Accesso al patteggiamento e reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”
25 Gennaio 2023
Massima
La preclusione al patteggiamento, posta dall'art. 13-bis, comma 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per il caso di mancata estinzione del debito tributario prima dell'apertura del dibattimento, opera anche con riferimento al delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all'art. 8 del citato d.lgs. Il caso
Con sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 444 c.p.p., il Tribunale applicava all'imputato la pena concordata per il delitto di cui all'art. 8 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in ragione della accertata emissione, con più azione esecutive di un medesimo disegno criminoso [continuazione nella specie insussistente trattandosi di due fatture emesse nel corso del medesimo periodo di imposta], di fatture attestanti operazioni soggettivamente inesistenti, al fine di consentire, al destinatario delle medesime fatture, l'evasione dell'imposta sul valore aggiunto.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello territorialmente competente, censurandone la legittimità: a) per un verso, per violazione dell'art. 13-bis d.lgs. 74/2000, per avere il Giudice di primo grado errato nell'accogliere la richiesta di patteggiamento, non essendo stata soddisfatta la condizione prevista dall'art. 13-bis, comma 2 [ossia, l'estinzione del debito tributario con il pagamento dell'imposta dovuta, dei relativi interessi e delle prescritte sanzioni], operante, pur se entrata in vigore dopo la commissione del fatto di reato, poiché norma processuale di immediata applicazione e rilevante anche rispetto alla fattispecie delittuosa contestata [reato non ricompreso tra le ipotesi di non punibilità previste dall'art. 13], essendo questa idonea, trattandosi di reato [non di pericolo ma] di evento, a realizzare una evasione delle imposte;
b) per altro verso, per violazione dell'art. 12-bis d.lgs. 74/2000, non avendo il Tribunale disposto, con la sentenza impugnata, la confisca obbligatoria diretta e per equivalente del profitto del reato di cui all'art. 8, quantificabile nell'importo del tributo indicato nelle fatture emesse e non versato al Pubblio erario. La questione
L'accertamento demandato alla Corte di cassazione, in ragione delle critiche rivolte al provvedimento impugnato, riguardava, anzi tutto, l'idoneità del fatto di reato – cioè la condotta di emissione di fatture o altri documenti attestanti operazioni inesistenti [nella specie, soggettivamente inesistenti] – a generare un debito di imposta [nella specie, imposta sul valore aggiunto].
È infatti di immediata percezione lo stretto rapporto di consequenzialità fra l'esito positivo di detto accertamento e l'affermazione:
a) quanto all'accesso al “patteggiamento”, dell'applicabilità, anche rispetto alla fattispecie delittuosa di cui all'art. 8, della preclusione posta dall'art. 13-bis, comma 2 [con conseguente necessità del pagamento integrale del debito tributario (ovverosia, secondo quanto previsto dall'art. 13-bis, comma 1, dell'intera imposta evasa, dei relativi interessi e delle sanzioni previste dalla legislazione tributaria)];
b) quanto alla confisca di cui all'art. 12, dell'applicabilità, anche nel caso di condanna [o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 c.p.p.] per il delitto di cui all'art. 8, della confisca, non solo del prezzo del reato [eventualità, per vero, già ammessa dalla giurisprudenza di legittimità (si veda, da ultimo, Cass., sez. III, 4 maggio 2022, n. 17447, la quale in motivazione ha precisato, per un verso, che «il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può essere disposto sui beni dell'emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall'utilizzatore delle fatture», per altro verso, che a rilevare «per l'emittente è il compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, essendo prezzo del reato ciò che è dato o promesso per commetterlo» e, infine, che «solo in mancanza di acquisizioni processuali che consentano di determinare esattamente il prezzo del reato deve ritenersi corretto il sequestro preventivo, anche per equivalente, con riferimento a qualsiasi utilità, economicamente valutabile, immediatamente o mediatamente derivante dalla commissione del reato tributario, qualora accertata»], ma anche del profitto di detto reato, cioè a dire della maggiore imposta dovuta [e quindi evasa]. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione, accogliendo il primo motivo di ricorso [e ritenendo assorbito il secondo], ha annullato la sentenza affermando che «la preclusione al patteggiamento posta dall'art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74/2000 per il caso di mancata estinzione del debito tributario prima dell'apertura del dibattimento opera anche con riferimento all'art. 8 d.lgs. n. 74/2000».
A fondamento di tale assunto, la Corte [richiamando quanto già evidenziato da Cass. pen., sez. III, 30 marzo 2022, n. 11633] ha precisato:
a) che la condotta di emissione di fatture attestanti operazioni inesistenti genera un debito tributario, perché, ai sensi dell'art. 21, comma 7, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”;
b) che la citata disposizione costituisce attuazione dell'art. 203 della direttiva CE 2006/112 [già art. 21, § 1, lett. c), della direttiva 77/388/CEE, come modificata dalla direttiva 91/680/CEE] e, quindi, del principio [noto anche come principio “di formalità dell'imposta sul valore aggiunto”] per cui chiunque indica l'IVA in una fattura o in altro documento ad essa equipollente è debitore di tale imposta;
c) che, quindi, il soggetto che emette una fattura attestante una operazione inesistente è debitore dell'imposta sul valore aggiunto ivi indicata «indipendentemente da qualsiasi obbligo di versarla in ragione di un'operazione soggetta ad IVA»;
d) che, infatti, nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti, il tributo dovuto ai sensi dell'art. 21, comma 7, d.P.R. 633/1972 deve «essere considerato “fuori conto”», nel senso che l'obbligazione ad esso relativa deve essere «isolata» dall'obbligazione risultante dall'insieme delle operazioni commerciali soggette all'imposta de qua e «estraniata»dall'operare della compensazione [tra IVA richiesta in rivalsa (c.d. IVA “a valle”) ed IVA assolta o dovuta in rivalsa (c.d. IVA “a monte”)] che governa la detrazione d'imposta regolamentata dall'art. 19 del d.P.R. 633/1972;
e) che, peraltro, «l'emittente di fatture fittizie non può giovarsi dell'emissione di una nota di credito per evitare il pagamento dell'IVA indebitamente fatturata», atteso che «la speciale procedura di variazione prevista dal d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, presuppone necessariamente, come si desume univocamente dalla considerazione della funzione perseguita dalla norma, che l'operazione per la quale sia stata emessa fattura, da rettificare perché venuta meno in tutto o in parte in conseguenza di uno degli specifici motivi indicati nel comma 2 della norma stessa, sia una operazione vera e reale e non già del tutto inesistente».
Talché, secondo la sentenza qui in commento, poiché la condotta di emissione di fatture per operazioni inesistenti genera, ex art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972, l'obbligo del pagamento dell'intera imposta indicata in fattura, anche laddove ad essere contestato è il reato di cui all'art. 8 d.lgs. 74/2000, «per poter accedere al patteggiamento è necessario il pagamento integrale dei debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie nonché il ravvedimento operoso, come previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, art. 13-bis, comma 2». Osservazioni
Si è efficacemente osservato che l'estinzione del debito tributario nei modi indicati dall'art. 13-bis, comma 1, d.lgs. 74/2000 [mediante, quindi, il pagamento dell'intera imposta dovuta, dei relativi interessi e delle conseguenti sanzioni] – che importa, sul piano del trattamento sanzionatorio, il riconoscimento della circostanza attenuante ad effetto speciale prevista dalla medesima disposizione di legge – laddove elevata, per il tramite dell'art. 13-bis comma 2 d.lgs. 74/2000, a «condizione per l'ammissibilità del patteggiamento» [l'espressione è di Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2020, n. 552], rappresenta “il volto oscuro della dimensione riscossiva del d.lgs. n. 74/2000 e costituisce un monito molto chiaro per l'imputato: se non estingui il debito tributario, non solo non potrai godere dell'esclusione o della riduzione della punibilità garantita dalle norme sostanziali, ma nemmeno di quella conseguente alla scelta processuale di accesso al c.d. patteggiamento» [A. Ingrassia, Circostanze attenuanti e cause di non punibilità. La voluntary disclosure, in I reati tributari (a cura di R. Bricchetti, P. Veneziani), 2017, pag. 553].
Peraltro, a ben leggere la motivazione della sentenza che si annota, il monito legislativo pare non avere limite nemmeno con riguardo alla fattispecie delittuosa di cui all'art. 8, giacché [come più sopra illustrato a sintesi della predetta sentenza] la condotta ivi tipizzata, ovverosia la emissione di fatture attestanti operazioni inesistenti, è tale da generare – stante la previsione, di cui all'art. 21, comma 7, d.P.R. 633/1972, di un obbligo di versamento – un debito d'imposta.
Per ciò solo, sempre secondo il pronunciamento in esame, «va superato» il diverso orientamento esegetico secondo il quale la condizione ostativa prevista dall'art. 13-bis, comma 2, è da ritenersi non applicabile alla fattispecie delittuosa di cui all'art. 8, poiché il «presupposto logico, prima ancora che giuridico, della condizione di accessibilità al patteggiamento è che le condotte determinino un debito tributario a carico del loro autore che questi possa assolvere, con la conseguenza che la condizione di ammissibilità del patteggiamento (…) non è applicabile in relazione ai reati, quali l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, che sussistono pur in assenza di un'evasione di imposta (…), tanto che in relazione a tali fattispecie non è stata ritenuta configurabile la circostanza attenuante di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 13-bis, comma 1» [così, letteralmente, Cass. pen., sez. III, 17 gennaio 2022, n. 1582; si veda, anche, la relazione dell'Ufficio del Massimario 28 ottobre 2015, n. III/05/2015, che ha stigmatizzato la «singolarità di un regime di accesso al rito riferito indistintamente a tutte le fattispecie di reato, incluse quelle di cui agli articoli 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili) che tuttavia, attesa la loro configurazione, non comportano evasione fiscale per il loro autore, e, plausibilmente, anche al reato di cui all'art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) configurato come reato a consumazione anticipata»].
Ora, precisato che in una pronuncia [di poco] successiva a quella qui in commento, il giudice di legittimità non ha mancato di [ri]dar seguito a quell'orientamento ermeneutico che la sentenza qui in rassegna ha ritenuto di dover superare [il riferimento è a Cass. pen., sez. III, 4 agosto 2022, n. 30706, non massimata, la quale in motivazione ha ribadito, in ragione delle argomentazioni testé ricordate, che «la condizione di ammissibilità del patteggiamento (…) non è applicabile in relazione ai reati, quali l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, che sussistono pur in assenza di un'evasione di imposta»], l'affermazione per cui, anche allorquando sia contestato il delitto di cui al citato art. 8, la possibilità di accedere al “rito del patteggiamento” debba ritenersi condizionatamente subordinata al pagamento integrale del debito tributario, è [a giudizio di chi scrive], se non errata, certamente bisognosa di precisazioni.
Se, infatti, la prospettata ricostruzione si fonda sull'assunto della idoneità della condotta di “emissione delle fatture per operazioni inesistenti” a determinare, stante la previsione di cui all'art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972, l'insorgenza dell'obbligo di versare, a beneficio dell'Erario, l'imposta indicata sulle predette fatture, deve sottolinearsi, almeno dando giusto seguito alla più recente giurisprudenza, come sia ben possibile affermare che il citato art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972 non è previsione dall'indiscriminata applicazione, ravvisandosi fattispecie in cui, pur in presenza di fatture attestanti operazioni inesistenti, non può dirsi sussistente, in capo al soggetto che ha rilasciato detti documenti, alcun debito tributario [men che meno scaturente dall'evocato obbligo di versamento previsto dalla evocata disposizione di legge].
Del resto, se è vero che l'art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972 è norma strumentale alla salvaguardia dell'interesse erariale alla percezione del tributo effettivamente dovuto, la cui integrità ben potrebbe essere lesa, nel caso di operazioni inesistenti, in conseguenza dell'indebita detrazione, da parte di chi ha “contabilizzato” la fattura attestante dette operazioni, dell'imposta assolta o dovuta in rivalsa [si veda, in termini, Corte di Giustizia dell'Unione Europea, 8 maggio 2019, C-712/17 e, ancor prima, Corte di Giustizia dell'Unione Europea, 31 gennaio 2013, C-642/11, la quale, in motivazione, sia pure trattando dell'art. 203 direttiva CE 2006/112 (di cui è attuazione l'art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972), ha affermato che l'obbligo di versamento del tributo previsto da detta diposizione «mira ad eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale che può derivare dal diritto a detrazione previsto dagli articoli 167 e segg. della richiamata direttiva»], è evidente che, laddove il suddetto interesse erariale mai sia stato esposto a pericolo di pregiudizio ovvero, ove leso, sia stato ristorato, la citata disposizione di cui all'art. 21 comma 7 non ha [ovvero ha esaurito la propria] ragion d'essere, giacché, in siffatte situazioni [in cui, lo si ripete, non v'è (o non v'è mai stato) rischio di pregiudizio del predetto pubblico interesse], l'adempimento dell'obbligo di versamento ivi previsto in altro non si tradurrebbe se non in una forma di “indebito arricchimento erariale”.
Oltremodo significativo, al riguardo, è quanto è dato leggersi in Cass. civ., sez. trib., 12 marzo 2020, n. 7080, ove la Corte, richiamando precedenti arresti della giurisprudenza nazionale e comunitaria [il riferimento, fra gli altri, è a Cass. civ., sez. trib., 18 aprile 2019, n. 10974], ha avuto modo di affermare, a compendio del «quadro normativo (…) concernente il regime fiscale connesso alla emissione di fattura per operazione in tutto o in parte inesistente», che:
a) il destinatario della predetta fattura «non è legittimato a portare in detrazione l'IVA indebitamente fatturata, laddove non sussista - o non venga ripristinato con procedura di variazione o ancora non sia possibile ripristinare - la corrispondenza tra rappresentazione cartolare e reale operazione economica, fatta salva in ogni caso la “buona fede” del destinatario»;
b) l'emittente della predetta fattura è tenuto, quale soggetto passivo dell'imposta, «a versare l'IVA liquidata in fattura (…), nel caso in cui non abbia tempestivamente provveduto ad avvalersi della specifica disciplina» dettata dall'art. 26 d.P.R. 633/1972 al fine di emendare gli errori concernenti la emissione o la indicazione dei dati riportati nella fattura [anche in tal caso, infatti, il ripristino della corrispondenza tra realtà economica e rappresentazione cartolare della stessa, «riconduce a regolarità il funzionamento del “sistema IVA”, consentendo l'applicazione della esatta imposta dovuta (ed il rimborso di quella eventualmente versata in eccedenza dal soggetto passivo) ed il corretto esercizio del diritto a detrazione, da parte del destinatario della fattura emendata da errori»]; c) la inottemperanza dell'emittente agli adempimenti richiesti dalla citata normativa per provvedere alla correzione od all'annullamento della fattura erroneamente emessa, non assurge tuttavia a«condizione integrativa della pretesa (…) del pagamento della imposta erroneamente liquidata nella fattura, laddove (…) risulti che sia stato in tempo utile definitivamente eliminato qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale, perdita che si verifica allorché il destinatario della fattura - erroneamente emessa o nella quale è stata indebitamente liquidata l'imposta - abbia esercitato in base a tale documento il diritto alla detrazione (o al rimborso), o comunque possa attualmente esercitare tale diritto»:
E tratteggiando le ipotesi in cui l'anzidetto rischio di perdita del gettito erariale deve ritenersi inesistente, la medesima giurisprudenza in rassegna ha precisato che v'è definitiva eliminazione di detto rischio, non soloquando «risulti accertato che la fattura o il documento ad essa considerato equipollente non sia stata “emessa” ai sensi dell'art. 21, comma 1 d.P.R. n. 633/1972», ma altresì quando «la fattura erroneamente “emessa” sia stata tempestivamente ritirata dal destinatario senza che questi ne abbia fatto uso fiscale (annotandola nel registro acquisti od in altre scritture contabili destinate ad evidenziare il diritto alla detrazione)», o ancora «quando l'Amministrazione finanziaria (anche a seguito di segnalazione dello stesso emittente, ovvero nell'esercizio dei poteri di verifica di ufficio) abbia contestato e definitivamente disconosciuto con provvedimento divenuto definitivo - o riconosciuto legittimo con accertamento passato in giudicato - il diritto alla detrazione vantato dal destinatario della predetta fattura».
Orbene, volendo dar seguito alle pronunce anzidette, può affermarsi che, laddove, ad esempio, si versi in una ipotesi di emissione di fatture attestanti operazioni inesistenti, di cui il destinatario non si sia poi avvalso nei termini indicati dall'art. 2, comma 2, d.lgs. 74/2000, ferma restando, per un verso [e nel concorso di ogni altro requisito normativamente prescritto], la rilevanza penale ex art. 8 [trattandosi di fattispecie per il cui perfezionamento non è necessario «che il documento pervenga al destinatario, né che quest'ultimo lo utilizzi» (così, letteralmente, Cass., sez. III, 22 giugno 2016, n. 25816)] della predetta condotta di emissione e, per altro verso, la non configurabilità, in capo al destinatario della fattura, del reato di cui all'art. 2 d.lgs. 74/2000, l'accesso al rito del “patteggiamento” non può certo dirsi condizionato alla estinzione del debito tributario nei termini di cui all'art. 13-bis, comma 2, giacché – essendo stato «in tempo utile definitivamente eliminato qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale» [della fattura, infatti, il destinatario non ne ha «fatto uso fiscale (annotandola nel registro acquisti od in altre scritture contabili destinate ad evidenziare il diritto alla detrazione)»] – alcun debito di imposta può dirsi sussistente in capo al soggetto che ha emesso la fattura, nemmanco ai sensi dell'art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972.
Analogamente, peraltro, pare potersi dire [almeno stando alla lettera della giurisprudenza citata] con riguardo a quelle fattispecie in cui «l'Amministrazione finanziaria (…) abbia contestato e definitivamente disconosciuto con provvedimento divenuto definitivo (…) il diritto alla detrazione vantato dal destinatario della predetta fattura».
Se, infatti, anche al ricorrere di tale eventualità, deve ritenersi «eliminato qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale», pare potersi ritenere che, allorquando della fattura attestante operazioni inesistenti il destinatario se ne sia avvalso nei termini indicati dall'art. 2, comma 2, d.lgs. 74/2000 e la detrazione di imposta dal medesimo esercitata sia stata disconosciuta dall'Amministrazione Finanziaria con provvedimento divenuto definitivo, ferma restando la sanzionabilità della condotta di utilizzazione ai sensi dell'art. 2 e della condotta di emissione ai sensi dell'art. 8, è l'accesso al rito “del patteggiamento” per il delitto di “frode fiscale” [art. 2] ad essere subordinato alla estinzione del debito tributario [quello per imposta, interessi e sanzioni accertate ed irrogate a mezzo del citato provvedimento], non certo quello per il delitto di cui all'art. 8, non operando, nei confronti del soggetto che ha emesso la fattura “per operazioni inesistenti”, la previsione di cui all'art. 21 comma 7 d.P.R. 633/1972.
Che, quindi, allorquando sia contestato il delitto di cui all'art. 8, l'accesso al rito del “patteggiamento” debba dirsi condizionato alla estinzione del debito tributario è affermazione di per sé corretta ma non certo valevole in termini assoluti, sussistendo fattispecie in cui, nemmeno ai sensi e per gli effetti dell'art. 21 comma 7 d.P.R., il soggetto che ha emesso la fattura attestante una operazione inesistente può dirsi debitore d'imposta.
A divenire dirimente, pertanto, è l'accertamento, in concreto, che il «rischio di perdita di gettito fiscale» che necessariamente consegue alla condotta di emissione di fatture attestanti operazioni inesistenti e che sussiste fintantoché il destinatario delle medesime fatture possa esercitare il diritto alla detrazione], sia stato «definitivamente eliminato», o meno: solo in detta eventualità, infatti, sussistendo, in capo al soggetto che ha emesso le anzidette fatture, un debito d'imposta, l'accesso al rito del “patteggiamento” può dirsi, per il predetto soggetto, condizionato alla estinzione del debito tributario.
Da ultimo, non pare inopportuno evidenziare, ponendo mente a quanto, come detto, è dato leggersi nelle motivazioni di Cass. pen., sez. III, 4 agosto 2022, n. 30706 [non massimata e successiva alla pronuncia qui in commento], la necessità che la Suprema Corte, dato atto del contrasto interpretativo venutosi a creare, ne fornisca, eventualmente nella Sua composizione a Sezioni Unite, univoca soluzione. |