Bancarotta fraudolenta impropria: il discrimine tra dolo diretto e dolo eventuale nella gestione societaria
22 Ottobre 2024
Massima Ai sensi dell'art. 223, comma 2, n. 2 l. fall., il fallimento può essere causato, alternativamente, con dolo diretto - ove l'intenzione dell'agente sia specificamente rivolta a tale esito - o come effetto di operazioni dolose, laddove cioè l'agente non persegua direttamente il fallimento ma accetti il rischio che esso si verifichi. In quest'ultimo caso, è sufficiente la consapevolezza di aver posto in essere azioni pericolose per la salute economica dell'impresa; consapevolezza che, a sua volta, ai fini dell'integrazione del reato de quo, può assumere le forme sia del dolo diretto che del dolo eventuale: nel primo caso, l'agente vuole direttamente cagionare il dissesto della società; nel secondo, egli accetta la possibilità che le sue azioni lo causino. Tale ultimo atteggiamento psicologico del soggetto agente ben può sorreggere l'imputazione per bancarotta fraudolenta impropria, purché le condotte si concretino in operazioni intrinsecamente pericolose o antieconomiche per le sorti della società. Il caso Il caso in esame concerne il fallimento di una società a responsabilità limitata, dichiarato con sentenza del Tribunale di Padova il 10 ottobre 2013, e vede imputati l'amministratore delegato (e poi unico) della società, da una parte, ed il socio e presidente del consiglio di amministrazione, dall'altra; entrambi sono stati ritenuti responsabili del delitto di bancarotta fraudolenta per aver provocato il fallimento della società tramite operazioni dolose, riconducibili a tre specifiche transazioni: la prima, risalente all'ottobre 2010, riguardava un contratto di associazione in partecipazione con una società terza, per un apporto complessivo di 1,4 milioni di euro e l'acquisto di un know-how per 900.000 euro; la seconda operazione, risalente al 2011, aveva ad oggetto l'acquisto di una quota di credito presso un istituto bancario, per un impegno economico di 2,16 milioni di euro; la terza operazione, infine, si concretizzava nell'acquisto di una quota del 6% di una società austriaca, con un esborso di 2,2 milioni di euro. Operazioni, tutte, giudicate come gravemente antieconomiche e fonte di aggravamento dell'esposizione debitoria della S.r.l. gestita dai due imputati. La questione Con i ricorsi esaminati in sentenza dalla Suprema Corte viene censurata, anzitutto, la qualificazione giuridica delle operazioni compiute dagli imputati: si discute, cioè, se queste debbano essere considerate operazioni dolose in grado di cagionare il fallimento della società o semplici operazioni imprudenti e aleatorie, prive di dolo diretto o eventuale. In secondo luogo, si contesta la riconducibilità del dissesto al dolo degli imputati: in particolare, occorre stabilire se le azioni dei due amministratori possano essere considerate come operazioni condotte con la consapevolezza di ingenerare un rischio di dissesto della società o se si sia trattato di mere condotte colpose. Ulteriore oggetto di censura è l'accertamento del nesso di causalità tra le operazioni contestate ai due imputati ed il fallimento della società: si tratta, in altre parole, di stabilire se gli impegni economici assunti e descritti in premessa possano essere considerati come la causa diretta del dissesto economico della S.r.l. Infine, la pronuncia in commento affronta il tema della configurabilità del concorso dell'extraneus nel reato proprio di bancarotta, ossia la possibilità di valorizzare l'apporto dell'amministratore di fatto quale concorrente esterno nelle operazioni dolose che avrebbero condotto al dissesto. Le soluzioni giuridiche La Corte di cassazione ha rigettato integralmente i ricorsi proposti dalle difese degli imputati, confermando la decisione della Corte d'appello di Venezia. In particolare, il Supremo Collegio ha ritenuto le operazioni compiute effettivamente dolose e connotate da una grave antieconomicità, tali da provocare il dissesto della società. In motivazione, quanto al giudizio di antieconomicità, la Corte precisa che si trattava di transazioni prive di vantaggi economici reali per la società fallita e prive di idonee garanzie a copertura dei rischi assunti in capo alla stessa, per di più con controparti che versavano – a loro volta – in situazioni di pregressa e grave difficoltà economica. Si valorizza, inoltre, la circostanza che le operazioni fossero viziate da un evidente conflitto di interessi in capo ai soggetti investiti del potere decisionale in seno all'azienda, dato che le società beneficiarie degli investimenti erano legate quantomeno ad uno dei due imputati, detentore di azioni di queste ultime; elemento, questo, che contribuisce – secondo i Giudici di legittimità – a confermare la natura dolosa delle operazioni oggetto dell'addebito penale. È stato altresì riconosciuto il nesso di causalità tra le operazioni compiute e il dissesto della S.r.l., sulla scorta dell'entità degli impegni finanziari assunti dalla società e giudicati come sproporzionati rispetto alle sue capacità economiche al momento dei fatti. La Corte, infine, in punto elemento soggettivo del reato, ha confermato che, pur non avendo l'obiettivo di far fallire la società, gli imputati hanno agito accettando il rischio che il fallimento potesse verificarsi come conseguenza delle proprie azioni. Osservazioni La pronuncia in commento offre l'opportunità di riflettere su alcune tematiche di estremo rilievo nel diritto fallimentare e penale societario, in particolare sul concetto di operazioni dolose e sulla distinzione tra dolo diretto ed eventuale in ordine all'elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta dell'agente. La Corte ribadisce che per integrare la fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria non è necessario che l'intento primario perseguito dall'agente sia il fallimento della società; e sufficiente, per contro, che egli accetti il rischio che il dissesto si verifichi come conseguenza di operazioni avventate e antieconomiche. In altre parole, l'accettazione del rischio da parte dell'amministratore, consapevole dell'intrinseca pericolosità delle operazioni poste in essere, è sufficiente a configurare il dolo eventuale per l'integrazione del reato in parola. Degno di nota è poi il ruolo attributo al denunciato conflitto di interessi in capo agli amministratori, come elemento che contribuisce a qualificare le operazioni come dolose: le operazioni compiute dagli imputati – afferma la Corte – erano dirette a società legate agli stessi, con un conseguente evidente vantaggio personale, a discapito degli interessi della società amministrata. Questo ha contribuito a rafforzare l'idea che gli imputati abbiano agito con consapevolezza del potenziale danno che avrebbero potuto arrecare alla società. Infine, come detto, la sentenza si sofferma sul concorso dell'extraneus nel reato di bancarotta. Secondo la ricostruzione operata in sede di legittimità, uno degli imputati, pur non essendo formalmente amministratore della società, avrebbe partecipato attivamente alle operazioni che hanno portato al dissesto, il che configura a tutti gli effetti un concorso nel reato di bancarotta impropria. In breve, secondo la Corte, anche chi agisce da “esterno” rispetto alla gestione societaria può rispondere del reato se contribuisce attivamente a decisioni che conducono al fallimento. In conclusione, la pronuncia in commento rappresenta un'importante riaffermazione dei principi di responsabilità penale in materia di gestione societaria, ribadendo la rilevanza di condotte dissipative del patrimonio aziendale o foriere dell'aggravamento del dissesto, seppur sorrette dal mero dolo eventuale e mettendo in guardia gli amministratori di fronte ad operazioni economicamente rischiose o connotate da profili di conflitto di interessi. |