MAE: quando può essere rifiutata la consegna per il rischio di violazione dei diritti fondamentali della persona

Megi Trashaj
28 Febbraio 2023

La Suprema Corte, per dare risposta ad una doglianza proposta da un cittadino rumeno, deve stabilire se gli obblighi di cooperazione in capo agli Stati dell'Unione Europea consentano il rifiuto, ad opera della Corte d'appello italiana, di consegnare alle Autorità estere la persona a carico della quale è stato adottato il MAE qualora sussista il rischio che quest'ultima sia sottoposta – nel paese di destinazione – a trattamenti contrari al senso di umanità.
Massima

Nel caso di mandato di arresto europeo emesso dalla Romania, il recente Rapporto redatto, a seguito delle ispezioni del 2021, dal Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura è idoneo a dimostrare il generale rischio che il consegnando possa essere sottoposto nel paese di destinazione a pratiche inumane e degradanti, pertanto, la Corte d'appello deve accertare il trattamento che in concreto la Romania riserverà al “consegnando” prima di dare esecuzione alla richiesta proveniente dal Paese estero.

Il caso

Un cittadino rumeno, presente sul territorio italiano, veniva condannato nel paese d'origine alla pena di cinque anni e dieci mesi di reclusione per aver posto in essere, dal dicembre 2013 all'ottobre 2014, il reato di partecipazione ad associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti.

A suo carico era pertanto emesso un mandato di arresto europeo (cd. “MAE” o “euromandato”) e, in esecuzione dello stesso, egli si trovava in Italia privato della libertà personale dal luglio del 2022.

La Corte di Appello italiana, dunque, disponeva la consegna della persona all'Autorità Giudiziaria della Romania escludendo il rischio che il consegnando venisse sottoposto nel paese di destinazione a trattamenti inumani e degradanti. Più nello specifico, secondo la Corte, difettavano «documenti affidabili» dai quali desumere una simile evenienza.

Il cittadino rumeno proponeva ricorso per Cassazione lamentando la violazione dell'art. 2 della l. 69/2005 (che detta disposizioni in materia di mandato d'arresto europeo e procedure di consegna tra Stati membri) e della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

La questione

Risolta la tematica affrontata dalla Suprema Corte per dare risposta alla doglianza proposta dal cittadino rumeno, se ne aprono poi altre direttamente correlate alla prima: se vi è il sospetto che la persona all'estero sarà trattata in violazione dei suoi diritto fondamentali l'Italia “può” o “deve” rifiutare la consegna? Inoltre, come provare il pericolo che il consegnando possa essere sottoposto a pratiche disumane e degradanti? Ancora, rilevano solo prove relative al generale stato delle carceri nel Paese straniero di destinazione o è necessario guardare al caso concreto e dunque al regime a cui sarà sottoposta la singola persona da “consegnare”? Infine: quali sono nello specifico i “documenti” che potrebbero persuadere la Corte circa il rischio che l'uomo, fuori dai confini italiani, possa essere sottoposto a pratiche contrarie alla CEDU?

Le soluzioni giuridiche

Prima di addentrarci nell'analisi della soluzione offerta alla Cassazione ai quesiti posti dal caso in analisi, è utile qualche breve cenno alla disciplina applicabile al mandato d'arresto europeo, soprattutto perché essa è stata recentemente modificata e la Suprema Corte, nel decidere il ricorso, si sofferma proprio sulle questioni poste dalla novella legislativa.

Cominciando dalla definizione, il cd. MAE, a dispetto del nome, non costituisce un provvedimento emesso da un'autorità giudiziaria “europea” ma è un atto giudiziario adottato dalle competenti autorità di uno Stato membro dell'Unione Europea (cd. Paese “richiedente” o “emittente”) avente efficacia in altro Stato UE (cd. Paese “richiesto” o “d'esecuzione”) all'interno del quale si trova la persona ricercata (cd. “consegnando”), persona che deve eseguire nello Stato che adotta l'euromandato una misura coercitiva della sua libertà personale (sentenza di condanna o misura cautelare). In sintesi, il MAE rappresenta uno speciale tipo di “estradizione” e si pone come strumento di cooperazione tra gli Stati UE che grazie ad esso possono chiedere alle altre parti dell'Unione la “cattura” e la “consegna” di persone per fini di giustizia penale.

La disciplina del MAE è contenuta nella L. 69 del 2015 (che conforma l'ordinamento italiano alla decisione quadro 2002/584/GAI) e trova applicazione solo per gli Stati membri dell'UE, per gli altri deve farsi riferimento alle norme contenute nel Libro XI del c.p.p. (“Rapporti giurisdizionali con le autorità straniere”, artt. 696 c.p.p. e seguenti) e ad eventuali Convenzioni internazionali stipulate dall'Italia con altri Paesi.

Il d.lgs. 10/2021 (che detta “Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI”) ha recentemente rimodulato la L. 69 del 2015 in particolare, venendo al tema di nostro interesse, modificandone l'art. 18, che disciplina i motivi di rifiuto della consegna del ricercato.

Nello specifico, l'art. 18 della l. 69/2005 prevedeva il rifiuto alla consegna qualora vi fosse «un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti» (formulazione originaria dell'art. 18, lett. h, l. 69/2005) ma tale causa è venuta meno con il d.lgs. 10/2021 che però, al contempo, ha anche modificato l'art. 2 della l. 69/2005 il quale, nella formulazione attualmente vigente, dispone: «l'esecuzione del mandato di arresto europeo non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell'ordine costituzionale dello Stato o […] dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali». Proprio questo ‘gioco' di eliminazioni e aggiunte crea nell'interprete il dubbio: la Corte d'Appello può ancora rifiutare la consegna se si paventa il rischio che la persona sia sottoposta all'estero a trattamenti inumani?

La Cassazione, rispondendo alla doglianza del cittadino rumeno (il quale sosteneva che la sua “consegna” alle Autorità rumene lo avrebbe esposto al pericolo di subire trattamenti contrari all'art. 3 CEDU «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti»), dà risposta positiva così uniformandosi ad un recente precedente in materia: «sussiste una continuità normativa tra l'abrogato art. 18, lett. h), legge 69 del 2005 ed il novellato art. 2 della medesima legge» (in tal senso anche Cass. pen., sez. VI, 14 aprile 2021, n. 14220). Soluzione che, all'ingresso della normativa in vigore, gli interpreti davano quasi per scontata (in tal senso si veda Guido Colaiacovo, Mandato di arresto Europeo, in Lattanzi - Lupo, Codice di Procedura penale. Rassegna di Giurisprudenza e di dottrina, Giuffrè, 2021, pp. 517 ss.) stante anche il disposto dell'art. 696 ter c.p.p. che prevede la tutela dei diritti fondamentali della persona anche nell'ambito delle generali disposizioni relative al mutuo riconoscimento dei provvedimenti.

Circa la doverosità o meno del rifiuto ad opera dello Stato italiano di “consegnare” la persona che potrebbe essere sottoposta a trattamenti contrari al senso di umanità, deve segnalarsi che nella sentenza in commento, probabilmente, è rimasto un piccolo refuso. Scrive la Corte: «il motivo di rifiuto per il pericolo di trattamenti inumani e degradanti, è oggi previsto come facoltativo» per poi affermare, subito dopo, la continuità normativa tra l'art. 2 della l. 69/2015 e i (vecchi) casi di rifiuto obbligatorio e che l'omessa istruttoria integrativa (altro istituto disciplinato dall'art. 16 l. 69/2015) può sì (essa) ritenersi facoltativa ma non deve rivelarsi violazione del già menzionato art. 2 l. 69/2015, segno quindi che la disposizione a tutela dei diritti fondamentali non possa essere considerata una ‘facoltà'.

Sciolto il primo nodo, nel senso dell'ammissibilità (rectius della ‘doverosità') del rifiuto alla “consegna” in caso di pericolo di trattamenti disumani, è necessario comprendere come debba essere provato in giudizio il rischio – che il consegnando correrebbe nel paese estero – di essere sottoposto a trattamenti contrari ai diritti ‘insormontabili' della persona.

La giurisprudenza in materia di onere probatorio in relazione di MAE e consegna contraria ai principi EDU comincia a diventare copiosa proprio in relazione alle richieste di “consegna” provenienti dalla Romania.

Si ricorderà, infatti, che la Corte EDU già dal 2014 si è pronunciata sulle pessime condizioni dei detenuti in Romania (casi Bujorean, Constantin Aurelian Burlacu e Mihai Laurentiu Marin c. Romania) rilevate anche dal Rapporto pubblicato dal Consiglio d'Europa del 2015. Con la cd. sentenza-pilota del 2017 (caso Rezmives c. Romania) la Corte EDU, poi, ha rivelato la presenza nello Stato di criticità con riferimento al sovraffollamento carcerario e alle condizioni di detenzione richiedendo al Paese l'adozione di azioni per la risoluzione di tali problematiche. Da lì le autorità locali hanno iniziato ad attuare il Piano per far fronte alle criticità (come rilevato da Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 2021 n. 10822), nel frattempo, però, lo Stato italiano veniva richiesto (attraverso euromandati) di procedere alla “consegna” di persone verso quello rumeno.

Tornando al problema probatorio e analizzando la giurisprudenza in materia (che per il vero non si sviluppa solo con riferimento alla Romania) potremmo scorgere un procedimento a doppio step: prima è necessario che il consegnando dimostri il «generale rischio di trattamenti inumani e degradanti da parte dello Stato membro» (Cass. pen., sez. VI, 14 aprile 2021, n. 14220); in seconda battuta l'autorità giudiziaria italiana potrà chiedere allo Stato emittente qualsiasi informazione per verificare se «in concreto, la persona oggetto del m.a.e. potrà̀ essere sottoposta ad un trattamento inumano» (Cass. pen., sez. VI, 14 aprile 2021, n. 14220; sul punto si veda anche Cass. pen., sez. VI, 22 febbraio 2020, n. 7979) così da potersi eseguire «un'indagine “mirata”, volta cioè a stabilire se, nel caso concreto, l'interessato alla consegna sarà sottoposto ad un trattamento inumano o degradante» (Cass. pen., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277).

Soffermiamo l'attenzione sul primo step, posto che è necessario un suo superamento per poter arrivare al secondo. Come può la persona che deve essere “consegnata” introdurre elementi utili alla Corte per affermare il rischio (generale) di trattamenti contrari alla CEDU nel paese di destinazione? Per dar risposta al quesito, al fine di ampliare lo spettro di analisi, possiamo fare anche riferimento a decisioni adottate per ambiti extra UE (come poc'anzi affermato, infatti, il divieto di “consegnare” persone che potrebbero essere sottoposte a trattamenti contrari alla CEDU non vale solo per le persone “richieste” da Stati membri dell'UE).

Nella giurisprudenza della Suprema Corte a questo fine ha valorizzato:

  1. le precedenti (e recenti) sentenze della Corte EDU che «hanno constatato la violazione dell'art. 3 della Convenzione in relazione al trattamento dei detenuti» (Cass. pen., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277, Stato richiedente Romania);
  2. i rapporti pubblicati dal Comitato del Consiglio d'Europa sulla Prevenzione della tortura e trattamenti inumani e degradanti (Cass. pen., sez. VI, 4 dicembre 2019, n. 12213, Stato richiedente Albania);
  3. i «dati esposti nel rapporto Space»(Cass. pen., sez. VI, 11 gennaio 2022, n. 766, Stato richiedente Repubblica di Malta);
  4. la «inchiesta giornalistica di un quotidiano italiano riguardo all'esistenza di pratiche di tortura ed atti di violenza diffusi in numerosi istituti di pena dello Stato richiedente» e gli esiti di una recente «visita ispettiva effettuata […] in numerosi centri penitenziari russi dal Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa» (Cass. pen., sez. VI, 30 marzo 2022, n. 18044, Stato richiedente Russia).

Non sarebbero, invece, persuasive:

  1. la sentenza della «Grande Camera della Corte di Strasburgo del 2010, riferita ad episodio assai remoto, legato alla condotta di due agenti di polizia che avevano tentato di estorcere alla vittima una confessione» perché non pone in evidenza un «pericolo di tipo sistemico» in relazione alla violazione dei diritti umani (Cass. pen., sez. VI, 7 dicembre 2021, n. 45432, Stato richiedente Germania);
  2. le «decisioni della Corte EDU nei confronti della Repubblica di Polonia che riguardano detenuti ritenuti pericolosi» qualora non sia spiegato il nesso tra quelle decisioni e il consegnando (Cass. pen., sez. VI, 4 gennaio 2018, n. 120).

Torniamo al caso in analisi. La difesa della persona colpita dal MAE produceva alla Corte d'Appello il Rapporto redatto dal Comitato del Consiglio d'Europa per la prevenzione della tortura che nei mesi dal marzo al maggio 2021 aveva eseguito verifiche in istituti rumeni e constatava che i miglioramenti post sentenza-pilota CEDU «non avevano condotto alla risoluzione definitiva dei problemi». In particolare, «il Rapporto evidenziava […] “le condizioni materiali erano generalmente scadenti in tutte le carceri visitate: celle fatiscenti e prive di mobilio, materassi e lenzuola consunti, e infestati dalla cimici […] presunti maltrattamenti fisici inflitti ai detenuti dal personale penitenziario in particolare da gruppi di intervento mascherati […] numerose persone ripetutamente percosse sulla pianta dei piedi, metodo di tortura conosciuto con il nome di falaka”».

Secondo la Suprema Corte, dunque, la difesa, nel caso di specie, avrebbe prodotto «documenti affidabili» che dovevano portare i Giudici ad espletare quello che abbiamo chiamato “secondo step” e dunque «ad acquisire informazioni in merito al trattamento detentivo che sarà riservato al consegnando al fine di scongiurare il rischio di sottoposizione a trattamenti disumani o degradanti».

Accolte le doglianze del ricorrente, però, la Cassazione non può concludere secondo la prospettazione del cittadino rumeno con un annullamento senza rinvio: «i rilievi sulle condizioni negative, sia pure generalizzate» non sono di per sé ostativi «alla pronuncia di consegna», ne deriva l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello per un nuovo giudizio che dovrà tenere in considerazione il trattamento sanzionatorio che lo Stato rumeno applicherà alla persona colpita del caso di specie dal MAE.

Osservazioni

Con una recente sentenza la stessa Corte di Cassazione ha deciso un caso simile a quello sottoposto ad analisi nel presente contributo, scrivendo «questa Corte ha ritenuto che le condizioni carcerarie assicurate dalla Romania alle persone richieste allo Stato italiano per l'esecuzione della pena detentiva, secondo un protocollo oramai costante e standardizzato ai parametri indicati dall'autorità̀ giudiziaria italiana, sin dalla sentenza Cass. pen., sez. VI, 1 giugno 2016, n. 23277 Barbu, Rv. 267296, siano in grado di escludere il rischio della loro sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti (Cass. pen., sez. VI, 15 novembre 2020, n. 28863).

Fortunatamente per il consegnando del caso sottoposto all'analisi, nel frattempo, il Compitato del Consiglio d'Europa ha eseguito nuove ispezioni e redatto un report, altrimenti (forse) si sarebbe rimasti alla primordiale idea per cui dopo gli interventi della CEDU lo Stato rumeno avesse intrapreso (e realizzato) percorsi di miglioramento.

Avviciniamoci di più al periodo temporale in cui sono state fatte le nuove ispezioni ad opera del Comitato del Consiglio d'Europa sulle carceri in Romania (marzo – maggio 2021) e guardiamo ad un altro caso deciso dalla Suprema Corte: nel gennaio 2021 la Corte di Appello di Bari accoglieva la richiesta di consegna avanzata dall'Autorità giudiziaria rumena in base ad un MAE volto all'esecuzione di una sentenza di condanna (pronunciata nello Stato estero) a un anno e dieci giorni di reclusione nei confronti di un cittadino rumeno (per i reati puniti dal codice penale rumeno di uso di atto falso, guida senza patente e in stato di ebbrezza).

Anche in quell'ipotesi la persona ricercata proponeva ricorso affermando il rischio di essere sottoposto a trattamenti contrari al senso di umanità nel Paese di destinazione. La Cassazione (statuendo sul «generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro») osservava «come già affermato più volte da questa Corte […] la situazione carceraria nello Stato rumeno è tuttavia obiettivamente mutata e di tale cambiamento dà atto la presentazione il 25 gennaio 2018 di un Piano d'azione per contrastare le criticità riscontrate dalla sentenza pilota della Corte EDU» (Cass. pen., sez. VI, 15 aprile 2021, n. 14416).

Parole, queste, scritte proprio ad aprile 2021 (la citata sentenza è di quel mese) mentre il Comitato del Consiglio d'Europa accertava che «i miglioramenti pianificati dallo Stato rumeno non avevano condotto alla risoluzione definitiva dei problemi strutturali di penitenziari rumeni». In effetti, che la Romania potesse risolvere dei problemi «strutturali» in un paio di anni pare alquanto strano considerati – per esempio – gli sforzi che lo Stato italiano porta avanti orami da tempo per risolvere i (suoi) problemi in materia penitenziaria. Sul tema si consenta almeno il richiamo agli ultimi dati (2022) pubblicati dal Rapporto Antigone relativo ai penitenziari italiani: «alcuni istituti presentano tassi di affollamento analoghi a quelli che si registravano al tempo della condanna dell'Italia da parte della CEDU. Per restare in Lombardia a fine marzo l'affollamento a Varese era del 164%, a Bergamo e a Busto Arsizio del 165% e a Brescia “Canton Monbello” addirittura del 185%».

Per concludere, è da guardare con favore la Sentenza oggetto di commento nel presente contributo: la Suprema Corte ha rimesso in discussione, dopo anni, l'idea secondo cui la situazione “generale” delle carceri rumene sia conforme agli standard CEDU. Non può dirsi altrettanto, purtroppo, con riferimento a quel filone giurisprudenziale precedente (sul punto si è vista la Cass. pen., sez. VI, 15 aprile 2021, n. 14416) che tendeva a valutare positivamente la situazione penitenziaria rumena alla luce di un Piano d'azione messo a punto dal governo estero ma, a quanto pare, non ancora giunto a buon esito. Più in generale, rimesso al “consegnando” l'onere di provare il “rischio generale” di trattamenti inumani nelle carceri straniere – in un'epoca in cui peraltro rapporti e relazioni delle Istituzioni sono per lo più pubblici e facilmente accessibili – porta con sé il pericolo che nel caso di una difesa poco accorta il detenuto possa essere poi “consegnato” all'autorità estera e, di conseguenza, sottoposto a trattamenti contrari al senso di umanità.

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