Fallimento dell'impresa familiare e coinvolgimento dei singoli familiari

Girolamo Lazoppina
17 Settembre 2021

Il fallimento dell'impresa familiare si estende automaticamente agli altri familiari?

Il fallimento dell'impresa familiare si estende automaticamente agli altri familiari?

Caso pratico - Un'impresa familiare ritarda da tempo il pagamento dei propri debiti. Uno dei creditori decide di presentare istanza di fallimento nei confronti di tutti i partecipanti all'impresa, e non solo del familiare che effettivamente la gestisce.

Si pone il problema di stabilire se sia ammissibile il fallimento di tutti i partecipanti all'impresa familiare invece che del solo familiare imprenditore, cioè del vero gestore dell'impresa.

Spiegazioni e conclusioni - Il codice civile (art. 230 bis) considera impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.

E' necessario che la collaborazione avvenga in modo continuativo e che, ovviamente, i familiari non abbiano deciso di porre in essere un diverso rapporto: essi potrebbero, per esempio, costituire una società o un ente.

Perché l'impresa familiare sia assoggettabile al fallimento è necessario che di questo vi siano i presupposti: essa deve svolgere attività commerciale e si deve trovare in stato di insolvenza. Secondo l'orientamento maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza l'impresa familiare è da considerarsi come un'impresa individuale, in cui vi è l'imprenditore che assume il rischio d'impresa ed al quale, quindi, è imputabile un eventuale fallimento.

Sarà conseguentemente tale “familiare imprenditore”, quello cioè che gestisce effettivamente l'impresa, a rispondere delle scelte operate nei confronti dei terzi, anche con il proprio patrimonio personale. Il fallimento non coinvolge, quindi, gli altri familiari. Affinché ciò avvenga sarebbe necessario dimostrare che fra essi non vi sia in realtà un'impresa familiare ma una vera e propria società di fatto.

Come precisato dalla Suprema Corte, ai fini dell'estensione del fallimento del titolare dell'impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell'effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l'esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all'impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del nomen della società o quanto meno l'esteriorizzazione del vincolo sociale, l'assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all'esistenza di un vincolo societario; mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell'impresa familiare, né l'eventuale condivisione degli utili, trattandosi di indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla affectio societatis (Cass. Civ., sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580).

Gli altri familiari partecipanti all'impresa, dunque, non possono fallire automaticamente per estensione (Cass. Civ., 27 giugno 1990, n. 6559).

In conclusione, nel caso che ci occupa, il creditore istante potrebbe ottenere una sentenza dichiarativa di fallimento nei confronti di tutti i familiari dell'impresa solo nell'ipotesi in cui riuscisse a dimostrare che tra essi si è costituito un rapporto diverso dall'impresa familiare; che si è costituita, cioè, una vera e propria società di fatto.

Normativa e giurisprudenza

  • Art. 230 bis c.c.
  • Art. 15 L.F.
  • Cass. civ., sez. I, 16 giugno 2010, n. 14580
  • Cass. civ. 27 giugno 1990, n. 6559

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