Saranno da subito per giusta causa le dimissioni rassegnate dal lavoratore dopo l’apertura della liquidazione giudiziale
02 Dicembre 2020
Tra le disposizioni integrative e correttive al codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza introdotte dal decreto legislativo 26 ottobre 2020, n. 147 ce ne è una che trova finalmente una soluzione in grado di tutelare il lavoratore coinvolto in una procedura di liquidazione giudiziale: il comma 5 dell'art. 189 del CCI, novellato dall'art. 21 d.lgs. n. 147/2020, permette difatti di qualificare per giusta causa le sue dimissioni rassegnate subito dopo l'apertura della liquidazione giudiziale e – a condizione che egli non stia già usufruendo di uno degli ammortizzatori previsti dal decreto legislativo n. 148/2015 – gli consente quindi di chiedere ed ottenere immediatamente la NASpI. Nella versione originaria, infatti, il comma 5 dell'art. 189 CCI qualificava “per giusta causa” solo le dimissioni intervenute una volta trascorso il periodo di quattro mesi di sospensione dei rapporti di lavoro, previsto dal comma 3. Tale soluzione è stata ritenuta penalizzante per il lavoratore soprattutto per via di uno stato di “quiescenza attiva” (come usa dire la Cassazione) non coperto da prestazioni di sostegno al reddito per un lasso di tempo non trascurabile. La questione è ormai nota: prima è intervenuta l'abrogazione dell'art. 3 della legge n. 223/1991 che per anni aveva garantito la Cassa integrazione guadagni straordinaria (fino all'agosto 2012 in caso di cessazione di attività; fino al 31 dicembre 2015 subordinatamente a “prospettive di continuazione o di ripresa dell'attività e di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione, da valutare in base a parametri oggettivi definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”). Poi, è tramontata l'ipotesi della c.d. NASpI liquidazione giudiziale, grazie alla quale – durante il periodo di sospensione del rapporto successivo all'apertura della procedura – i lavoratori avrebbero ricevuto un vero e proprio acconto sul trattamento di disoccupazione erogato alla cessazione del rapporto, così come disponeva l'art. 190 di una delle prime bozze del CCI circolate in attesa della stesura definitiva: lo stato di sospensione del rapporto veniva infatti, a tal fine, equiparato a quello di disoccupazione e dava diritto al trattamento equivalente alla NASpI che sarebbe cessato al subentro del curatore nel rapporto. Nonostante la norma fosse stata opportunamente congegnata in modo da prevedere che “la sommatoria del trattamento spettante per la fase di sospensione del rapporto e del trattamento spettante per il tempo successivo alla cessazione del rapporto non <potesse> superare la durata massima prevista dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22”, l'esigenza di dare attuazione alle disposizioni del Codice “nel limite delle risorse finanziarie … senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” dichiarata dall'art. 391, comma 1, CCI, ne ha determinato l'espunzione. Permaneva quindi l'esigenza di sostenere il reddito del lavoratore invischiato suo malgrado in una procedura fallimentare che ora ne comporta espressamente ex lege la sospensione del rapporto per un periodo massimo di quattro mesi, prorogabile fino a dodici, qualora sussistano possibilità di ripresa dell'attività o trasferimento a terzi dell'azienda o di un suo ramo (cfr. commi 3 e 4 dell'art. 189 CCI). Come si è detto, l'art. 21 del decreto correttivo è andato in soccorso del lavoratore, sostituendo la formulazione del comma 5 dell'art. 189 CCI licenziata con il d.lgs. n. 14/2019 e disponendo che “salvi i casi di ammissione ad uno dei trattamenti di integrazione salariale ordinaria o straordinaria di cui al titolo I del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 148, ovvero di accesso alle prestazioni di cui al titolo II (i.e. fondi di solidarietà bilaterali o di integrazione salariale o ad altre prestazioni di sostegno al reddito) le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione tra la data della sentenza dichiarativa fino alla data della comunicazione di cui al comma 1, si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del codice civile con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Si tratta della soluzione ottimale? Sicuramente, in tal modo, il lavoratore ritorna in pieno possesso del proprio destino potendo decidere di svincolarsi dal rapporto prima della decisione della curatela di subentrarvi o recedere. Ma la tentazione di porre fine al rapporto per ricevere subito un sostegno al reddito potrebbe mal conciliarsi con la mancanza di politiche attive adeguate – strumento purtroppo mai veramente decollato in Italia – che gli dovrebbero garantire il rientro nel mondo del lavoro. Inoltre, la prospettiva di iscriversi per il trattamento NASpI potrebbe indurre a dimissioni frettolose, con il rischio di disperdere – beninteso, nei casi in cui queste considerazioni siano possibili – il valore aziendale che molto spesso conta proprio tra i lavoratori uno degli asset principali. Con buona pace di tutti gli sforzi compiuti dal legislatore per incentivare la continuità aziendale, diretta o indiretta che sia. Ed allora, se l'intenzione è quella di tutelare il lavoratore nel difficile momento dell'insolvenza del proprio datore di lavoro, sarebbe stata più logica l'innovativa soluzione – individuata inizialmente – di introdurre la NASpI per la liquidazione giudiziale. E forse meno ipocrita, dal momento che anche l'accesso al sussidio di disoccupazione conseguente alle dimissioni comporta inevitabilmente quei “maggiori oneri per la finanza pubblica”, che l'art. 391 CCI vuole evitare. |