.d. “tempo silente” (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell'irreversibile allontanamento dell'indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un'attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell'assenza di esigenze cautelari (Cass. pen., n. 38848 /2021). Si è affermato che in tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di partecipazione ad associazioni mafiose "storiche", la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. può essere superata solo con il recesso dell'indagato dall'associazione o con l'esaurimento dell'attività associativa, mentre il ed. "tempo silente" (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell'irreversibile allontanamento dell'indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un'attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell'assenza di esigenze cautelari' (Cass. pen., n. 16434/2024). Pertanto, il c.d. tempo silente non può da solo rappresentare prova della rescissione dei legami con il sodalizio criminoso, soprattutto nei casi di associazioni mafiose tradizionali, in cui, in base alle massime di esperienza di cui si dispone, risulta oltremodo difficile recidere volontariamente e definitivamente il vincolo associativo senza "contraccolpi". In tema di custodia cautelare in carcere disposta per il reato di cui all' art. 416-bis c.p., la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p. può essere superata solo con il recesso dell'indagato dall'associazione o con l'esaurimento dell'attività associativa, mentre il "tempo silente" (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l'emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell'irreversibile allontanamento dell'indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un'attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell'assenza di esigenze cautelari (Cass. pen., n. 6592/2022; Cass. pen., n. 38848/2021). In tale ottica, nel caso di imputati del reato di associazione mafiosa, un valore di per sé determinante nel senso di escludere la presunzione di pericolosità è stato riconosciuto soltanto al dato della rescissione dei legami del soggetto con il sodalizio di appartenenza; mentre il trascorrere di un rilevante lasso di tempo dal momento della commissione dei fatti è stato ritenuto un fattore non autonomo di valutazione ma da parametrare necessariamente alla gravità della condotta contestata e, qualora, come nel caso di specie, sia già intervenuto un accertamento di merito con una sentenza di condanna in primo grado, confermata in appello, da tenere in conto secondo una verifica complessiva di tale gravità, della quale costituisce specchio principale anche l'entità della sanzione inflitta. Orbene, alla stregua di tale quadro ermeneutico, spetta al pubblico ministero di provare e al giudice di accertare l'attualità del vincolo associativo, quantomeno in termini di apparenza indiziaria, tenuto conto che le associazioni mafiose si basano, per comune esperienza, su vincoli intersoggettivi caratterizzati dalla sudditanza e soggezione, che si perpetuano. Al riguardo si osserva che riferimento all'art. 275, comma 3, c.p.p. la Corte costituzionale ne ha in più occasioni affermata la costituzionalità, sottolineando come dall'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso che implica un'adesione ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice, deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità: C. cost. n. 265/2010; C. cost. n. 191/2020; C. cost. n. 136/2017). Infine, sussiste un terzo orientamento che cerca una sintesi tra i due contrapposti filoni interpretativi, muovendo dalla constatazione che se è indubbio che l'art. 275, comma 3, c.p.p. prevede una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, tuttavia, la stessa può essere superata in quanto il giudice, senza dover dar conto della ricorrenza dei pericula libertatis, è comunque tenuto a valutare, anche in forza delle massime di esperienza sui diversi tipi di associazione criminale, gli elementi astrattamente idonei a escludere tale presunzione, desunti dalla fattispecie di reato per il quale si procede, dalle concrete modalità del fatto e dalla risalenza dei fatti illeciti, non essendo consentito nel nostro ordinamento un qualsivoglia automatismo valutativo (Cass. pen., n. 806/2024; Cass. pen., n. 25443/2024). In altre parole, si tratta di motivare adeguatamente sull'esistenza delle esigenze cautelari laddove siano state evidenziate dalla parte o siano direttamente evincibili dagli atti delle ragioni per escluderle. |