Reclamo camerale

Alessandro Rossi
02 Dicembre 2020

Il reclamo camerale è disciplinato dall'art. 739 c.p.c. La norma in esame prevede che siano reclamabili i decreti adottati dal giudice tutelare e quelli pronunciati dal tribunale in camera di consiglio.
Considerazioni iniziali sulla volontaria giurisdizione

La volontaria giurisdizione è una particolare forma di controllo che i giudici compiono sulla gestione degli interessi privati con rilevanza superindividuale quando non pubblica. Al netto del nomen utilizzato - di cui, peraltro, non si trova traccia all'intero del codice processuale civile dopo l'abrogazione dell'art. 801 c.p.c. - è discusso se l'attività esercitata dai giudici nell'ambito della volontaria giurisdizione sia propriamente “giurisdizionale”.

Natura della volontaria giurisdizione

La tesi classica individua nella volontaria giurisdizione esercizio di attività amministrativa alla quale, però, vengono prestate le forme giurisdizionali.

La tesi in esame è sostenuta da Liebman, 27-28 e Allorio, 3.

Una seconda tesi ha riconosciuto alla volontaria giurisdizione funzione di prevenzione delle liti. Questa finalità si attuerebbe proprio coinvolgendo il giudice, soggetto terzo ed imparziale, al quale si affiderebbe il compito di attuare il diritto oggettivo.

Così: Calamandrei, 250

Secondo una terza tesi, il provvedimento emesso nell'ambito della volontaria giurisdizione è elemento essenziale della relativa fattispecie costitutiva di diritto sostanziale. Il giudice in questo modo attuerebbe il diritto interponendo il proprio provvedimento al fine di integrare la fattispecie costitutiva dello stesso.

Così: Montesano, 929.

Una quarta tesi riconosce all'attività svolta nell'ambito della volontaria giurisdizione una natura non riconducibile né alla giurisdizione né all'amministrazione in ragione delle marcate differenze che la diversificano dalle altre due. Si tratterebbe, insomma, di un sistema a se stante.

Così: Fazzalari, La giurisdizione volontaria, Padova, 1953, 135.

Sia che consista in un elemento di una nuova fattispecie che in una compiuta fattispecie sostanziale, il giudice nell'esercizio della volontaria giurisdizione deve cercare di attuare la migliore gestione degli interessi privati coinvolti. Si rinvia per ulteriori approfondimenti alla voce della presente opera: Volontaria giurisdizione.

Le forme flessibili del procedimento camerale sono pensate per la migliore gestione degli interessi privati coinvolti nella volontaria giurisdizione. Queste stesse caratteristiche ha il procedimento di reclamo, che replica il procedimento di primo grado.

La natura del reclamo

La disciplina del reclamo è molto lacunosa: questo rende difficile stabilire la natura del reclamo che rimane molto discussa.

Natura del reclamo

Una prima tesi riconosce al giudizio in esame natura di gravame.

Nell'ambito di questa tesi è possibile distinguere due orientamenti. Il primo sostiene la piena devoluzione della controversia con la proposizione del reclamo. Si attribuiscono al giudice del reclamo ampi poteri inquisitori in vista della migliore gestione degli interessi dedotti in giudizio, che importerebbe anche l'impossibilità di limitare il riesame alle censure mosse dal reclamante. In questo senso tra gli altri: Proto Pisani, 418.

Il secondo orientamento, invece, riconosce un effetto devolutivo limitato alle censure mosse dal reclamante. Conseguentemente il riesame sarebbe limitato alle censure mosse dal reclamante. In questo senso: gli altri, da Satta, 34; Civinni, 184.

Alla citata tesi se ne aggiunge un'altra che vede nel reclamo camerale un mezzo di controllo “rotatorio”.

Il procedimento in esame, allora, sarebbe caratterizzato dal passaggio al giudice del reclamo di tutti i poteri propri del giudice di prime cure. Tale tesi implica l'impossibilità di applicare in via analogica le disposizioni previste per l'appello, tra cui il divieto di reformatio in pejus. Così: Montesano-Arieta, 1219.

La tesi prima è da preferire. Il riconoscimento di poteri inquisitori in capo al giudice definisce più l'ampiezza della cognizione dello stesso che la natura del procedimento, la quale per il fatto di avere in oggetto il controllo di un provvedimento sembra essere proprio impugnatoria.

La disciplina del reclamo camerale

Il reclamo camerale è disciplinato dall'art. 739 c.p.c.

La norma in esame prevede che siano reclamabili i decreti adottati dal giudice tutelare e quelli pronunciati dal tribunale in camera di consiglio.

Nel primo caso, il reclamo sarà proposto di fronte al tribunale in composizione collegiale. Nel secondo, invece, sarà presentato di fronte alla corte d'appello. In entrambe le ipotesi, il giudice del reclamo decide in camera di consiglio.

La possibilità di proporre reclamo non si arresta solo ai provvedimenti previsti dall'art. 739 c.p.c. È, difatti, previsto dall'art. 742-bisc.p.c. la reclamabilità dei provvedimenti emessi in camera di consiglio, anche se non siano disciplinati dai capi precedenti e pur se non riguardino il diritto di famiglia o questioni aventi ad oggetto lo stato delle persone.

Infine, l'art. 740 c.p.c. prevede la possibilità anche per il P.M. di proporre reclamo contro i decreti del giudice tutelare e contro quelli del tribunale per i quali è necessario il suo parere.

Il reclamo è il mezzo con il quale le parti e il p.m. possono far valere l'ingiustizia o l'illegittimità del decreto adottato.

Con l'accoglimento del reclamo, viene rimossa la pronuncia impugnata e emesso un altro provvedimento. Il citato provvedimento può consistere nella semplice revoca della precedente pronuncia o nella sua modifica, parziale o totale.

Il reclamo, esperito dalle parti o dal p.m., è proposto con ricorso al tribunale, nel caso in cui abbia ad oggetto un decreto del giudice tutelare, o alla corte d'appello, ove il provvedimento sia adottato dal tribunale in camera di consiglio. Le condizioni per proporre reclamo sono: la legittimazione a reclamare e l'interesse a reclamare.

La legittimazione a reclamare, per espressa previsione di legge, spetta: alle parti, ai sensi dell'art. 739 c.p.c., e al pubblico ministero, ai sensi dell'art. 740 c.p.c.

Quando si tratta dell'iniziativa del pubblico ministero, occorre distinguere. Benché dal tenore letterale dell'art. 740 c.p.c. la legittimazione a proporre reclamo sembrerebbe estesa anche al P.M. interveniente e a quello chiamato a rendere parere necessario, la giurisprudenza considera legittimato a proporre reclamo solamente il P.M. che sia stato parte in giudizio o che avrebbe potuto assumere tale veste. Rimane ferma, comunque, la possibilità del P.M. di impugnare anche ove, ai sensi dell'art. 69 c.p.c., si tratti di cause che avrebbe potuto proporre. Questo in quanto la possibilità di proporre impugnazione è naturale corollario del potere di agire.

Giurisprudenza sul potere di proporre reclamo in capo al p.m.

Sul riconoscimento al P.M. del potere di proporre reclamo anche quando si tratti di domande che lo stesso avrebbe potuto proporre, si può citare Cass. civ., sez. I, 21 marzo 1996, n.2437, la quale dispone che: «L'integrazione del contraddittorio, in sede di impugnazione, nei confronti del pubblico ministero presso il giudice a quo, non si rende necessaria in tutte le controversie in cui ne sia contemplato l'intervento, ma bensì soltanto in quelle nelle quali detto pubblico ministero sia titolare del potere di proporre impugnazione (trattandosi di cause che lui stesso avrebbe potuto promuovere o per le quali comunque sia previsto tale potere ai sensi dell'art. 72 c.p.c.), mentre, nelle altre ipotesi (nella specie, giudizio di accertamento della paternità naturale), le funzioni del pubblico ministero, in quanto non includono l'autonoma facoltà di impugnazione, vengono ad identificarsi con quelle che svolge il procuratore generale presso il giudice ad quem, e restano quindi assicurate dalla comunicazione o trasmissione degli atti a quest'ultimo».

Sull'impossibilità a proporre reclamo in capo al P.M. nei casi in cui sarebbe dovuto intervenire a pena di nullità, si può citare Cass. civ., Sez. Un., 13 novembre 2008, n. 27145, la quale dispone che: «Diversamente che nel processo penale, in materia civile il potere di impugnazione del pubblico ministero ha carattere eccezionale. Detto potere è limitato, in particolare, alle sentenze relative a cause matrimoniali (escluse quelle di separazione) e alle sentenze che dichiarino la efficacia o la inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali nonché alle cause che egli (ex art. 69 c.p.c.) avrebbe potuto proporre. Fuori di tali ipotesi il pubblico ministero non è legittimato alla impugnazione e quindi neppure nelle cause in cui, a pena di nullità, deve intervenire ancorché sullo stato o sulla capacità delle persone. Né, al riguardo, è prospettabile una violazione dell'art. 3, commi 1 e 2, cost. (nella specie, la Corte di appello aveva accolto l'istanza congiunta del tutore e del curatore speciale di persona in stato vegetativo permanente e autorizzato l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione di sondino nasograstrico: in applicazione del principio di cui sopra la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, avverso tale provvedimento, proposto dal procuratore generale presso la Corte di appello)».

Discusso è se il reclamo possa essere proposto anche ad iniziativa di terzi.

I terzi ed il reclamo cautelare

Una prima teoria riconosce la possibilità di proporre il reclamo solo a coloro nei cui confronti si è svolto il giudizio di primo grado. La tesi è espressa, tra gli altri, da Allorio, 49.

Una seconda teoria, invece, riconosce la possibilità di proporre reclamo non solo alle parti in senso formale del giudizio di primo grado ma a tutti coloro che sono parti in senso sostanziale. Legittimati al reclamo, allora, sarebbero tutti coloro che avrebbero potuto proporre il ricorso in prima istanza. Così: Santarcangelo, 180 e, in giurisprudenza, la pronuncia App. Milano del 4.02.2005.

Una terza teoria, invece, riconosce la legittimazione a proporre il reclamo ai terzi che abbiano un interesse giuridicamente rilevante e ricollegato all'oggetto del procedimento, purché siano indirettamente o direttamente pregiudicati dagli effetti del provvedimento.

Così, Jannuzzi-Lorefice, 72.

La seconda teoria sembra quella a cui dover aderire in quanto ai terzi, piuttosto che esperire il ricorso, è permesso agire in via contenziosa, ove ci sia un effettivo pregiudizio a un loro diritto soggettivo. Vista la materia particolare, invece, è bene riconoscere la legittimazione anche a coloro che avrebbero potuto essere parti per la loro posizione sostanziale (Di Cola, 849 e 850).

Conformemente a quanto esposto, si può citare la pronuncia Cass. civ., Sez.Un., 29 ottobre 2004, n. 20957 secondo la quale: «È inammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell'amministratore di condominio ai sensi degli art. 1129 c.c. e 64 att. c.c., trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione (sostitutivo della volontà assembleare, per l'esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela dell'interesse alla corretta gestione dell'amministrazione condominiale in ipotesi tipiche — contemplate dall'art. 1129 c.c. — di compromissione della stessa) che, pur incidendo sul rapporto di mandato tra condomini ed amministratore, non ha carattere decisorio, non precludendo la richiesta di tutela giurisdizionale piena, in un ordinario giudizio contenzioso, del diritto su cui il provvedimento incide; tutela che, per l'amministratore eventualmente revocato, non potrà essere in forma specifica, ma soltanto risarcitoria o per equivalente (non esistendo un diritto dell'amministratore alla stabilità dell'incarico, attesa la revocabilità in ogni tempo, in base all'art. 1129, comma 2, c.c.), onde la diversità dell'oggetto e delle finalità del procedimento camerale e di quello ordinario, unitamente alla diversità delle rispettive causae petendi, così come impedisce di attribuire efficacia vincolante al provvedimento camerale nel giudizio ordinario, del pari non consente di ritenere che il giudizio ordinario si risolva in un sindacato del provvedimento camerale. È viceversa ammissibile il ricorso per cassazione avverso la statuizione, contenuta nel provvedimento, relativa alla condanna alle spese del procedimento, la quale, inerendo a posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo rispetto a quello in esito al cui esame è stata adottata, ha i connotati della decisione giurisdizionale e l'attitudine al passaggio in giudicato indipendentemente dalle caratteristiche del provvedimento cui accede».

L'interesse a reclamare, invece, presuppone la soccombenza del reclamante nel grado precedente e la possibilità di raggiungere, con la modifica del provvedimento reclamato, una maggiore utilità pratica. Questa condizione va rapportata anche rispetto a coloro che avrebbero potuto proporre ricorso, se si estende la legittimazione anche ad essi.

Relativamente al termine di proposizione del reclamo, è necessario distinguere il caso in cui il procedimento sia unilaterale da quello in cui sia plurilaterale.

Nel caso in cui il procedimento sia unilaterale, il decreto è impugnabile in un termine di dieci giorni, decorrente dalla sua comunicazione alle parti.

Ove quest'ultima non venisse compiuta, il provvedimento è reclamabile nel termine previsto ai sensi dell'art. 327 c.p.c. L'applicazione in via analogica di questi termini, benché previsti per il procedimento di cognizione e quindi per il procedimento contenzioso, consente di evitare una reclamabilità sine die del provvedimento.

Nel caso in cui il procedimento sia plurilaterale, invece, il termine di dieci giorni per proporre reclamo decorre dalla notificazione dello stesso. Anche qui, ove non siano compiute le previste formalità, il provvedimento sarà reclamabile nei termini previsti ex art. 327 c.p.c.

Non equipollenza della comunicazione nel caso in cui sia prevista la notificazione del provvedimento (e valutazione della necessità della notifica anche ove si tratti di procedimenti contenziosi assoggettati per legge al rito camerale)

Anche nel caso del reclamo camerale vale il principio della non equipollenza della notificazione con altri mezzi idonei a dare conoscenza dell'esistenza e del contenuto del provvedimento. Conformemente a quanto detto si esprime, nello specifico sulla non equipollenza della comunicazione con la notifica del decreto, Cass. civ., sez. VI, 25 settembre 2017, n.22314, la quale dispone che: «Nei procedimenti in camera di consiglio che si svolgono nei confronti di più parti ed anche in quelli contenziosi assoggettati per legge al rito camerale, è la notificazione del decreto effettuata ad istanza di parte e non la comunicazione del cancelliere a far decorrere - tanto per il destinatario della notifica quanto per il notificante - il termine di dieci giorni per la proposizione del reclamo ai sensi dell'art. 739, comma 2, c.p.c.». La citata massima è utile anche per rilevare come la notifica sia necessaria, a maggior ragione, nel caso di procedimenti contenziosi assoggettati al rito camerale.

Il ricorso introduttivo deve essere notificato, unitamente al decreto, alla controparte nel termine stabilito dal giudice.

A seconda che si riconosca natura impugnatoria o meno al procedimento in esame, le conseguenze del mancato rispetto del termine assegnato dal giudice per la notifica alla controparte del reclamo e del decreto possono differire. In adesione alla tesi che riconosce all'istituto natura latamente impugnatoria, la mancata notifica nel termine causerebbe l'improcedibilità del giudizio; se si aderisse all'opposto tesi, invece, il giudice dovrebbe assegnare un nuovo termine, stavolta perentorio, per il compimento della notificazione.

Orientamenti giurisprudenziali sulla mancata notifica del reclamo nel termine perentorio fissato con decreto dal giudice del reclamo

Conformemente a quanto esposto, si possono riportare alcune pronunce giurisprudenziali.

Cass. civ., Sez. Un, 12 marzo 2014, n. 5700 distingue a seconda della natura impugnatoria o meno del ricorso: nel caso primo caso la mancata notifica darebbe luogo ad improcedibilità della domanda; nel secondo caso, invece, il giudice dovrebbe disporre un nuovo termine, stavolta perentorio, per il compimento della notifica. In senso difforme alla pronuncia delle S.U., si veda: Cass. civ., sez. VI, 14 ottobre 2014, n.21669, secondo la quale: «Nel procedimento camerale di modifica delle condizioni di divorzio, il reclamo proposto alla corte di appello, avverso il provvedimento reso dal tribunale, non è improcedibile se sia stata omessa, nel termine assegnato dal giudice e non prorogato anteriormente alla sua scadenza, la notificazione del ricorso con l'unito decreto di fissazione dell'udienza, poiché alla parte può essere concesso un nuovo termine, ex art. 291 c.p.c., per la rinotifica».

Il vizio derivante dal mancato rispetto del termine per la notifica del reclamo e del decreto di fissazione dell'udienza può essere sanato dalla costituzione del reclamato, secondo quanto previsto ex art.156 c.p.c.

Sanatoria del vizio di omessa notificazione nel termine perentorio

Sull'efficacia sanante del vizio di notifica del reclamo unitamente al decreto di fissazione dell'udienza oltre il termine perentorio senza che questo sia prorogato, si pronuncia la Cass. civ., sez. VI, 22 luglio 2014, n.16677: «Il reclamo proposto alla corte d'appello avverso il provvedimento camerale adottato dal tribunale (nella specie in sede di revisione delle condizioni di separazione dei coniugi) non è improcedibile se il convenuto si sia regolarmente costituito in giudizio, così sanando ex art. 156 c.p.c. il vizio derivante dal mancato rispetto del termine ordinatorio assegnato al reclamante per la notificazione del ricorso e non prorogato con istanza proposta prima della sua scadenza».

L'atto che introduce il reclamo, data la natura latamente impugnatoria del giudizio, presenta alcune particolarità rispetto al ricorso che introduce il procedimento in camera di consiglio di primo grado.

Il ricorso deve contenere, infatti, i motivi di reclamo.

I motivi di reclamo, data la struttura dello stesso quale mezzo di contestazione a critica libera del provvedimento originario, possono riguardare sia il merito che la legittimità dell'atto. Sono deducibili non solo fatti originari ma anche sopravvenuti e, in ossequio al fine del miglior perseguimento della gestione degli interessi oggetto della controversia, si considerano allegabili anche i fatti originari non precedentemente dedotti.

Discusso, però, è il grado di approfondimento delle critiche esposte. Nel rispetto della condizione dell'interesse ad impugnare, si può affermare che le censure proposte non possano svolgersi tramite la mera riproposizione delle questioni precedentemente affrontate e risolte dal giudice di prime cure. Devono, allora, essere critiche specifiche.

Specificità dei motivi di reclamo

In materia si può citare la pronuncia Cass. civ., sez. I, 14 dicembre 2018, n.32525, la quale dispone che: «Il reclamo ex art. 739 c.p.c., non può risolversi nella mera riproposizione delle questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, ma deve contenere specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma».

Non vi è dubbio che la parte convenuta possa proporre reclamo incidentale: non si può precludere a quest'ultimo di far valere le sue ragioni, vista la natura impugnatoria riconosciuta al reclamo.

Il giudice, in ogni caso, non è vincolato alle critiche mosse dalle parti. Lo scopo del procedimento in camera di consiglio, quello della migliore gestione degli interessi di privati sottoposti alla sua cognizione, fa sì che con la proposizione del reclamo al giudice venga devoluto in modo pieno ed automatico tutto il giudizio di prima istanza.

Nel rispetto del principio del contraddittorio, il giudice è comunque tenuto a pronunciarsi sulle censure proposte dalle parti. Questo poiché le disposizioni generali disciplinate nel libro I del codice di procedura civile, tra le quali rientra anche l'articolo 112 c.p.c., sono, in quanto tali, applicabili a qualsiasi processo. Il giudice che non statuisca in ordine ad una censura proposta dalle parti incorre, allora, nel vizio di difetto di pronuncia: sul punto, tra gli altri, si può citare Montesano-Arieta, 1210.

Lo svolgimento del procedimento è lasciato alla discrezionalità del giudice. È possibile affermare questo in considerazione della non previsione negli artt. 738c.p.c. e 739 c.p.c. di alcuno schema puntuale relativo allo svolgimento del processo.

Nel procedimento camerale, l'istruttoria sembrerebbe avere carattere inquisitorio.

Tale considerazione è avvalorata dalla sottoposizione del giudizio di reclamo alla stessa disciplina del procedimento in camera di consiglio previsto per il primo grado. L'art. 738, comma 3 c.p.c., relativo allo svolgimento del giudizio in camera di consiglio, dispone solamente che il giudice possa assumere informazioni. Questa generica prescrizione porta a considerare il giudice non vincolato dai fatti allegati dalle parti e a riconoscergli la possibilità di assumere le informazioni in maniera non subordinata alle istanze delle stesse.

Il giudice, sempre per il carattere inquisitorio dell'istruttoria, non è vincolato neanche alle prove proposte dalle parti.

Nel rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, il giudice deve chiedere i chiarimenti necessari alle parti e ai terzi. Tale possibilità deriva da quanto disposto ai sensi dell'art. 738 comma 3 c.p.c. che è applicabile anche al procedimento di reclamo.

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