Intralcio alla giustizia e divieto di analogia in malam partem
28 Agosto 2024
Massima Il Legislatore, con il reato di intralcio alla Giustizia, previsto dall'art. 377, comma 1 c.p., ha inteso punire chi suborni un teste (o anche solo un sommario informatore) per dire il falso al posto del vero – per commettere solo uno dei reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p. – ma giammai ha inteso punire i comportamenti di chi auspichi, anche dietro il monito di una legittima denuncia, che emerga la verità al posto della menzogna: ragionando diversamente si rischierebbe di allargare oltremodo l'esegesi dell'oggetto della condotta incriminata, al di fuori dei confini di un'interpretazione estensiva dei reati pedissequamente elencati dal Legislatore, finendo così per effettuare un'interpretazione analogica in malam partem della disposizione incriminatrice in esame, e finendo con il punire l'induzione a non rendere qualunque forma di dichiarazioni all'Autorità Giudiziaria, paradossalmente persino quelle veritiere e non soltanto quelle mendaci, in aperta antitesi anche con l'aspetto teleologico del delitto de quo. Il caso L'imputato veniva condannato dal Tribunale di Vallo della Lucania – sentenza n. 757 del 14/9/2022 – per i reati di intralcio alla giustizia e sostituzione di persona. Secondo il Tribunale la vicenda oggetto del processo di primo grado, al cui esito il primo Giudice ha emesso la sentenza appellata, si sarebbe svolta nei termini che seguono. Tizio era stato indagato dalla Procura della Repubblica di Vallo della Lucania nel procedimento nr. XXXX/YYYY R.G.N.R. per il reato di appropriazione indebita di alcuni mobili da bagno presenti nella ex casa coniugale compiuta ai danni della coniuge separata, Sempronia. Nell'ambito di tale procedimento, i Carabinieri della Stazione di ZZZZ escutevano a sommarie informazioni testimoniali, in data 17/8/2014, Mevio, ex dipendente di Tizio, il quale affermava di essersi recato insieme a Tizio ad acquistare dei mobili da bagno e di averlo aiutato a montarli nella sua abitazione. Successivamente, in data 2/1/2015, Mevio veniva contattato telefonicamente (sul numero di telefono cellulare che aveva lasciato all'Arma quando era stato escusso quale persona informata sui fatti) dal Comandante della Stazione dei Carabinieri di ZZZZ (il Comandante), il quale gli chiedeva di portarsi in Caserma quanto prima. Giunto in Caserma a ZZZZ il giorno stesso 2/1/2015, Mevio veniva condotto dal Comandante in una stanza al cospetto dell'imputato, che lo attendeva seduto a una scrivania, il quale, presentatosi esplicitamente come avvocato difensore di Sempronia, avrebbe spiegato a Mevio che avrebbe dovuto ritrattare la deposizione relativa a Tizio in quanto falsa, e che avrebbe dovuto affermare – contrariamente a quanto già dichiarato – di non aver mai accompagnato Tizio ad acquistare mobili da bagno e di non averli mai montati presso l'abitazione di quest'ultimo; indi, con un tono decisamente perentorio, l'imputato avrebbe affermato che se Mevio non avesse ritrattato “lo avrebbe denunciato” e gli avrebbe fatto “passare dei guai”. Mevio subito rispondeva che non avrebbe mai cambiato le dichiarazioni già rese, in quanto veritiere. A quel punto l'imputato gli ribadiva che lo avrebbe denunciato ed entrambi lasciavano gli uffici. In seguito (dal colloquio telefonico tra il legale di Tizio, e il Comandante) sarebbe emerso come l'imputato non fosse stato affatto un Avvocato, così come si sarebbe qualificato a Mevio, bensì un Carabiniere all'epoca dei fatti in servizio presso la Sezione di Polizia Giudiziaria della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vallo della Lucania, il quale era legato sentimentalmente da una stabile relazione di convivenza con Sempronia, ovvero con l'ex moglie di Tizio, persona offesa nel procedimento nr. XXXX/YYYY R.G.N.R. della Procura della Repubblica di Vallo della Lucania in cui, il 17/8/2014, era stato escusso a sommarie informazioni testimoniali proprio Mevio. Avverso tale sentenza ha proposto appello il difensore dell'imputato chiedendo, per quanto di interesse in questa sede, assolversi l'imputato dal reato di cui all'art. 377 c.p. perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato. La questione La Corte d'appello di Salerno ha ritenuto fondato e accogliibile il motivo di impugnazione posto a sostegno del quarto motivo di appello, in forza del quale la Difesa ha sostenuto che le sommarie informazioni testimoniali rese da Mevio fossero ab initio false, e dunque l'invito a rettificarle non sarebbe consistito in una minaccia, ma nell'esercizio di un diritto per raggiungere un fine lecito, ovvero quello del raggiungimento della verità storica dei fatti. Ha sostenuto infatti la Difesa appellante che le dichiarazioni rese con verbale di sommarie informazioni testimoniali ai Carabinieri di ZZZZ in data 17/8/2014 da Mevio – costituitosi parte civile – secondo cui Mevio avrebbe accompagnato Tizio ad acquistare prima, e a montare in casa propria poi, alcuni mobili da bagno dei quali era accusato essersi indebitamente appropriato in danno della ex moglie Sempronia, fossero esse non veritiere, e tese invece a favorire il suo datore di lavoro Tizio in un procedimento per il reato previsto dall'art. 646 c.p. che lo aveva visto sottoposto ad indagini per quella condotta asseritamente appropriativa, su querela proprio di Sempronia. La deduzione della Difesa è stata ritenuta accogliibile, siccome ampiamente provata, per le motivazioni che seguono. Le soluzioni giuridiche Viene sottolineato, preliminarmente, come il risultato della prova dichiarativa offerta da Mevio nel corso del dibattimento di primo grado, all'udienza del 30/4/2019, non sia stato messo in discussione dalle parti in parte qua, nemmeno dalla Difesa dell'imputato. In più punti della trascrizione della deposizione resa dalla parte civile si legge sempre, infatti, come l'imputato pretese espressamente e più volte, anche con toni accesi, che Mevio ritrattasse quanto dichiarato ai Carabinieri di ZZZZ in data 17/8/2014, e alla fine della discussione tenuta nella Caserma di ZZZZ gli ribadì con tono risoluto che lo avrebbe denunciato se non avesse ritrattato. Ciò è talmente vero che è pacificamente ammesso anche dall'imputato, che lo ha ribadito e non lo ha contestato nelle sue spontanee dichiarazioni rese innanzi alla Corte d'Appello all'udienza del 12/2/2024. Secondo il Tribunale di Vallo della Lucania, tali parole, effettivamente proferite, anche con tono deciso, dall'imputato, avrebbero perfezionato la condotta tipica commissiva del delitto previsto dall'art. 377 c.p. Tale sussunzione non è stata condivisa dai giudici salernitani. Nella sentenza qui commentata si ricorda come il reato di intralcio alla Giustizia, previsto dall'art. 377, comma 1 c.p., consti, come noto, nella condotta tipica di chiunque offra o prometta denaro o altra utilità ad una persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'Autorità Giudiziaria [o alla Corte Penale Internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni al difensore nel corso dell'attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete], per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p., e sempre qualora l'offerta o la promessa non sia accettata. Si tratta di una norma posta a tutela del corretto svolgimento dell'attività probatoria processuale, dante rilievo a condotte tese a pregiudicare – mediante offerta o promessa di danaro o altra utilità, ovvero tramite violenza o minaccia – la serena acquisizione delle dichiarazioni di soggetti sui quali grava l'obbligo di rispondere (salva l'applicabilità di speciali prerogative, peraltro rinunziabili, quale quella della facoltà di astenersi dal deporre ai sensi dell'art. 199 c.p.p.), che si propone cioè la tutela, in via anticipata, della veridicità e della correttezza di determinati apporti processuali dichiarativi. Secondo la Corte, la stretta interpretazione della struttura oggettiva dell'art. 377 c.p., introdotto nell'ordinamento penale con la legge n. 63/2001 sul giusto processo in attuazione dell'art. 111 della Costituzione, impone che la tipicità commissiva prevista dalla legge come reato non possa essere riferibile ad una condotta induttiva volta a rivelare il vero, e non a commettere uno dei reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p. (reati di false informazioni al P.M., di false informazioni alla Difesa, di falsa testimonianza e di falsa perizia), che devono invece essere necessariamente forieri di una tassativa e stretta interpretazione, per non incorrere nel divieto di analogia in malam partem della norma penale, imprescindibile corollario di quanto previsto dall'art. 2 c.p. Il Legislatore ha voluto tutelare la corretta amministrazione della Giustizia, anticipando la soglia della punibilità ai comportamenti prodromici dei reati supra elencati, perché essi possono fare da intralcio al raggiungimento della verità, fine ultimo della Giustizia penale secondo l'interpretazione fornita dalla Consulta agli artt. 24 e 111 della Costituzione. Per far ciò, il Legislatore ha inteso punire chi subornasse un teste (o anche solo un sommario informatore) per dire il falso al posto del vero – per commettere appunto solo uno dei reati previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p. – ma giammai, secondo i giudici salernitani, ha inteso punire i comportamenti di chi (come l'imputato) auspichi, anche dietro il monito di una legittima denuncia, che emerga la verità al posto della menzogna. Ragionando diversamente, si rischierebbe di allargare oltremodo l'esegesi dell'oggetto della condotta incriminata, al di fuori dei confini di un'interpretazione estensiva dei reati pedissequamente elencati dal Legislatore, finendo così per effettuare un'interpretazione analogica in malam partem della disposizione incriminatrice in esame, e finendo con il punire l'induzione a non rendere qualunque forma di dichiarazioni all'Autorità Giudiziaria, paradossalmente – come nella fattispecie in esame – persino quelle veritiere e non soltanto quelle mendaci, in aperta antitesi anche con l'aspetto teleologico del delitto de quo. Tale interpretazione della fattispecie, del resto, è stata ritenuta ampiamente supportata da prove a discarico, sia dichiarative che documentali: dalla deposizione testimoniale del teste qualificato M.llo Svetonio, all'epoca dei fatti appartenente alla Tenenza della Guardia di Finanza di VVVV, resa all'udienza di primo grado del 22/12/2020, si evince che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vallo della Lucania aveva delegato quella Tenenza al compimento di indagini preliminari per il delitto previsto dall'art. 646 c.p. per cui procedeva nei riguardi di Tizio su querela presentata da Sempronia, e che quella Polizia Giudiziaria aveva compiuto indagini fiscali, da cui si evinceva inequivocabilmente che il mobile completo di lavabo oggetto del delitto di appropriazione indebita era stato pagato dal conto corrente bancoposta intestato alla querelante, come si deduceva dalla contemporanea presenza, sul conto corrente di Sempronia e sullo scontrino fiscale rilasciato dal Centro Brico di Vallo della Lucania, dello stesso codice di pagamento. Allegata alla querela sporta da Sempronia, poi, acquisite al fascicolo del dibattimento di primo grado e rese utilizzabili ai sensi dell'art. 234 c.p.p., vi è una dichiarazione firmata dal titolare del suddetto Brico Center, che ha attestato di aver venduto il mobile alla signora Sempronia. Alla luce di tali due convergenti risultati di prova, è stato valutato logico ritenere, allora, che l'imputato – legato sentimentalmente alla Sempronia – il quale aveva saputo dalla sua compagna quale fosse stata la verità dei fatti, si sia sentito nel diritto di chiedere, anche con modi fermi e risoluti, a Mevio di ritrattare quelle che riteneva (forse anche fondatamente) essere sue dichiarazioni menzognere per far invece emergere la verità dei fatti, ed assume consistenza concreta la versione alternativa dei fatti costantemente fornita dall'imputato. Le prove a discarico dimostrano dunque – al di là di ogni ragionevole dubbio secondo la Corte – che l'imputato, a pena di denuncia, ha tentato, senza riuscirvi, di costringere Mevio a ritrattare una dichiarazione menzognera, per far emergere una ritenuta verità. Con ciò facendo, l'imputato non ha potuto consumare il delitto previsto dall'art. 377 c.p. che, sotto la rubrica di intralcio alla Giustizia, è posto ad ostacolo di condotte induttive prodromiche al compimento di reati, tassativamente elencati dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p., insuscettibili di interpretazione analogica, che tipizzano condotte che consistono in affermazioni menzognere o false, e che tendono, per ciò solo, ad ostacolare il raggiungimento della verità. Da qui è derivata la declaratoria di assoluzione dell'imputato appellante, con la formula più ampia del fatto che non sussiste. Per completezza va detto che l'imputato, oltre ad essere stato assolto dall'imputazione di cui all'art. 377 c.p., lo è stato anche per quanto concerne il delitto di sostituzione di persona, in quanto il narrato della parte civile (come noto, titolare di un precipuo interesse economico all'accoglimento della sua azione civile intentata nel seno del processo penale) non ha ricevuto positivi riscontri estrinseci mediante altre deposizioni testimoniali che ne hanno confermato l'attendibilità. Osservazioni Il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo, cui ha fatto ricorso la Corte salernitana, viene affermato a livello di fonti primarie dall'art. 14 delle Preleggi nonché — implicitamente — dall'art. 1 c.p., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza n. 447 del 1998). A livello sovranazionale viene per altro solennemente affermato all'Articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (di seguito «la Convenzione» o «la Convenzione europea») – Nulla poena sine lege «1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso». La sentenza in commento, oltre che rispondere a condivisibili parametri di “giustizia sostanziale”, pare inscriversi nel solco tracciato dalla Corte Europea dei Diritti dell'uomo nella sua attività di interpretazione dell'art. 7 della Convenzione: la garanzia sancita dall'articolo 7, elemento fondamentale dello stato di diritto, occupa un posto di primo piano nel sistema di tutela della Convenzione, come attesta il fatto che l'articolo 15 non prevede alcuna deroga ad essa, neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico. Dal suo oggetto e dal suo scopo consegue che essa deve essere interpretata e applicata in modo da assicurare una tutela effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (S.W. c. Regno Unito, § 34; C.R. c. Regno Unito, § 32; Del Río Prada c. Spagna [GC], § 77; Vasiliauskas c. Lituania [GC], § 153). L'articolo 7 non si limita infatti a vietare l'applicazione retroattiva del diritto penale a scapito dell'imputato: esso sancisce altresì, più in generale, il principio della legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), e quello che impone di non applicare la legge penale in maniera estensiva a scapito dell'imputato, soprattutto per analogia (ibidem, § 154; Kokkinakis c. Grecia, § 52). Costituisce, in effetti, patrimonio elementare di ogni sapienza giuridica, oltre che fattore fondante di una moderna civiltà giuridica in materia sanzionatoria, il rilievo secondo il quale lo strumento di riempimento delle lacune legislative offerto dal ricorso alla "applicazione analogica" in malam partem è inibito in relazione alle norme penali incriminatrici (si veda, per tutte Cass. pen., 20 settembre 2022, n. 713); è altrettanto pacifico che si debba ricorrere alla analogia – che piuttosto che strumento della ermeneutica giuridica è mezzo, eccezionale, di nomopoiesi, essendo destinato al colmare le lacune dell'ordinamento, di tal che appare contraddittorio attribuire ad esso una funzione interpretativa, posto che esso entra in giuoco proprio laddove non vi è disposizione suscettibile di essere applicata e, quindi, previamente interpretata – allorché la disciplina di una determinata figura giuridica presenti delle lacune, incolmabili con gli altri ordinari strumenti posti a disposizione dell'interprete, di tal che, onde dirimere una determinata controversia, ovviamente anche in sede non strettamente giudiziaria, (l'analogia è, infatti, strumento la cui attualità applicativa sorge, si direbbe, esclusivamente nella pratica giuridica, atteso che in sede meramente teoretica il rilevamento di lacune nell'ordinamento non è fattore che presenti problemi da risolvere), si deve ricorrere alla disciplina positiva di altra figura giuridica che, per avere profili - funzionali o strutturali - prossimi a quella in questione, si presta a consentirne, attraverso il travaso di una parte del suo meccanismo applicativo, la funzionalità quanto all'aspetto, diversamente, lacunoso e, pertanto, inutilizzabile della disciplina dell'istituto in discorso. È evidente che un tale meccanismo, laddove applicato al diritto penale precettivo, può comportare la estensione in malam partem di fattispecie che, altrimenti, per effetto della lacuna legislativa, sarebbero situate al di fuori del fuoco della norma incriminatrice. Cosa che, per motivi facilmente intuibili – riconducibili quanto meno alla necessità che l'inserimento di una determinata condotta nel novero di quelle penalmente rilevanti, acciocché la sua violazione costituisca consapevole espressione di un atteggiamento antidoveroso dell'individuo agente, debba essere preesistente rispetto alla violazione stessa – ripugna alla comune coscienza giuridica ed è, pertanto, come accennato, sotto più profili espressamente vietato. È utile fare riferimento alla giurisprudenza della Corte costituzionale. La Consulta, con la sentenza n. 115/2018 ha affermato: «La sentenza M.A. S. ha enfatizzato, a tal proposito, la necessità che le scelte di diritto penale sostanziale permettano all'individuo di conoscere in anticipo le conseguenze della sua condotta, in base al testo della disposizione rilevante, e, se del caso, con l'aiuto dell'interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici (paragrafo 56). Perlomeno nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia, ciò avvalora (finanche in seno al diritto dell'Unione, in quanto rispettoso dell'identità costituzionale degli Stati membri) l'imprescindibile imperativo che simili scelte si incarnino in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati. Rispetto a tale origine nel diritto scritto di produzione legislativa, l'ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d'ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell'arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo. Il principio di determinatezza ha una duplice direzione, perché non si limita a garantire, nei riguardi del giudice, la conformità alla legge dell'attività giurisdizionale mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate, ma assicura a chiunque «una percezione sufficientemente chiara ed immediata» dei possibili profili di illiceità penale della propria condotta (sentenze n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004; nello stesso senso, sentenza n. 185 del 1992)». La Corte costituzionale con la sentenza n. 98 del 2021 ha nuovamente spiegato come il divieto di analogia non consenta di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. Si è chiarito come sia il «il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore» e come ciò valga « non solo per il nostro, ma anche per altri ordinamenti ispirati alla medesima prospettiva, come dimostra la giurisprudenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, secondo cui in materia penale «il possibile significato letterale della legge fissa il limite estremo della sua legittima interpretazione da parte del giudice». Ciò spiega l'affermazione per cui «la garanzia soggettiva che la determinatezza della legge penale mira ad assicurare sarebbe (...) svuotata, laddove al giudice penale fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura». Dunque, l'attività di interpretazione trova un limite nel significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore a cui il giudice non può assegnare un significato diverso da quello proprio, da quello semantico, al fine di ricercare profili ulteriori in grado di colorare in senso estensivo il perimetro dell'illecito (Cass. pen., 24 maggio 2023, n. 38127). Conclusivamente può affermarsi che i giudici salernitani, nella sentenza in commento, hanno interpretato la norma di cui all'art. 377 c.p., secondo il significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore senza assegnare loro un significato diverso da quello proprio ovvero da quello semantico, in piena aderenza ai più alti orientamenti giurisprudenziali sopra rammentati. |