Esercizio provvisorio e concordato fallimentare: strumenti per la continuità d’impresa

12 Novembre 2019

L'esercizio provvisorio d'impresa esiste sin dalle origini della legge fallimentare. L'istituto è stato disciplinato dall'art. 90 del R.D. n. 267/1942, norma posta all'interno del Capo IV, Titolo I (custodia ed amministrazione delle attività concorsuali). Secondo la richiamata norma, il tribunale, “dopo” la dichiarazione di fallimento, poteva disporre la continuazione temporanea dell'attività economica del debitore ove dalla sua improvvisa interruzione potesse derivare un danno grave ed irreparabile (art. 90, comma 1).

L'esercizio provvisorio d'impresa esiste sin dalle origini della legge fallimentare.

L'istituto è stato disciplinato dall'art. 90 del R.D. n. 267/1942, norna posta all'interno del Capo IV, Titolo I (custodia ed amministrazione delle attività concorsuali).

Secondo la richiamata norma, il tribunale, "dopo" la dichiarazione di fallimento, poteva disporre la continuazione temporanea dell'attività economica del debitore ove dalla sua improvvisa interruzione potesse derivare un danno grave ed irreparabile (art. 90, comma 1).

Il secondo comma dell'art. 90 prevedeva, poi, che la prosecuzione dell'attività d'impresa potesse essere disposta anche dopo il decreto d'esecutività dello stato passivo, previo parere favorevole del comitato dei creditori.

Tale organo, una volta costituito, doveva in ogni caso esprimersi sulla possibilità di “proseguire” l'esercizio provvisorio originariamente disposto dal tribunale, apertasi la procedura concorsuale.

Trattavasi di parere vincolante.

Per quanto l'esercizio provvisorio fosse uno strumento funzionale alla conservazione dei valori aziendali e, dunque, del patrimonio da destinare al soddisfacimento dei creditori, sotto il profilo applicativo è andata radicandosi una pratica “spesso timorosa e poco operante, come tipico segno negativo di una mentalità giudiziaria di solito puramente recettizia, carente di iniziativa e, ancor più, di managerialità” (così, P. Pajardi (a cura di), Codice del fallimento, Milano, 1997, 90).

Quanto alla "gravità" ed "irreparabilità" del danno – presupposti dell'istituto –, tali elementi erano da rapportare al valore economico del complesso aziendale di titolarità del debitore.

Il periculum poteva così essere individuato nella perdita dell'avviamento, nel repentino svilimento del magazzino, nel mancato compimento di vantaggiose lavorazioni in corso d'ultimazione e – più in generale – nella rapida disgregazione di una ancor vitale organizzazione d'impresa (assets produttivi, personali e materiali).

Secondo l'orientamento dottrinario prevalente, l'interesse a prevenire la gravità/irreparabilità del danno trovava il proprio esclusivo fondamento nella tutela dei creditori del fallito (F. Ferrara-A. Borgioli, Il fallimento, Milano, 1989, 480) – interpretazione, quest'ultima, “avallata” dal ruolo del comitato dei creditori, funzionalmente collegato alle esigenze di tutela dell'intera categoria dei creditori dell'imprenditore.

Altra dottrina ha peraltro allargato l'orizzonte degli interessi tutelati dall'istituto, includendovi il mantenimento della forza lavoro, la conservazione dei clienti dell'impresa, una più generica necessità di garantire la continuità aziendale in funzione d'interessi pubblicistici (R. Cavallo Borgia, Continuazione dell'esercizio dell'impresa nell'amministrazione straordinaria e nelle procedure concorsuali: profili funzionali, in Giur. comm., 1982, I, 737 ss.).

Per quanto l'esercizio provvisorio fosse collocato all'interno di una sezione della legge fallimentare disciplinante la custodia e l'amministrazione delle attività concorsuali, la sua intrinseca natura era piuttosto da ricondurre ad un ruolo di funzionalità rispetto alla liquidazione del patrimonio del fallito.

In questo senso, la riforma del 2006 – senza peraltro “stravolgerne” l'originaria struttura normativa – ha propriamente collocato la disciplina dell'esercizio provvisorio d'impresa all'interno del Capo VI, Titolo II, dunque nell'ambito della liquidazione dell'attivo fallimentare (D.Lgs. n. 5/2006).

E ciò, unitamente all'altro strumento di continuazione “temporanea” (per quanto indiretta) dell'attività d'impresa, ovvero l'affitto d'azienda (art. 104-bis, l. fall.), istituto – quest'ultimo – che a differenza del primo non era originariamente contemplato dalla legge fallimentare.

L'esercizio provvisorio e l'affitto d'azienda hanno, quale caratteristica comune – connotata da un'indubbia (pur temporanea) “dinamicità” – di essere un mezzo per preservare l'integrità di un apparato produttivo che sia ancora vitale al momento dell'apertura del concorso, per quanto “minato” dall'insolvenza dell'imprenditore, e ciò nella ricordata prospettiva del miglior realizzo in sede liquidatoria.

Non a caso, il curatore, all'interno del programma di liquidazione (atto di pianificazione ed indirizzo ai fini della realizzazione dell'attivo) deve dar conto della opportunità di proporre l'esercizio provvisorio d'impresa ovvero l'affitto d'azienda, ex art. 104-ter, comma 2, lett. a), l. fall.

Per il resto, i due strumenti hanno peculiarità tutte proprie, dunque presentando rilevanti differenze, sintetizzabili, in questa sede, nel fatto che, con il primo, la gestione d'impresa rimane in seno alla curatela fallimentare in base ad un provvedimento reso dall'autorità giudiziaria, con il secondo, la gestione viene trasferita a terzi in base ad un autorizzato negozio giuridico “privatistico”.

Ne consegue che nel caso dell'esercizio provvisorio il rischio d'impresa (e gli effetti economici in termini di prededucibilità degli oneri derivanti dalla continuazione temporanea) fanno carico alla massa, mentre nel caso di affitto d'azienda, il rischio d'impresa ricade sull'affittuario, restando a proprio carico ogni eventuale perdita relativa alla gestione del complesso aziendale di titolarità del fallito.

Limitando qui l'esame all'esercizio provvisorio d'impresa, esso si caratterizza per il fatto che la gestione del complesso aziendale di titolarità del debitore – come detto – rimane accentrata in capo alla procedura concorsuale, dipendendo, giuridicamente ed economicamente, in via diretta, dalla medesima.

Quanto sopra, sia in termini di direzione aziendale e, dunque, di “managerialità” (il curatore fallimentare assume, per quanto temporaneamente, previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria, il ruolo d'amministratore/imprenditore), sia in termini di effetti economici (gli utili d'impresa, ma anche le eventuali, alternative perdite, così come le correlate obbligazioni, sono imputate direttamente alla massa, generando così, nell'un caso, nuovi valori economici, nell'altro, passività prededucibili).

Il riformato art. 104, comma 1, l. fall., a differenza del “vecchio” art. 90, fissa espressamente la “condizione” affinché possa esservi prosecuzione temporanea d'impresa: non deve esservi alcun pregiudizio per i creditori sociali.

Per quanto il secondo comma dell'art. 104 l. fall. non faccia – a differenza del primo comma – alcun espresso riferimento al pregiudizio per i creditori, quanto sopra vale anche nel caso in cui l'esercizio provvisorio (anche limitatamente a specifici rami) sia autorizzato, dopo la dichiarazione di fallimento, dal giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori.

Il mancato pregiudizio per i creditori consiste non solo e non tanto nel fatto che la continuazione temporanea dell'attività da parte della curatela fallimentare produca, nell'immediatezza, utili d'impresa, bensì che la stessa possa, in via prognostica, “garantire” il successivo miglior realizzo dell'azienda in sede liquidatoria, rispetto all'alternativa propria disgregazione.

In altre parole, realizza la condizione del mancato pregiudizio per i creditori sociali un esercizio provvisorio che, per quanto non sufficientemente redditizio (la gestione economica può chiudere anche con perdite contenute e/o programmabili), permetta il mantenimento di apprezzabili valori aziendali, non realizzabili in caso di mancata prosecuzione dell'attività economica (M. Ferro, La liquidazione dell'attivo: fase preliminare di osservazione dell'impresa in esercizio, fase di progettazione e fase di attuazione nelle nuove vendite, in Dir. fall., 2006, I,. 813).

Dunque, con un saldo finale netto “a credito” per la procedura concorsuale.

Del resto, il “miglior realizzo” dell'attivo, quale finalità ultima in ambito liquidatorio, è previsto dallo stesso ordinamento giuridico societario e, in particolare, dall'art. 2487 c.c. laddove, al comma 1, lett. c), trattando dei poteri del liquidatore, si fa espressa menzione degli “atti necessari per la conservazione del valore dell'impresa, ivi compreso il suo esercizio provvisorio, anche di singoli rami, in funzione del migliore realizzo”.

Negli ultimi anni – parallelamente al sensibile ridimensionamento del numero dei concordati preventivi “in continuità” andati a buon fine –, si è assistito ad un incremento progressivo del ricorso allo strumento dell'esercizio provvisorio.

Se, in ambito di concordato – e, a maggior ragione, in ambito di accordo di ristrutturazione e piano attestato –, la continuità rappresenta (recte, dovrebbe rappresentare) lo strumento per prevenire l'insolvenza ed insieme ripristinare una situazione d'equilibrio economico/finanziario (pare ridimensionato il concetto di continuità aziendale quale valore “in sé”), in sede fallimentare, la continuazione (temporanea) d'impresa – come visto – è orientata a creare le condizioni per il miglior esito della liquidazione.

Spesso, la scelta di procedere con l'esercizio provvisorio è stata preferita rispetto all'alternativa concessione in affitto dell'azienda o di rami di essa, ex art. 104-bis l. fall., per ragioni sia di rapidità d'intervento, sia di difficoltà, nell'imminenza dell'apertura del procedimento, di rinvenire terzi operatori economici concretamente interessati al compendio aziendale di titolarità del debitore.

Per questo motivo, l'esercizio provvisorio d'impresa non si pone in diretta “concorrenza” con l'affitto d'azienda, potendosi piuttosto configurare, rispetto a tale istituto, in un rapporto di funzionale strumentalità.La curatela, così, una volta “messo in sicurezza” il complesso aziendale di titolarità del fallito attraverso l'autorizzata continuazione temporanea d'impresa potrà valutare di proporne un mutamento in relazione al titolo, passando da una gestione diretta (l'esercizio provvisorio) ad una indiretta (affitto d'azienda). Quanto sopra, nella ricordata prospettiva della successiva, miglior liquidazione dell'attivo concorsuale.

Ma un'oculata prosecuzione dell'attività economica del debitore da parte della curatela fallimentare potrà indurre a rendere velocemente contendibile il complesso aziendale acquisito alla procedura, “stimolando” anche l'opportunità di una (ragionevolmente) rapida chiusura della stessa procedura fallimentare. E ciò attraverso la soluzione concordataria. Quest'ultima, pur restando il tipico strumento normativo finalizzato alla chiusura del procedimento in modo alternativo rispetto alle altre cause di cessazione del concorso, con la riforma del 2006 ha assunto una crescente “sensibilità verso la conservazione delle componenti positive dell'impresa (beni produttivi e livelli occupazionali)” – riprendendo le parole della Relazione di accompagnamento al D.Lgs. n. 5/2006.

L'impresa, anche sotto questo profilo, rappresenta dunque un valore meritevole di conservazione indipendentemente dal dissesto dell'imprenditore, sempreché, nell'ambito del procedimento, la circolazione del complesso aziendale sia idonea a tutelare gli interessi dei creditori sociali, valore imprescindibile, quest'ultimo, cui resta ancorata la procedura concorsuale.

Ed allora, nella prospettiva concordataria, quale migliore garanzia per i terzi investitori d'una gestione portata avanti dalla curatela fallimentare e ben vagliata, tempo per tempo, dal tribunale, dal giudice delegato e dal comitato dei creditori, ex art. 104, commi 3-6, l. fall. (ferma, peraltro, la facoltà del debitore di accedere alla soluzione concordataria una volta decorso il termine annuale ex art. 124, comma 2, secondo periodo, l. fall.)? A ben vedere, il proponente la domanda di concordato avrebbe tutto l'interesse a prevedere, quale condizione della proposta rivolta ai creditori del fallito, il “mantenimento” dell'esercizio provvisorio da parte degli organi della procedura, sino a quando – esperita la competizione e concluso l'iter d'approvazione della procedura – il concordato omologato non diventi efficace ex art. 130 l.fall. (in questo senso, A. Pezzano, Esercizio provvisorio e concordato fallimentare: un propizio connubio per il futuro concorsuale, in Il caso, 1 novembre 2016).

Da ultimo, le conclusioni non mutano ove il quadro d'insieme sia ricondotto all'interno del Codice della crisi e dell'insolvenza, dal momento che, sia l'esercizio temporaneo d'impresa, sia il concordato nella liquidazione giudiziale, vanno a ricalcare, nel loro complesso, la struttura normativa prevista dalla riformata, vigente legge fallimentare.

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