Cessione di piccoli quantitativi di droga
31 Agosto 2023
Massima
Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è necessario accertare la reale offensività della condotta, dimostrando che la sostanza ceduta ovvero detenuta a fini di spaccio contenesse principio attivo suscettibile di produrre in concreto un effetto drogante. Il caso
Un imputato veniva condannato per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere ceduto una dose di eroina del peso di gr. 1,49, e per aver detenuto a fini di spaccio ulteriori gr. 5,4 di eroina; lo stupefacente sequestrato conteneva principio attivo complessivamente pari a 13,5 milligrammi di eroina pura. Altro imputato veniva condannato per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere ceduto una dose di cocaina del peso di gr. 0,25, contenente principio attivo pari a 14 milligrammi di cocaina pura. In entrambi i casi, la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso dell'imputato, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, censurando che i giudici di merito avessero del tutto pretermesso la necessaria disamina della concreta offensività della condotta. La questione
E' noto che il nostro ordinamento - in linea con la tecnica di tipizzazione delle fattispecie incriminatrici che caratterizza la maggior parte delle normative internazionali in materia - non prevede una definizione farmacologica che illustri cosa debba intendersi per “sostanza stupefacente”: il legislatore - conscio della sostanziale impossibilità di coniare una definizione valida dal punto di vista medico, chimico e farmacologico, idonea a ricomprendere nel suo alveo tutte le diverse sostanze - ha invero scelto di fornirne una nozione legale imperniata sul c.d. sistema tabellare, con la conseguenza che le condotte elencate dall'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 assumono rilievo penale esclusivamente se abbiano avuto ad oggetto una delle sostanze annoverate nelle tabelle allegate al medesimo Testo Unico. La norma incriminatrice non riguarda, dunque, qualsiasi sostanza della quale venga accertata la natura stupefacente, neppure ove essa esibisca caratteristiche identiche - per composizione chimica, così come per effetti farmacologici e sulla salute umana - a quelle delle droghe tabellate, trovando applicazione solo in relazione alle sostanze elencate nei cataloghi allegati al Testo Unico, poiché è preclusa al giudice, in ossequio al principio di tipicità delle fattispecie penali ed al divieto di interpretazione analogica, la possibilità di ampliare il contenuto della previsione normativa. Ciò posto, occorre verificare se ogni condotta di produzione e traffico che abbia avuto ad oggetto una sostanza tabellata sia, sempre e comunque, idonea ad integrare la fattispecie incriminatrice, ovvero se sia necessario ed irrinunciabile un ulteriore accertamento, che metta in luce l'effettiva capacità drogante di quella sostanza. L'inserimento di una sostanza nelle tabelle del Testo Unico è subordinato alla sua capacità di provocare uno stato di dipendenza, ed uno stimolo ovvero una depressione del sistema nervoso centrale che diano luogo ad allucinazioni o comunque a disordini della funzione motrice, delle facoltà intellettive, del comportamento o dell'umore: ciò in sintonia con le acquisizioni della dottrina e della scienza medica, secondo le quali la pericolosità delle droghe deriva dalla loro attitudine a causare nel consumatore tolleranza (aumentata resistenza agli effetti stupefacenti, che induce ad un progressivo e costante incremento dei quantitativi assunti) e dipendenza (cd. craving, crescente ed infine compulsivo ed ineliminabile bisogno di consumare droga, la mancata assunzione determinando malessere, sofferenza ed anche vere e proprie crisi di astinenza). Ogni sostanza stupefacente provoca sull'assetto neuropsichico dell'assuntore una serie di effetti ben individuati dalla scienza medica: attingendo alle definizioni coniate fin dal 1994 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, consultabili sul sito www.who.int, possiamo sinteticamente rilevare - con riferimento alle sostanze più diffuse - che l'eroina “produce analgesia, mutamenti di umore (ad esempio euforia, che può trasformarsi in apatia o disforia), depressioni del sistema respiratorio, sonnolenza, complicazioni psicomotorie, compromissione dell'eloquio, della concentrazione, della memoria e della capacità di giudizio”, oltre ad una elevata capacità di produrre dipendenza e di generare sindrome di astinenza; la cocaina stimola pesantemente il sistema nervoso centrale provocando una complessiva distorsione cognitiva e delle capacità recettive, con conseguente accentuazione della reattività mentale e fisica (euforia, facilità di relazione, incremento della libido, affievolimento di sensazioni quali fame, sete, stanchezza); il suo uso massivo provoca tachicardia, ipertensione e scompensi neuropsichiatrici (psicosi, delirio, allucinazioni); le anfetamine e l'ecstasy generano effetti simili a quelli della cocaina: euforia, benessere, diminuzione del senso della stanchezza e della fatica, aumento dell'empatia, della socialità, dell'emotività, allucinazioni; i derivati della cannabis, grazie all'interazione del principio attivo (tetraidrocannabinolo, o THC) con i recettori cannabinoidi presenti nell'encefalo, producono euforia, rilassamento e stanchezza, stimolano l'appetito, alterano le percezioni spazio-temporali e rallentano i tempi di reazione e le capacità di concentrazione e apprendimento, rendendo difficoltosi lo svolgimento di attività professionali e la guida; l'abuso dei derivati della cannabis può far insorgere schizofrenia o altre sintomatologie psicotiche. Ebbene, a provocare tutti i descritti effetti è il cd. principio attivo, una molecola presente in ogni sostanza stupefacente in livelli di concentrazione e con caratteristiche diverse: la maggiore o minore purezza è, invero, determinata tanto dai fattori naturali che influenzano il processo di produzione delle droghe di origine vegetale (ad esempio, due piante della stessa varietà di cannabis, messe a dimora l'una affianco all'altra, possono produrre THC in percentuali anche significativamente diverse), quanto dalle attività poste in essere da chi sovrintende alle operazioni di taglio, suddivisione e confezionamento delle dosi da destinare al mercato (ad esempio, il maggiore o minore quantitativo di lidocaina utilizzato per “tagliare” una partita di cocaina pura determina la maggiore o minore purezza delle singole dosi immesse nelle piazze di spaccio), ovvero da chi crea in laboratorio le droghe di origine sintetica (ad esempio, l'ecstasy). Dunque, calando le acquisizioni scientifiche nella quotidiana realtà processuale, quando, come nei casi oggetto delle due pronunce in commento, si contesti all'imputato la detenzione a fini di spaccio ovvero la cessione di ridotti quantitativi di stupefacente, ci si deve chiedere se possa affermarsene la responsabilità semplicemente limitandosi a constatare che la sostanza corrisponde ad una di quelle elencate nelle tabelle del Testo Unico, ovvero se si imponga una puntuale verifica della quantità, della qualità e dell'efficacia del principio attivo in essa contenuto, onde comprendere se, una volta veicolato nell'organismo, esso avrebbe potuto produrre l'effetto lesivo del bene giuridico della salute che la legge intende proteggere. Le soluzioni giuridiche
I dati ricavabili dall'esperienza giudiziaria insegnano che il giudice può fondare il proprio convincimento su elementi diversi dall'accertamento del principio attivo dello stupefacente (ad esempio, la confessione dell'imputato o le dichiarazioni dell'acquirente della sostanza: cfr., tra le più recenti pronunce di legittimità, le analitiche motivazioni di Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 2019, dep. 23 gennaio 2020, n. 2691), e finanche su elementi che prescindono dallo stesso rinvenimento nella disponibilità dell'imputato di sostanze stupefacenti (si pensi ai numerosi procedimenti cc.dd. di “droga parlata”, nei quali la contestazione si fonda sul solo contenuto delle conversazioni telefoniche o ambientali sottoposte a captazione: cfr., in merito al principio secondo cui “gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni” sono «fonte di prova diretta della colpevolezza dell'imputato che non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni», Cass. pen.,sez. IV, 19 novembre 2019, dep. 27 gennaio 2020, n. 3198). Tuttavia, in relazione a quei procedimenti nei quali sia oggetto di contestazione una condotta relativa ad un esiguo quantitativo di droga, i principi appena illustrati non possono trovare piana applicazione. Ed invero, per un verso è la scienza medica a dirci che al di sotto di una certa soglia di principio attivo, che è in concreto diversa da sostanza a sostanza, non è possibile parlare di sostanza stupefacente o psicotropa nel senso tipicamente e tassativamente definito dalla norma incriminatrice, trattandosi piuttosto di sostanza inerte, o comunque non in grado di cagionare nell'assuntore i tipici effetti di assuefazione, dipendenza e di stimolo ovvero di depressione del sistema nervoso centrale Per altro verso è lo stesso legislatore a valorizzare espressamente il dato relativo al quantitativo di principio attivo contenuto nella sostanza stupefacente, considerandolo - anche se solo con riferimento a cinque condotte tra quelle incriminate - elemento indiziario al quale il giudice può ricorrere per comprendere se l'imputato abbia agito a fini di spaccio, ovvero all'esclusivo scopo di soddisfare le esigenze di consumo personale: ed invero, dal combinato disposto degli articoli 73 e 75, comma 1-bis, del Testo Unico, e del decreto del Ministro della Salute dell'11 aprile 2006, si evince che, quando siano in contestazione le condotte di importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione, l'imputato può sfuggire dalla responsabilità penale fornendo la prova della destinazione della sostanza ad uso personale, prova che può fondarsi su molteplici elementi indiziari, il principale dei quali è quello ponderale: a tal fine il citato decreto ministeriale ha individuato il “limite massimo” entro il quale un quantitativo di droga può desumersi destinato all'autoconsumo (mg. 250 di principio attivo per l'eroina; mg. 500 di principio attivo per i derivati della cannabis; mg. 750 di principio attivo per l'ecstasy e la cocaina), ottenendolo attraverso la moltiplicazione per una cifra variabile (5 per l'ecstasy e la cocaina, 10 per l'eroina, 20 per i derivati della cannabis) del quantitativo di principio attivo idoneo a produrre l'effetto stupefacente in un soggetto tollerante e dipendente, individuato dalla Commissione di studio, all'uopo istituita presso il Ministero della Salute in mg. 25 di principio attivo per l'eroina, l'hashish e la marijuana, ed in mg. 150 di principio attivo per la cocaina e l'ecstasy. E' stato proprio quest'ultimo l'unico dato certo dal punto di vista scientifico che la Commissione di studio è stata in grado di fornire: quello della “dose media singola”, intesa come “la quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo”; come può leggersi nel preambolo del d.m. 11 aprile 2006, mentre i valori relativi alla dose media singola efficace sono espressione di evidenza scientifica, gli altri potenziali parametri (la frequenza media giornaliera delle assunzioni, la quantità di principio attivo assunta giornalmente, la dose media settimanale) presentano “margini di incertezza” che rendono necessari “ulteriori approfondimenti”. E' allora evidente che la contestazione dei delitti di importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione di droga, che si fondi sul parametro indiziario del superamento della soglia indicata nell'appena citato decreto ministeriale, deve essere supportata dall'esito di un esame tossicologico che abbia accertato la quantità di principio attivo contenuto nella sostanza. Peraltro, indipendentemente dal tenore letterale delle norme appena illustrate, è oramai opinione consolidata quella secondo cui l'accertamento della concreta capacità stupefacente della sostanza debba essere effettuato anche in relazione a tutte le altre fattispecie elencate dalla norma incriminatrice (coltivazione, produzione, vendita, cessione, ecc.), trovando il suo fondamento non tanto e non solo sul dato normativo settoriale, quanto soprattutto su uno dei cardini del nostro sistema penale, il principio di offensività. Frutto di una raffinata combinazione ermeneutica degli articoli 13, 25 comma 2, e 27 della Costituzione, il principio di offensività si rivolge tanto al legislatore, imponendogli – in ossequio all'esigenza che il sistema penale costituisca l'extrema ratio di tutela della società, circoscritta ai soli beni di rilievo costituzionale, sia pure in un'accezione “allargata” ai beni riferibili anche alla cd. costituzione “materiale” - di tipizzare fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse meritevole di tutela penale (c.d. offensività in astratto); quanto all'interprete, imponendogli di sanzionare solo il fatto che corrisponda a quello descritto dalla norma incriminatrice, e che possa altresì dirsi offensivo — sulla base di un accertamento da operarsi in concreto ed ex post — del bene giuridico tutelato dalla norma (c.d. offensività in concreto). L'indissolubile legame tra offensività e punibilità annulla, o comunque riduce in maniera rassicurante, la possibilità di ravvisare uno iato tra conformità del fatto al tipo legale ed effettiva aggressione ai beni giuridici tutelati, escludendo dall'area dell'incriminazione condotte di mera disobbedienza: come statuito in una nota pronuncia del Giudice delle leggi, «spetta al giudice, dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene o i beni tutelati attraverso l'incriminazione di una fattispecie tipica, determinare, in concreto, ciò che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni in discussione, è fuori dal penalmente rilevante» (Corte costituzionale, sentenza n. 62/1986; cfr., altresì, tra le più interessanti pronunce della Consulta in argomento, le sentenze nn. 437/1989, e 225/2008). Calando questi principi alla fattispecie in esame, deve ritenersi del tutto insufficiente, ai fini dell'affermazione della responsabilità dell'imputato, il solo dato relativo alla natura ed alla tipologia della sostanza stupefacente: a questo accertamento - soprattutto ove il fatto in contestazione abbia ad oggetto un esiguo quantitativo di droga - si deve necessariamente affiancare quello relativo al principio attivo, poiché una condotta relativa a sostanza che non è in grado di esplicare un effetto drogante non può ritenersi realmente offensiva dei beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice. Il principio è condiviso dalla unanime dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, da ultimo con le due pronunce oggi in commento. Tanto nella sentenza n. 20950/23, quanto in quella n. 26523/23, la Corte ha, invero, evidenziato che “ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, è necessario accertare la reale offensività della condotta, il che si realizza con la dimostrazione che la sostanza contenga principio attivo suscettibile di produrre in concreto un effetto drogante. Ove manchi la dimostrazione dell'effetto drogante, in un contesto di cessione della sostanza, ci si troverebbe al cospetto di un reato impossibile ex art. 49,comma 2, c.p. per inidoneità dell'azione o inesistenza dell'oggetto, che esclude la punibilità del fatto”, concludendo nel senso che «nella valutazione della rilevanza penale delle condotte aventi ad oggetto stupefacenti, occorre sempre verificare, nel rispetto del principio di offensività, che in concreto la sostanza oggetto di cessione abbia una reale efficacia drogante, ossia una effettiva attitudine a produrre effetti psicotropi». Osservazioni
Se il principio fin qui illustrato può ritenersi oramai univoco, non vi è analoga identità di vedute in merito ai parametri ai quali affidarsi per la sua concreta applicazione: ciò in quanto, come con sempre maggiore chiarezza afferma la scienza medica, è molto difficile – se non impossibile – predeterminare con formule generali ed astratte gli esatti confini della cd. soglia drogante. Ed invero, per ritenere che il fatto non abbia offeso il bene giuridico della salute, si deve essere nelle condizioni di affermare che esso ha avuto ad oggetto una sostanza che, a cagione dell'esiguità del principio attivo, non era idonea a produrre alcun effetto psicotropo. Per dare dignità scientifica a questa affermazione, tuttavia, si dovrebbe disporre di un dato ben preciso: quello relativo alla quantità minima di principio attivo che produce l'effetto tipico di ogni sostanza. Ebbene, la scienza non offre all'interprete dati assoluti ed affidabili: la dose drogante, quella idonea a produrre nel consumatore l'effetto tipico della sostanza stupefacente, varia da individuo a individuo (ad esempio, uno spinello contenente 1 grammo di marijuana al 2,5% di THC e, dunque, 25 milligrammi di tetraidrocannabinolo, non ha lo stesso effetto su una ragazza che pesa kg. 50 e su un uomo che pesa kg. 100, perché la sostanza viene assorbita e distribuita nell'organismo in modo molto diverso) e, in relazione alla stessa categoria di individui (stesso sesso, stessa età, analoga struttura fisica), varia tanto in conseguenza di fattori contingenti (ad es. lo stato di salute, l'assunzione a digiuno piuttosto che a stomaco pieno, l'interazione con altre sostanze), quanto alla luce del grado di assuefazione di ciascun singolo assuntore (come si è già detto, la tolleranza dell'organismo alla sostanza aumenta man mano che il consumatore reitera nel tempo l'assunzione, per cui lo stesso individuo, per raggiungere l'effetto drogante, deve assumerne quantitativi ogni volta più consistenti). L'insufficiente grado di certezza del dato scientifico ha avuto inevitabili riflessi tanto nella tecnica di redazione del testo legislativo - il Testo Unico non fornisce elementi al riguardo: le tabelle indicano le sostanze vietate ed i loro principi attivi, senza fare alcun riferimento a quantitativi o a soglie minime (a differenza di quanto, ad esempio, accade nel codice della strada, ove l'art. 186 incrimina la condotta di guida in stato di ebbrezza individuando ben precise soglie del tasso alcolemico, ricollegando al loro superamento conseguenze di natura amministrativa o penale) –, quanto, a cascata, nell'elaborazione giurisprudenziale relativa al concreto modo di operare del principio di offensività. Prima dell'arresto delle Sezioni Unite del 1998 del quale si sta per dire, il prevalente orientamento di legittimità configurava un reato impossibile nel caso in cui il principio attivo contenuto nella sostanza stupefacente oggetto di contestazione fosse stato così scarso da essere inidoneo a produrre un effetto drogante nell'assuntore: il legislatore, si diceva, ha incriminato i fatti di produzione e traffico di droghe non già per l'azione in sé e per sé considerata, bensì per gli effetti che ciascuna sostanza è in grado di provocare nel consumatore finale, di modo che nessun reato può configurarsi in presenza di un principio attivo talmente esiguo da essere prossimo allo zero (cfr., per tutte, Cass. pen.,sez. IV, 28 febbraio 1997, n. 601). L'orientamento minoritario riteneva, invece, tali condotte comunque idonee ad integrare la fattispecie prevista e punita dall'art. 73 del Testo Unico: il quadro normativo – si affermava - non contiene l'indicazione di alcun limite minimo, al di sotto del quale il quantitativo della sostanza ceduta può ritenersi insufficiente ai fini della punibilità (cfr., tra le altre, Cass. pen., sez. I, 20 febbraio 1987, Strazzullo, e Sez. VI, 22 settembre 1989, n. 17744). Chiamate a comporre il contrasto interpretativo, le Sezioni Unite Kremi (sentenza n. 9973 del 24 giugno 1998) ritennero penalmente rilevante la cessione avente ad oggetto un quantitativo di sostanza stupefacente contenente un principio attivo modesto ed esiguo, precisando che «la valutazione da compiere ... al fine di ritenere intrinsecamente inidonea, in senso assoluto, l'azione dello spacciatore è quella che riguarda la condizione soggettiva dell'assuntore in relazione al peso corporeo, all'età, alla reattività al prodotto ed al comportamento del medesimo in ordine alle modalità di assunzione, valutate in negativo, in misura cioè corrispondente alle condizioni minime di resistenza alla tossicità del prodotto». La tesi dell'inerzia della sostanza stupefacente caratterizzata da esigue percentuali di principio attivo fu ritenuta fallace, poiché «basata sull'erroneo presupposto che il bene giuridico della salute pubblica, ricompreso tra quelli oggetto della tutela penale di cui trattasi, non sia suscettibile di essere messo in pericolo dall'assunzione di sostanze elencate come stupefacenti o psicotrope che non superino la cosiddetta soglia drogante»: assunto — osservarono criticamente le Sezioni Unite — in contrasto con le acquisizioni scientifiche, secondo le quali «le sostanze in questione agiscono esplicando un'attività farmacologica a danno del sistema nervoso centrale e sono idonee ad alterare le funzioni psichiche quando l'assuntore sia un soggetto debole e giovane». Poiché, dunque, l'inidoneità dell'azione deve apprezzarsi in relazione ai beni oggetto della tutela penale, «individuabili in quelli della salute pubblica, della sicurezza e dell'ordine pubblico, nonché della salvaguardia della giovani generazioni», si ritenne decisiva la circostanza che tali beni «sono messi in pericolo anche dallo spaccio di dosi contenenti un principio attivo al di sotto della soglia drogante sia per le considerazioni già svolte concernenti la salute pubblica, ulteriormente minacciata dal possibile impiego antigienico di determinati mezzi di assunzione, sia perché trattasi di attività riconducibile al mercato della droga, alimentato dalla cessione al consumatore finale, qualunque sia il quantitativo di volta in volta ceduto, ed attorno al quale prospera il fenomeno della criminalità organizzata». Nonostante l'autorevole intervento nomofilattico, la giurisprudenza successiva è rimasta oscillante, essendosi registrate, affianco a pronunce che recepirono il rigoroso dictum delle Sezioni Unite (cfr., tra le altre, Cass. pen., sez. VI, 13 maggio 1999, n. 6864, e 13 giugno 2001, n. 33576, dalle quali è stata tratta la seguente identica massima: “La circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta <soglia drogante>, in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha alcuna rilevanza ai fini della punibilità del fatto”), altre che hanno continuato a negare rilevanza penale alle condotte aventi ad oggetto sostanze contenenti una percentuale di principio attivo così bassa, da non poter produrre effetti stupefacenti (cfr. Cassazione penale, Sez. IV, 12 gennaio 2000, n. 3584). Né è stato risolutivo il nuovo intervento delle Sezioni Unite Di Rocco (sentenza n. 47472 del 20 dicembre 2007), che hanno ritenuto la questione controversa loro sottoposta priva di rilevanza in relazione al caso oggetto del concreto scrutinio, dato che il quantitativo di principio attivo della sostanza la cui cessione si contestava all'imputato (mg. 33 di eroina) era certamente idoneo a produrre un apprezzabile effetto stupefacente nel cessionario-assuntore, in quanto superiore al principio attivo della c.d. dose media singola (pari a mg. 25) individuato dal d.m. 11 aprile 2006. Indipendentemente dalle oscillazioni giurisprudenziali, un'analisi doverosamente compiuta alla luce dei beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice, induce a ritenere che lo spazio di operatività del principio di offensività debba essere ponderatamente circoscritto. Se, infatti, lo scopo dell'incriminazione è quello di reprimere il mercato illegale degli stupefacenti, di frustrare la cessione di sostanze psicoattive al consumatore finale, a prescindere dal quantitativo di volta in volta ceduto, poiché detta cessione alimenta e realizza la circolazione della droga e la sua illegale filiera, arrecando una lesione ai beni dell'ordine e della sicurezza pubblici, deve convenirsi circa il fatto che la tenuità del principio attivo è elemento in grado di incidere solo sulla maggiore o minore gravità di un reato comunque perfettamente integrato; peraltro, legittimare la cessione di piccoli quantitativi dal ridotto principio attivo potrebbe comportare il concreto rischio della subdola elusione della sanzione, ottenuta attraverso l'artificioso frazionamento delle dosi cedute. Allo stesso modo, alla luce dell'ulteriore — e principale — bene giuridico protetto, quello della salute, appare davvero arduo sostenere la completa inoffensività di una condotta relativa a sostanza stupefacente che abbia un minimo principio attivo, anche in considerazione del fatto che proprio i soggetti meritevoli della maggiore protezione — i più giovani — potrebbero essere avviati a fare uso di stupefacenti assumendo sostanze contenenti quantità minimali di principio attivo. Né possono essere di aiuto i parametri quantitativi indicati dal citato d. m. 11 aprile 2006: mentre può sicuramente sostenersi che, al di sopra delle soglie individuate dall'Autorità amministrativa, la sostanza ha, indiscutibilmente, efficacia drogante, non può, con analogo grado di certezza sostenersi il contrario, ossia che una sostanza contenente principio attivo in misura inferiore alla cd. dose media singola (ad esempio, meno di mg. 25 di THC, ovvero meno di mg. 150 di cocaina pura) non è in grado di arrecare un'effettiva lesione al bene della salute. Si è, infatti, visto che quelle soglie sono state parametrate su un assuntore mediamente tollerante e dipendente di sostanze stupefacenti: esse non possono, dunque, dirci alcunché con riferimento ad un vasto settore dei potenziali tossicofili: quelli con un grado di tolleranza e dipendenza inferiore alla media, come ad esempio i minorenni. Non è, pertanto, vero, o, comunque, non è sempre vero che al di sotto di quelle soglie lo stupefacente non ha efficacia drogante: al contrario, anche una dose contenente principio attivo inferiore a quello indicato dal decreto ministeriale potrebbe produrre rilevantissime conseguenze su un assuntore non assuefatto, e conseguenze meno significative (ma pur sempre sussistenti) su un assuntore assuefatto. Poiché non si dispone di elementi scientificamente attendibili che consentano di individuare, una volta per tutte, la soglia drogante di ciascuna sostanza stupefacente, non può affermarsi, in via di principio, che una condotta relativa ad una sostanza caratterizzata da un principio attivo inferiore a quello della “dose media singola” è inidonea a ledere il bene giuridico della salute: «una configurazione dell'incriminazione in una guisa che prescindesse del tutto dal concreto effetto psicotropo — ha ribadito la Suprema Corte — finirebbe con il cancellarle il tratto più tipico della fattispecie, connesso, appunto, alla concreta attitudine ad influenzare in qualche (anche lieve) misura l'attività neuropsichica del consumatore. Pertanto la condotta è inoffensiva soltanto se essa è priva della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura assai limitata, minima, l'effetto psicotropo» (Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 2013, n. 22223). In conclusione, alla luce delle necessarie esigenze di salvaguardia dei beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice, la rilevanza penale dev'essere esclusa solo allorché possa ritenersi – indipendentemente dal superamento di soglie minime, che è impossibile predeterminare in maniera generale ed astratta – che la sostanza oggetto di contestazione sia radicalmente inidonea ad esplicare effetti droganti, e, dunque, a porre a repentaglio il bene giuridico protetto. A venire in rilievo sono i casi nei quali la sostanza, possedendo un principio attivo prossimo allo zero, non è in grado di incidere sull'assetto neuro-psichico dell'assuntore: non disponendosi di parametri oggettivi e predeterminati che guidino l'interprete nella delicata opera di individuazione delle soglie al di sotto delle quali le sostanze possono essere ritenute concretamente inoffensive pur se non del tutto inerti, il Giudice - onde evitare applicazioni arbitrarie o comunque interpretazioni soggettive della norma - dovrà servirsi dei dati scientifici (ivi compresi quelli ricavabili dal d.m. 11 aprile 2006, tenendo, tuttavia, ben presente che essi fanno riferimento a consumatori assuefatti), arricchendoli ove necessario con accertamenti specialistici, perché l'affermazione di responsabilità potrà intervenire solo se - con il grado di certezza preteso dall'art. 533 c. p. p. – sarà stato provato che la sostanza oggetto del fatto ascritto all'imputato aveva concreta efficacia drogante, possedendo un quantitativo di principio attivo comunque capace di determinare nell'assuntore gli effetti tipici di quello stupefacente. Il principio è stato più volte ribadito negli ultimi anni dalla Suprema Corte (cfr. ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2013, n. 8393, che ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di merito in relazione alla cessione di una dose di eroina con principio attivo pari a 3,2 milligrammi, rilevando che si trattava di un quantitativo sostanzialmente vicino allo zero, e dunque radicalmente inidoneo a provocare effetti droganti in qualsivoglia tipo di assuntore; cfr., altresì, Cass. pen., sez. VI, 11 dicembre 2019, n. 51600, che ha censurato la decisione dei giudici di appello, che avevano sostanzialmente eluso il motivo di gravame dei difensori dell'imputato, condannato per aver ceduto una dose di gr. 0,2 di eroina contenente appena 7 milligrammi di principio attivo), come rilevato anche dalle due sentenze oggi in commento [“questa Corte ha più volte affermato che il reato previsto dall'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è configurabile anche in relazione alla cessione di dosi inferiori a quella media singola di cui al d.m. 11 aprile 2006, con esclusione delle sole condotte afferenti a quantitativi di droga talmente minimi da non poter modificare, neppure in maniera trascurabile, l'assetto neuropsichico dell'utilizzatore (Sez. 6, n. 51600 del 11/12/2019, Ciccolella Vito, Rv. 277574 - 01; Sez. 4, Sentenza n. 43184 del 20/09/2013, Carioti e altri, Rv. 258095 - 01; Sez. 4, n. 21814 del 12/05/2010, Renna, Rv. 247478 - 01) … occorre, dunque, verificare non solo la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l'idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante (in questo senso Sez. 4, n. 4324 del 27/10/2015, dep. 2016, Mele, Rv. 265976 - 01, che ha annullato con rinvio la sentenza di condanna in quanto fondata esclusivamente sull'accertamento della tipologia di stupefacente e del dato ponderale lordo)], e di esso si trova traccia in due recenti pronunce del massimo consesso nomofilattico: la sentenza Castignani sulla commercializzazione dei derivati della cd. cannabis light (sentenza n. 30475 del 30 maggio 2019), secondo cui «ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l'idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante», e la sentenza Caruso sulla rilevanza penale di piccole coltivazioni “domestiche” di piante da stupefacenti (sentenza n. 12348/2019), che ha ritenuto in concreto inoffensiva la coltivazione dalla quale sia stata ricavata “sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”. Riferimenti
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