Omessa traduzione della sentenza e restituzione nel termine per impugnare
05 Settembre 2022
Massima
Quando non è stato adempiuto l'onere di traduzione della sentenza di primo grado o di quella di appello, l'imputato alloglotto può, se lo ritiene necessario, chiedere al tribunale o alla corte di appello la restituzione nel termine per impugnare correlato alla traduzione della sentenza; tale richiesta deve essere effettuata entro dieci giorni dalla scadenza del termine per impugnare, ogni volta che si accerti l'omessa traduzione o l'omesso conferimento dell'incarico all'interprete. Il termine decorrerà, in ogni caso, dalla comunicazione all'imputato della sentenza a lui nota. Il caso
In seguito a conferma della condanna da parte del giudice d'appello, il difensore proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione dell'art. 143 c.p.p., in quanto nel corso di tutto il giudizio non era stata garantita al suo assistito una adeguata assistenza linguistica. In particolare, non solo era mancata l'assistenza di un interprete, ma all'imputato non era stata neppure garantita la traduzione degli atti a partire dall'avviso di conclusione delle indagini preliminari e fino alle sentenze di merito. Tali omissioni avevano impedito al soggetto di partecipare in modo consapevole al processo, generando delle nullità assolute. La questione
La Corte è stata chiamata a stabilire quale sia la conseguenza dell'omessa traduzione della sentenza: se tale omissione incida sulla validità dell'atto, generando una nullità - come sostiene il difensore del ricorrente - o piuttosto sulla sua efficacia. A propendere per quest'ultima soluzione l'unico effetto della omessa traduzione della sentenza sarebbe il mancato decorso del termine per impugnare. Le soluzioni giuridiche
La Corte aderisce all'orientamento secondo il quale la mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotto non configura una ipotesi di nullità, conseguendone unicamente l'effetto del mancato decorso dei termini di impugnazione poiché la traduzione integra una condizione di 'efficacia' e non di 'validità' dell'atto (Cass. pen., sez. V, 6 luglio 2020, n. 22065, Bhiari, RV 279447; Cass. pen., sez. V, 5 dicembre 2019, n. 45408, Kartivazde, RV 277775; Cass. pen., sez. III, 18 novembre 2015, n. 3859, Omaruyi, RV 266086). In effetti, la traduzione ha il limitato effetto di consentire all'imputato di prendere cognizione del percorso argomentativo posto a sostegno della decisione e di verificare se la stessa sia iniqua. E', dunque, funzionale a garantire l'esercizio consapevole del diritto di impugnazione da parte dell'imputato e produce il limitato effetto di far decorrere i relativi termini dal momento in cui questi abbia preso cognizione dell'atto nella lingua a lui nota.
Si tratta di un approdo ermeneutico al quale la Corte non si limita ad aderire, ritenendo necessarie alcune precisazioni in merito agli oneri che gravano sull'alloglotto che viene a conoscenza del difetto di traduzione, onde evitare le anomalie che lo 'slittamento' del termine per impugnare può generare.
Nello specifico, lo slittamento del termine per impugnare da un lato, impedisce il passaggio in giudicato della decisione, dall'altro, facendo decorrere in modo asimmetrico il termine per impugnare, dà vita ad un processo diacronico che - ove la distanza temporale tra la prima e la seconda impugnazione sia significativa - confligge con il principio della ragionevole durata del processo. Lo strumento che permette di evitare tali disfunzioni, garantendo al contempo il diritto alla traduzione è - secondo la Cassazione - l'istituto della restituzione nel termine.
Tale istituto serve a contrastare eventi indipendenti dalla volontà dell'imputato che impediscono il tempestivo esercizio dei diritti processuali. Tra gli eventi che non dipendono dall'imputato rientra anche l'omessa traduzione della sentenza che in quanto imputabile ad una inefficienza dell'amministrazione può essere assimilata ad una causa di 'forza maggiore'.
In base a quanto previsto dall'art. 175 c.p.p., la richiesta per la restituzione nel termine deve essere presentata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello in cui è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore. Nel caso di specie, dunque, l'imputato alloglotto, non avendo ricevuto entro il termine per impugnare copia della sentenza tradotta, avrebbe dovuto chiedere nei dieci giorni successivi di essere restituito in tale termine, sollecitando al contempo la traduzione. Dal momento che nessuna richiesta di restituzione nel termine era stata presentata né nel giudizio di primo grado né nel secondo, la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Osservazioni
Come è noto l'attuale formulazione dell'art. 143 c.p.p. si deve alle modifiche apportate dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32 in recepimento della Direttiva (UE) 64/2010 che riconosce espressamente il diritto alla interpretazione e alla traduzione degli atti. Nel nostro sistema, prima di tale adeguamento normativo, si riteneva -per lo più- che il diritto all'assistenza dell'interprete non potesse che riguardare l'attività svolta in udienza e, quindi, avesse ad oggetto la sola comunicazione linguistica (Cass. pen., sez. VI, 4 marzo 2010, n. 18496, in Cass. pen., pen., 2012, 6, p. 2194; Cass. pen., sez. VI, 11 marzo 1993, Osagie Anuanru, RV 194023), ciò sebbene a livello di giurisprudenza convenzionale si registrasse una tendenza ad ampliare e rafforzare il contenuto dell'assistenza linguistica, ricomprendendo espressamente anche il diritto alla traduzione degli atti (Corte Edu, 19 dicembre 1989, Brozicek c. Italia e kamasinki c. Austria, Riv. intern. dir. uomo, 1990, p. 321). Un'importante presa di posizione, nella prospettiva di una lettura espansiva dell'art. 143 c.p.p., si ebbe da parte della Corte costituzionale che, nella sentenza interpretativa di rigetto n. 10 del 1993, affermò che «l'art. 143 c.p.p. va interpretato come una clausola generale, di ampia applicazione, destinata ad espandersi e a specificarsi, nell'ambito dei fini normativamente riconosciuti, di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano, quali il tipo di atto cui la persona sottoposta al procedimento deve partecipare ovvero il genere di ausilio di cui abbisogna». Questa chiara e autorevole indicazione non evitò spaccature in seno alla giurisprudenza riguardo alla tipologia di atti di cui fosse necessaria la traduzione. Mentre era piuttosto univoco che fosse dovuta la traduzione dell'avviso di conclusione delle indagini (Cass. pen., sez. un. 26 giugno 2006, Cieslinsky, in Dir. pen. proc., 2007, p. 468) e del decreto di citazione a giudizio (Cass. pen., sez. IV 15 dicembre 1999, Verdenas, RV 215662; Cass. pen., sez. I, 24 febbraio 2004, Rv 227235), più discussa era la necessità di tradurre la sentenza, ritenendosi che in ogni caso la omissione non determinasse una nullità ma piuttosto il differimento del decorso dei termini per l'impugnazione al momento in cui l'imputato avesse avuto cognizione della sentenza tradotta, ancorchè a sue spese (Cass. pen., sez. VI, 13 dicembre 2013, Zhou, RV 261828; Cass. pen., sez. IV, 19 marzo 2013, Gharby, RV 255694; in senso contrario Cass. pen., sez. I, 31 marzo 2010, n. 24514, in Arch nuova proc. pen., 2010, 6, p. 727 in cui si esclude che la mancata traduzione comporti la non esecutività della sentenza una volta scaduto il termine per l'impugnazione; Cass. pen., sez. VI, 23 novembre 2006, Timev, in Cass. pen., 2008, p. 702). Con la riforma dell'art. 143 c.p.p., si è contribuito a fare chiarezza, stabilendo l'obbligo – e il correlativo diritto – alla traduzione scritta di diversi atti tra cui le sentenze e i decreti penali di condanna. In ossequio a quanto previsto dalla Direttiva si è inoltre previsto che, a richiesta di parte, debba essere garantita la traduzione gratuita anche di altri atti «ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico». Se, dunque, attualmente la disciplina è chiara quanto all'ampiezza del diritto all'assistenza linguistica, dovendo essa coprire gli atti orali e gli atti scritti, e alla tipologia degli atti di cui deve essere garantita la traduzione, non altrettanto può dirsi per l'apparato sanzionatorio nel caso di violazioni. Ecco che la giurisprudenza, in applicazione di canoni generali, ripropone soluzioni già sperimentate: così, quanto all'omessa nomina dell'interprete, che si risolve in una violazione del diritto all'assistenza dell'imputato, cui è ricollegata una nullità generale a regime intermedio riconducibile al disposto dell'art. 178 lett. c c.p.p. (Cass. pen., sez. un. 24 settembre 2003, Zalagaitis, in Foro it., 2004, 6, c. 363; Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2017, Aissat, RV 269382; Cass. pen., sez. II, 9 giugno 2016, n. 26078, RV 267157; Cass. pen., sez. III, 24 maggio 2016, n. 5235, RV 269215; Cass. pen., sez. I, 11 marzo 2009, Ciucan, RV 243794; Cass. pen., Sez. IV, 4 dicembre 2006, Rodi, RV 235893; Cass. pen., sez. IV, 5 maggio 2004, Obwo, RV 228930). Quanto alla violazione del diritto alla traduzione, le conseguenze variano a seconda della natura dell'atto. In particolare, si ritiene che la mancata traduzione di un atto con funzione propulsiva (es. decreto che dispone il giudizio, avviso di fissazione dell'udienza preliminare), impedendo il compiuto esercizio del diritto di difesa, incida sulla validità dell'atto, generando una nullità (Cass. pen., sez. VI, 7 luglio 2021, Dutu, RV 281705), mentre l'omessa traduzione di un atto impugnabile (es. sentenza, ordinanza cautelare) incida sulla sua efficacia, impedendo il decorso dei termini di impugnazione. In sostanza, le esigenze di equità del processo, in caso di mancata traduzione di un atto impugnabile, risultano garantite dalla possibilità di attivazione di rimedi restitutori, identificabili nel differimento dei termini per l'impugnazione, calcolato dal momento in cui venga messo a disposizione dell'interessato il provvedimento tradotto. La pronuncia non pare discostarsi da quello che è l'orientamento prevalente (Cass. pen., sez. I, 19 maggio 2021, n. 32504, in Cass. pen., 2022, 1, p. 246 relativamente alla omessa traduzione del decreto di espulsione; Cass. pen., sez. II, 17 ottobre 2019, n. 45408, cit., Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 2018, n. 44842, in D&G, 16 novembre 2018; Cass. pen., sez. II, 11 marzo 2016, n. 13697, RV 266444; Cass. pen., sez. II, 11 marzo 2016, n. 13697, in D&G, 15 aprile 2016). Il suo valore aggiunto sta nell'aver ricondotto in termini chiari la decorrenza di un nuovo termine di impugnazione all'istanza di restituzione nel termine, assimilando la mancata traduzione della sentenza ad un evento impeditivo. Infatti, considerato che in base all'art. 175 comma 1 c.p.p. l'istanza di restituzione deve essere formulata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto impeditivo, risultano tutelate anche le esigenze di certezza e stabilità delle situazioni giuridiche, parimenti coinvolte, in quanto l'attivazione del soggetto interessato è soggetta a un termine perentorio. Tale ricostruzione ha, dunque, il pregio di evitare che la definitività della sentenza dipenda da una 'azione' processuale che se non sollecitata potrebbe non essere effettuata con conseguente pendenza sine die del termine per impugnare e difetto di esecutività della sentenza. Riferimenti
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