Intermediari assicurativi e responsabilità

Giuseppe Chiriatti
14 Ottobre 2019

Il corretto inquadramento dell'oggetto della nostra indagine richiede un breve e preliminare excursus storico con riguardo alle vicende normative che hanno recentemente interessato il codice delle assicurazioni. Nella sua formulazione originaria, l'art. 183 CAP disponeva che «nell'offerta e nell'esecuzione dei contratti le imprese e gli intermediari devono ... comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati».
Inquadramento

Il corretto inquadramento dell'oggetto della nostra indagine richiede un breve e preliminare excursus storico con riguardo alle vicende normative che hanno recentemente interessato il codice delle assicurazioni.

Nella sua formulazione originaria, l'art. 183 CAP disponeva che «nell'offerta e nell'esecuzione dei contratti le imprese e gli intermediari devono ... comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati».

Ebbene, a fronte delle modifiche introdotte dal d. lgs. 68/2018 (che ha attuato la direttiva 2016/97/EU c.d. IDD – Insurance Distribution Directive), tale clausola generale risulta oggi declinata in due norme che trovano una differente e ben distante collocazione sistematica.

La prima è l'art. 119-bis CAP (rubricato “Regole di comportamento e conflitti di interesse”), che è contenuta nel Titolo IX (Attività di distribuzione assicurativa e riassicurativa) e che dispone: «i distributori di prodotti assicurativi operano con equità, onestà, professionalità, correttezza e trasparenza nel miglior interesse dei contraenti».

In particolare, a fronte delle modifiche apportate al CAP del d. lgs. 68/2018, per «distributore assicurativo» deve intendersi «qualsiasi intermediario assicurativo, intermediario assicurativo a titolo accessorio o impresa di assicurazione» (art. 1 comma 1 lett. n. 1 CAP); in altri termini, la novella legislativa ha “ampliato” il novero dei soggetti deputati al collocamento dei prodotti assicurativi così come individuata dalla previgente formulazione del CAP, prevedendo espressamente che tale attività possa essere esercitata anche dalla medesima impresa nonché, a determinate condizioni, anche da soggetti la cui attività principale è diversa da quella di distribuzione assicurativa (ovvero l'intermediario a titolo accessorio).

La seconda norma è rappresentata, invece, dal “nuovo” art. 183 CAP, che nella sua nuova formulazione ha come destinatarie le sole imprese assicurative e che obbliga quest'ultime a comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati “nell'esecuzione del contratto”.

Ora, per quanto apparentemente formale, il restyling normativo di cui sopra riflette una puntuale volontà del legislatore, e, cioè, quella di distinguere in modo netto, già solo sul piano sistematico, la fase del collocamento del prodotto (attività riservata, appunto, ai distributori come sopra indentificati) da quella - necessariamente successiva - dell'esecuzione del contratto (riservata, invece, all'impresa assicurativa).

In questa sede ci occuperemo, dunque, delle regole che presidiano la fase del collocamento, rinviando ad altra sede l'approfondimento degli obblighi gravanti sull'impresa nella fase di esecuzione del contratto.

Verifica di adeguatezza e obbligo di informativa

È bene sin d'ora segnalare come la clausola generale di cui sopra (già venisse e tuttora) venga articolata dal legislatore in obblighi specifici in capo al distributore.

Ed infatti, riprendendo quanto già previsto dalla previgente versione dell'art. 183 CAP, l'art. 119-ter prevede espressamente che «prima della conclusione di un contratto di assicurazione, il distributore di prodotti assicurativi: a) acquisisce dal contraente ogni informazione utile a identificare le richieste ed esigenze del contraente medesimo, al fine di valutare l'adeguatezza del contratto offerto; e
b) fornisce allo stesso informazioni oggettive sul prodotto assicurativo in una forma comprensibile al fine di consentirgli di prendere una decisione informata»; e ancora, al comma 2, che «qualsiasi contratto proposto deve essere coerente con le richieste e le esigenze assicurative del contraente».

Ora, non può dubitarsi che tali specifici obblighi trovino la propria fonte nei doveri di correttezza e buona fede cui il distributore sarebbe già tenuto, nei confronti del contraente, ai sensi degli artt. 1175, 1337 e 1375 c.c.; proprio in tal senso, la Suprema Corte (chiamata a pronunciarsi sulla previgente versione dell'art. 183 CAP) ha statuito che «in materia di contratto di assicurazione, l'assicuratore (come il proprio intermediario o promotore) ha il dovere primario – ai sensi degli artt. 1175,1337 e 1375 cod. civ. – di fornire al contraente una informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, oltre quello di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze, integrando la violazione di tali doveri una condotta negligente ex art. 1176, secondo comma, cod. civ.» (Cass. civ. n. 8412/2015).

Ed è proprio a tal fine che, nella prassi commerciale, la conclusione del contratto è di norma preceduta dalla compilazione del c.d. questionario di adeguatezza, mediante il quale il contraente fornisce all'intermediario tutte le informazioni relative al rischio da assicurare. In particolare, tale documento – debitamente sottoscritto dal contraente – assurge a prova precostituita del “buon” operato dell'intermediario (nella specie, una confessione stragiudiziale ai sensi dell'art. 2735 c.c.).

IN EVIDENZA

Il questionario di adeguatezza non dev'essere confuso con quello c.d. assuntivo, che viene contestualmente sottoposto all'attenzione del contraente, ma che, nondimeno, è finalizzato alla raccolta delle informazioni rilevanti, per l'assicuratore, al fine di valutare se assumere o meno il rischio e, se del caso, quotarlo in termini di tariffa di premio.

Occorre invero segnalare come, per lungo tempo, la disciplina attuativa del codice delle assicurazioni non precludesse la possibilità di collocare prodotti eventualmente inadeguati. Ed infatti:

- il quinto comma dell'art. 58 Reg. 40 IVASS disponeva che l'eventuale rifiuto da parte del contraente di rispondere al questionario “deve risultare da apposita dichiarazione, da allegare alla proposta o alla polizza, sottoscritta dal contraente e dal distributore, dalla quale risulta la specifica avvertenza che tale rifiuto pregiudica la capacità di individuare il contratto coerente con le richieste ed esigenze del contraente”;

- il comma successivo disponeva, poi, che, ove i distributori ricevano proposte assicurative e previdenziali non coerenti con le richieste ed esigenze del contraente, lo informano di tale circostanza, specificandone i motivi e dandone evidenza in un'apposita dichiarazione, sottoscritta dal contraente e dal distributore.

Tali due disposizioni sono state nondimeno abrogate dall'articolo 4 comma 20 lett. b) del Provvedimento IVASS n. 97 del 4 agosto 2020 con l'evidente fine di rafforzare la tutela del contraente, escludendo a priori la possibilità che quest'ultimo possa acquistare un prodotto non adeguato.

Verifica di adeguatezza e vendita con consulenza

L'art. 119-ter comma 3 prevede altresì: «se viene offerta una consulenza prima della conclusione del contratto, il distributore di prodotti assicurativi fornisce al contraente una raccomandazione personalizzata contenente i motivi per cui un particolare contratto è ritenuto più indicato a soddisfare le richieste e le esigenze del contraente medesimo».

Ebbene, l'ambito di applicazione di tale disposizione, introdotta dal già citato d. lgs. n. 68/2018, è quantomeno dubbio.

Ed in effetti, già nella vigenza della precedente versione del CAP, la giurisprudenza aveva avuto modo di chiarire che «grava sull'intermediario un obbligo di consiglio e consulenza nei confronti del cliente, che non si limita ad una mera informativa sulle caratteristiche del contratto proposto, ma si sostanzia in una vera e propria comprensione delle necessità dell'assicurato, al fine di proporre un prodotto adeguato alle sue esigenze» (App. Milano, 4 gennaio 2017)

In particolare, tale affermazione farebbe di fatto coincidere l'attività di consulenza con la verifica di adeguatezza del prodotto. La nuova norma, invece, almeno per come formulata («…se viene offerta una consulenza prima della conclusione del contratto…»), parrebbe riferirsi ad una fattispecie meramente eventuale, in cui il distributore non si limita ad effettuare la verifica di adeguatezza di un determinato prodotto (in relazione al quale ha ricevuto una proposta assicurativa da parte del contraente), ma individua, tra più soluzioni di prodotto disponibili e tutte ugualmente adeguate, quella “più indicata” (per utilizzare le parole del legislatore) a soddisfare le richieste e le esigenze rappresentategli.

In altri termini, un'interpretazione sistematica della norma in questione imporrebbe di considerare la verifica di adeguatezza alla stregua di una “prestazione minima” che il distributore è tenuto sempre e comunque ad eseguire ex lege; l'eventuale consulenza costituirebbe, invece, una prestazione accessoria, che presuppone, al contrario, l'assunzione, da parte del distributore, di uno specifico ed ulteriore obbligo nei confronti del cliente.

Nondimeno, data per buona questa impostazione, dovremmo a quel punto ritenere che l'unico soggetto abilitato a fornire consulenza, nei termini di cui si è detto, sia il Broker, ovvero l'intermediario iscritto alla sezione B del Registro Unico degli Intermediari assicurativi (art. 109 CAP).

Dispone, infatti, il comma 4 dell'art. 119-ter CAP: «quando un intermediario assicurativo fornisce consulenze fondate su un'analisi imparziale e personale, lo stesso deve fondare tali consulenze sull'analisi di un numero sufficiente di contratti di assicurazione disponibili sul mercato, che gli consenta di formulare una raccomandazione personalizzata, secondo criteri professionali, in merito al contratto assicurativo adeguato a soddisfare le esigenze del contraente».

Ebbene, va da sé che una simile attività resti estranea all'agire tipico dell'impresa assicurativa, la quale è sì inclusa all'interno della categoria dei distributori (così come definita dal d. lgs. 58/2018), ma, nondimeno, risulta del tutto naturalmente “mossa” dall'obiettivo di allargare il proprio portafoglio e di promuovere i propri prodotti (e, cioè, da finalità non compatibili, se non addirittura “antitetiche”, rispetto all'interesse del contraente, fermo ovviamente l'indefettibile obbligo di collocare solo prodotti adeguati nei termini di cui si è detto nel paragrafo precedente); alle medesime conclusioni dovremmo giungere, poi, con riguardo all'agente, atteso che quest'ultimo opera su mandato dell'impresa.

E ancora dovremmo escludere che l'attività di consulenza possa essere svolta dall'intermediario iscritto alla Sez. D del RUI.

Dispone, infatti, l'art. 119 comma 2 CAP: «possono essere distribuiti attraverso gli intermediari di cui all'articolo 109, comma 2, lettera d), salvo iscrizione ad altra sezione del registro, esclusivamente i prodotti assicurativi ai quali accedono garanzie o clausole predeterminate che vengano rimesse alla libera scelta dell'assicurato e non siano modificabili dal soggetto incaricato della distribuzione».

In particolare, occorre notare come tale specifica limitazione sia stata tradizionalmente giustificata, sotto il profilo sistematico, dal fatto che i soggetti iscritti alla sez. D del RUI (banche, intermediari finanziari, società di intermediazione mobiliare, la società Poste Italiane - Divisione servizi di bancoposta) difetterebbero di quei requisiti di professionalità che sarebbero posseduti, al contrario, dagli intermediari tradizionali (agenti di assicurazioni e broker).

Per le medesime ragioni dovremmo escludere che l'attività di consulenza possa essere svolta dall'intermediario a titolo accessorio, che, per definizione, svolge, in via principale, un'attività professionale diversa dalla distribuzione assicurativa e può collocare soltanto determinati prodotti assicurativi, complementari rispetto ad un bene o servizio.

Alla luce di quanto sopra, dovremmo, dunque, concludere che solo il Broker può eventualmente svolgere attività di consulenza ai sensi dell'art. 119 ter comma 3.

In tal senso, sempre nella vigenza della precedente versione del CAP, la Cassazione ha avuto modo di chiarire che «alla luce della complessiva disciplina legislativa il Broker assicurativo svolge - accanto ad un'attività (imprenditoriale) di mediazione nella conclusione e gestione dei contratti assicurativi - una prioritaria attività (intellettuale) di collaborazione ed assistenza nella fase che precede la messa in contatto con l'assicuratore, durante la quale non è equidistante dalle parti, ma agisce per iniziativa dell'assicurando e come consulente fiduciario dello stesso, analizzando i modelli contrattuali sul mercato e rapportandoli alle esigenze del cliente, allo scopo di individuare la polizza assicurativa economicamente più conveniente e maggiormente confacente ai bisogni dell'assicurando» (Cass. civ., n. 12973/2010).

Invero, non si potrà omettere di considerare come, sul mercato, si sia da tempo diffuso uno strumento contrattuale, il c.d. accordo di libera di collaborazione, con cui l'impresa assicurativa s'impegna a riconoscere un compenso, in favore del Broker, per l'ipotesi in cui il cliente di quest'ultimo si determini, infine, a concludere il contratto con l'impresa medesima.

Ebbene, pare evidente che tali prassi contrattuali, pur non impegnando il Broker a promuovere i prodotti dell'impresa, finiscono in ogni caso con l'inquinare il ruolo del distributore e, dunque, affievoliscono la differenza – teoricamente netta per le ragioni di cui è detto sopra – tra il Broker e le altre categorie di distributori. D'altro canto, deve osservarsi che il Broker potrebbe intrattenere plurimi rapporti di collaborazione con differenti compagnie assicurative e ciò potrebbe consentirgli di attingere ad un catalogo di prodotti particolarmente ampio e, dunque, di meglio effettuare quell'analisi di mercato richiesta dal comma 4 dell'art. 119-ter CAP.

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È proprio questo il caso dei c.d. comparatori, ovvero soggetti regolarmente iscritti alla Sez. B del RUI, che forniscono, tramite un sito internet o altri mezzi, informazioni relativamente a uno o più contratti di assicurazione, anche confrontati o ordinati, sulla base di criteri eventualmente scelti dal cliente, in termini di premi ed eventuali sconti applicati o di ulteriori caratteristiche del contratto.

Ebbene, tale attività rientra espressamente nella definizione di distribuzione, atteso che al cliente viene altresì offerta assistenza (ad esempio, mediante telefono) per l'eventuale conclusione del contratto (art. 106 CAP).

Nondimeno, è quantomeno dubbio che l'attività svolta da tali soggetti possa integrare una vera e propria consulenza, atteso che, per come concepito, il servizio di comparazione si limita ad assumere alcune informazioni relative alle esigenze assicurative dell'utente nonché a restituire a quest'ultimo la quotazione dei differenti prodotti in catalogo. Oltretutto, non si rinviene, di norma, nelle condizioni di servizio alcun impegno a fornire consulenza (e ciò a maggior ragione ove si consideri che l'attività di comparazione, almeno formalmente, è prestata gratuitamente in favore dell'utente).

La “natura” della responsabilità del distributore

A fronte di tale potenziale “articolazione” dell'attività di distribuzione (con o senza consulenza), potrà certamente tornare utile un rinvio a quanto statuito nel 2007 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di responsabilità dell'intermediario finanziario

In quello storico precedente, infatti, la Corte ha affermato che “la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d' investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione” (Cass. civ., Sez. Un. n. 26724/2007).

Ebbene, non vi è chi non veda come, in ambito finanziario, l'attività d'intermediazione si dipani in una vicenda contrattuale complessa, che trae origine dal conferimento, a monte, di un mandato al professionista e trova esecuzione mediante la conclusione di specifici contratti d'investimento.

Mutatis mutandis tale schema contrattuale può rinvenirsi, di fatto, anche nella fattispecie descritta dall'art. 119-ter comma 3, atteso che, in tale ipotesi, il distributore assicurativo (nella specie il Broker) s'impegna contrattualmente ad individuare il prodotto più indicato tra quelli disponibili sul mercato (ovviamente nei termini di cui si è detto nel paragrafo precedente).

Con riguardo a tale fattispecie, dunque, non può dubitarsi che l'eventuale responsabilità dell'intermediario per aver “mal consigliato” il contraente abbia natura contrattuale; ciò, tanto nell'ipotesi in cui il contratto risulti inadeguato alle esigenze rappresentagli, tanto nell'ipotesi in cui sul mercato fosse disponibile un prodotto più indicato rispetto a quello suggerito.

IN EVIDENZA

Tali conclusioni potrebbero essere spese anche a prescindere dal conferimento di un incarico scritto al Broker: per definizione, infatti, il mandato è un contratto a forma libera.

D'altro canto, nell'ipotesi in cui l'incarico abbia ad oggetto non solo l'individuazione del prodotto più indicato alle esigenze dell'assicurato, ma, altresì, la conclusione del contratto in nome e per conto di quest'ultimo, il mandato conferito al Broker dovrà essere ragionevolmente conferito per iscritto: il contratto assicurativo è soggetto, infatti, alla forma scritta ad probationem e l'art. 1392 c.c. dispone che «la procura non ha effetto se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere».

Deve segnalarsi, nondimeno, che in tale ipotesi “il requisito formale assume rilievo solo sul piano probatorio, sicché la sua mancanza non può determinare l'invalidità della procura” (così Cass. civ. sez. I, 29 agosto 1997, n. 8198)

A diverse conclusioni dovremmo giungere con riferimento all'inadempimento dell'obbligo primario di verificare l'adeguatezza del contratto avuto riguardo alle esigenze assicurative rappresentategli.

Si è già detto, infatti, che tale obbligo grava su tutti i distributori che entrino in contatto col contraente e, dunque, a prescindere dal conferimento di un mandato consulenziale.

Ora, si è visto come la Cassazione abbia ricondotto tale obbligo alla più generale regola prevista dall'art. 1337 c.c., che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede “nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto”.

Invero, potrebbe dubitarsi della correttezza di tale lettura, atteso che, per tutte le ragioni di cui si è detto, il Broker non potrebbe giammai agire per conto dell'impresa e, per l'effetto, non potrebbe mai assumere, di fatto, il ruolo di controparte rispetto al contraente (cioè che, invece, potrebbe dirsi dell'agente, il quale opera in nome e per conto dell'impresa e, dunque, assume il ruolo di controparte “sostanziale” del contraente).

Oltretutto, ben potrebbe obiettarsi che l'art. 1337 c.c. disciplina una fattispecie specifica, ovvero quella di c.d. rottura ingiustificata delle trattive contrattuali; la responsabilità del distributore, al contrario, potrebbe venire in rilievo proprio in quei casi in cui il contratto, invece, sia stato validamente stipulato, ma, nondimeno, risulti inadeguato.

D'altro canto, rispetto a tale ultimo punto la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che la regola posta dall'art. 1337 c.c. «ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell'altrui comportamento scorretto» (Cass. civ. sez. III, sent., 8 ottobre 2008, n. 24795).

Sotto un profilo strettamente sistematico, dunque, il riferimento all'art. 1337 c.c. non risulta poi peregrino; nondimeno, occorre considerare come la natura della responsabilità precontrattuale sia tuttora controversa.

Secondo una formula tralatizia, infatti, l'istituto della responsabilità precontrattuale, disciplinando una fattispecie che si pone al di fuori del rapporto negoziale, costituirebbe «una forma di responsabilità extracontrattuale, che si collega alla violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell'"iter" di formazione del contratto, sicché la sua sussistenza, la risarcibilità del danno e la valutazione di quest'ultimo debbono essere vagliati alla stregua degli art. 2043 e 2056 c.c., tenendo peraltro conto delle caratteristiche tipiche dell'illecito in questione» (Cass. civ., Sez. Un., 16 luglio 2001, n. 9645).

È tuttavia noto che, a far data dal 1999, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione si sia fatta strada la teoria del c.d. contatto sociale.

In particolare, la Corte ha affermato che «le obbligazioni possono sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi», prosegue la Corte, «non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (é infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043 c.c., l'ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale» (Cass. civ., n. 589/1999).

Ed è proprio muovendo da quel precedente che la Cassazione, chiamata a pronunciarsi in tema di contratti conclusi con la P.A., ha più di recente affermato che l'eventuale responsabilità di quest'ultima «deve qualificarsi come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., ed è inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.,» (Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).

Alla luce di tale ultimo orientamento, non è, dunque, casuale che l'art. 58 comma 7 Reg. IVASS 40 disponga espressamente che - in caso di collaborazione orizzontale tra intermediari (ovvero tra quelli iscritti nelle Sezioni A, B e D del RUI) - la verifica di adeguatezza deve essere svolta dal soggetto “che entra in contatto con il contraente (ferma la responsabilità solidale di entrambi gli intermediari nei confronti del contraente ai sensi dell'art. 22, comma 11, d.l. n. 179/2012 e dell'art. 42, comma 5, Reg. 40 IVASS).

ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Sulla responsabilità “extracontrattuale”

«La responsabilità precontrattuale, configurabile per violazione del precetto posto dall'art. 1337 c.c. - a norma del quale le parti, nello svolgimento delle trattative contrattuali, debbono comportarsi secondo buona fede - costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, che si collega alla violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell'"iter" di formazione del contratto, sicché la sua sussistenza, la risarcibilità del danno e la valutazione di quest'ultimo debbono essere vagliati alla stregua degli art. 2043 e 2056 c.c., tenendo peraltro conto delle caratteristiche tipiche dell'illecito in questione» (Cass. civ., Sez. Un., 16 luglio 2001, n. 9645).

Sulla responsabilità da “contatto sociale”

«In tema di contratti conclusi con la P.A., l'eventuale responsabilità di quest'ultima, in pendenza dell'approvazione ministeriale, deve qualificarsi come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., ed è inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall'art. 2946 c.c.» (Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).

Si noti come la questione non sia meramente nominalistica, atteso che l'adesione all'uno o all'altro orientamento riverbera i propri effetti in primo luogo sul riparto dell'onere della prova.

Ed infatti, accedendo alla tesi dell'illecito extracontrattuale, graverebbe sul danneggiato l'onere di provare la violazione del canone di comportamento secondo buona fede da parte del danneggiante; aderendo alla tesi del contatto sociale, invece, al contraente basterebbe allegare l'inadempimento del distributore, rimettendo a quest'ultimo l'onere di fornire la prova liberatoria (ad esempio, esibendo il questionario di adeguatezza).

E ancora, nel primo caso il diritto al risarcimento sarebbe soggetto al termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 2947 c.c., nel secondo caso a quello decennale di cui all'art. 2946 c.c.

Ma vi è di più.

Inadeguatezza del contratto e risarcimento del danno

Si è già avuto modo di segnalare come, tradizionalmente, l'art. 1337 c.c. abbia trovato applicazione in caso di rottura ingiustificata della trattativa.

Ebbene, proprio in ragione delle peculiarità di tale fattispecie (in cui il contratto, infine, non viene concluso), la Cassazione ha da sempre ritenuto che il risarcimento, in caso di responsabilità precontrattuale, dev'essere limitato al c.d. "interesse negativo", e, cioè, dev'essere commisurato alle spese sostenute per le trattative rivelatesi poi inutili e alle perdite subite per non usufruito di occasioni alternative di affari, non coltivate per l'affidamento nella positiva conclusione del contratto per il quale le trattative erano state avviate (Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14539).

Nondimeno, lo si ripete, la responsabilità del distributore potrebbe emergere proprio nell'ipotesi inversa, ovvero quella in cui il contratto risulti inadeguato.

Proprio in tal senso, la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di intermediazione finanziaria, ha apportato un correttivo a tale orientamento e ha affermato che «in caso di responsabilità precontrattuale relativa alla conclusione di un contratto valido ed efficace ma sconveniente, il risarcimento del danno, pur non potendosi commisurare al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto (c.d. interesse positivo), neppure può coincidere con la tradizionale figura del c.d. interesse negativo, commisurato alle spese vanamente sostenute e alle occasioni alternative mancate a causa della trattativa poi risultata inutile; bensì deve ragguagliarsi al minor vantaggio o al maggior aggravio economico subito dalla vittima per il comportamento sleale di controparte, salva la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto» (Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024).

È la stessa Corte a chiarire il ragionamento posto alla base di tale statuizione: quando il danno deriva da un contratto valido ed efficace ma "sconveniente", il risarcimento non può essere determinato avendo riguardo all'interesse della parte - vittima del comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) - a non essere coinvolta nelle trattative, «per la decisiva ragione che, in questo caso, il contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l'interferenza del comportamento scorretto».

Ora, volendo applicare tale principio in ambito assicurativo potrebbero tornare utili due esempi di scuola.

Si dia il caso che il contraente, in fase precontrattuale, abbia dichiarato al distributore di voler assicurare integralmente la propria responsabilità civile (ad esempio quella professionale) e che, nondimeno, venga a conoscenza, a sinistro avvenuto, della previsione – all'interno delle condizioni di polizza - di una franchigia/scoperto a suo carico (s'immagini che tale clausola non sia correttamente rappresentata nella scheda di polizza, ma sia prevista tra le pieghe del c.d. set informativo senza il rispetto dei canoni formali di cui all'art. 166 CAP: « … le clausole che indicano decadenze, nullità o limitazione delle garanzie ovvero oneri a carico del contraente o dell'assicurato sono riportate mediante caratteri di particolare evidenza … »).

In tal caso, il contratto è pienamente valido e il sinistro verrà indennizzato dall'assicuratore, previa decurtazione della franchigia; nondimeno, l'assicurato ben potrebbe lamentare il danno patito per aver confidato, senza sua colpa, nella copertura integrale e, dunque, chiedere al distributore il “rimborso” della somma rimasta a suo carico a titolo di franchigia.

Nondimeno, potrebbe darsi altresì il caso in cui il contraente (ad esempio un medico), abbia dichiarato, sempre in fase precontrattuale, di esercitare in via principale un'attività specialistica, che, invece, è espressamente esclusa dall'ambito di operatività della polizza (anche in questo caso senza il rispetto dei canoni formali di cui all'art. 166 CAP); per l'effetto, in caso di sinistro, il contraente/ assicurato potrebbe lamentare, non di aver conseguito un minor vantaggio, ma addirittura di non averne conseguito alcuno.

In altri termini, in tale ultima ipotesi, il contraente si ritroverebbe esposto ad un pregiudizio - quello derivante dalla mancata esecuzione del contratto (c.d. interesse positivo) – che la giurisprudenza di legittimità, come visto, ritiene escluso dall'ambito del danno risarcibile. Ben potrà cogliersi, nondimeno, come tale conclusione sia del tutto irragionevole, nel momento in cui priva di tutela proprio colui il quale patisce il danno maggiore.

Pare, dunque, a chi scrive che il principio di diritto sopra citato, nella parte in cui esclude formalmente il risarcimento dell'interesse positivo, si risolva in una mera petizione di principio; per l'effetto, deve ritenersi che il risarcimento del danno patito per un illecito consumatosi nella fase precontrattuale (almeno nell'ipotesi qui presa in considerazione) sia soggetto né più né meno alle comuni regole di cui all'artt. 1223 e ss. c.c.

IN EVIDENZA

Invero, nel caso da ultimo esemplificato, un limite al danno risarcibile dovrebbe essere comunque rinvenuto nel limite del massimale pattuito con l'impresa; diversamente, l'assicurato conseguirebbe un indebito arricchimento, potendo a quel punto pretendere dal distributore il “rimborso”, a titolo di risarcimento, di quella somma – eccedente il massimale – che in ogni caso sarebbe rimasta a suo carico.

I criteri di valutazione dell'adeguatezza del contratto

Già alla luce di quanto sopra riportato, ben potrà cogliersi come, ad oggi, non si rinvengano numerosi precedenti giurisprudenziali in materia di responsabilità dell'intermediario assicurativo e ciò riflette, molto probabilmente, la scarsa comprensione, da parte dell'utenza e degli operatori del diritto, del ruolo altamente professionale rivestito dal distributore e degli obblighi sul medesimo gravanti.

D'altro canto, non vi è dubbio che uno degli obiettivi che ha ispirato il legislatore europeo della direttiva IDD sia stato quello di meglio “qualificare” l'attività di distribuzione assicurativa, molto spesso appiattita su logiche di mera “produzione” e, talvolta, poco sensibile alle effettive esigenze della clientela.

Non stupisce, dunque, che, nell'era dell'intermediazione digitalizzata (si pensi ai c.d. comparatori cui si è già fatto riferimento), il considerando 48 della direttiva IDD stigmatizzi la necessità che l'intermediario ed i suoi dipendenti dispongano del tempo e delle risorse per poter correttamente adempiere ai propri obblighi (« … è opportuno che l'intermediario assicurativo spieghi al cliente quali sono le caratteristiche principali del prodotto assicurativo che vende e per tanto i suoi dipendenti dovrebbero disporre delle risorse e del tempo necessari a tal fine … »).

Da ultimo, non può omettersi di considerare come molto spesso l'attività consulenziale si risolva nell'individuazione dell'offerta assicurativa economicamente più conveniente per il contraente, senza tener conto di altri aspetti che dovrebbero prevalere nella complessiva valutazione circa l'adeguatezza o meno del prodotto assicurativo.

Dispone, infatti, l'art. 58 Reg. IVASS n. 40: «i distributori chiedono notizie sulle caratteristiche personali e sulle esigenze assicurative o previdenziali del contraente o dell'assicurato, che includono, ove pertinenti, specifici riferimenti all'età, allo stato di salute, all'attività lavorativa, al nucleo familiare, alla situazione finanziaria ed assicurativa e alle sue aspettative in relazione alla sottoscrizione del contratto, in termini di copertura e durata, anche tenendo conto di eventuali coperture assicurative già in essere, del tipo di rischio, delle caratteristiche e della complessità del contratto offerto».

Ovviamente, la questione dell'adeguatezza si pone con particolare urgenza in relazione alle soluzioni assicurative maggiormente complesse; d'altro canto, non si può omettere di considerare come anche il collocamento di soluzioni assicurative di larghissima diffusione imponga all'intermediario di assolvere correttamente all'obbligo di verificare l'adeguatezza del contratto proposto. Si pensi, ad esempio, alla garanzia RCA che sia prestata con la formula di c.d. “guida esclusiva”: ebbene, tale soluzione potrà di certo risultare più conveniente rispetto alla formula di c.d. “guida libera”, ma al contempo inadeguata per il padre famiglia il cui veicolo sia a disposizione di coniuge e figli.

IN EVIDENZA

Si consideri, invero, come la polizza RCA prestata con formula di “guida esclusiva” operi nei confronti del terzo danneggiato anche nell'ipotesi in cui il sinistro venga cagionato da un soggetto diverso dal proprietario/assicurato: per l'intero massimale di polizza, infatti, l'impresa di assicurazione non può opporre al danneggiato eccezioni derivanti dal contratto (art. 144 CAP).

Nondimeno, la stessa norma riconosce all'impresa un diritto di rivalsa verso l'assicurato nella misura in cui avrebbe potuto contrattualmente rifiutare o ridurre la propria prestazione: per l'effetto, a causa dell'inadeguatezza del contratto il proprietario del veicolo sarebbe comunque esposto ad un danno patrimoniale.

Il richiamo all'assicurazione della RCA, peraltro, ci impone di considerare come, nell'economia complessiva della valutazione di adeguatezza, possano venire in rilievo anche gli interessi di soggetti terzi. In particolare, la questione si è posta, più di recente, con riguardo ai contratti di assicurazione della RC professionale.

È noto, infatti, che l'art. 3, comma 5 lett. e) del d.l. n. 138/2011 abbia disposto che «a tutela del cliente, il professionista è tenuto a stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti dall'esercizio dell'attività professionale».

Ebbene, è interessante notare come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a porre fine all'inveterata questione inerente alla legittimità della c.d. clausola claims made, abbiano acutamente rilevato che l'obbligo assicurativo a carico dei professionisti è stato introdotto nel prevalente interesse del terzo danneggiato e che quest'ultimo potrebbe risultare non pienamente protetto da una copertura di RC che escluda dal proprio ambito di operatività quei fatti che, per quanto verificatisi in costanza di garanzia, vengano denunciati solo successivamente alla scadenza del contratto (Cass. civ., Sez. Un., n. 9140/2016).

Verrebbe dunque da affermare che il contratto di assicurazione di RC professionale, ove strutturato secondo la formula claims made, sia ictu oculi inadeguato rispetto all'interesse del terzo.

Tant'è che l'art. 1 comma 26, Legge c.d. Concorrenza (l. n. 124/2017) ha successivamente integrato la norma sopra richiamata nella parte in cui le condizioni generali delle polizze di RC professionale devono prevedere «l'offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura».

Casistica

Sugli obblighi dell'intermediario (in generale)

«In materia di contratto di assicurazione, l'assicuratore (come il proprio intermediario o promotore) ha il dovere primario – ai sensi degli artt. 1175, 1337 e 1375 cod. civ. – di fornire al contraente una informazione esaustiva, chiara e completa sul contenuto del contratto, oltre quello di proporgli polizze assicurative realmente utili alle sue esigenze, integrando la violazione di tali doveri una condotta negligente ex art. 1176, secondo comma, cod. civ.» (Cass. civ., n. 8412/2015).

Sulla definizione di consulenza

«Grava sull'intermediario un obbligo di consiglio e consulenza nei confronti del cliente, che non si limita ad una mera informativa sulle caratteristiche del contratto proposto, ma si sostanzia in una vera e propria comprensione delle necessità dell'assicurato, al fine di proporre un prodotto adeguato alle sue esigenze» (App. Milano, 4 gennaio 2017).

Sugli obblighi del broker

«Alla luce della complessiva disciplina legislativa il broker assicurativo svolge - accanto ad un'attività (imprenditoriale) di mediazione nella conclusione e gestione dei contratti assicurativi - una prioritaria attività (intellettuale) di collaborazione ed assistenza nella fase che precede la messa in contatto con l'assicuratore, durante la quale non è equidistante dalle parti, ma agisce per iniziativa dell'assicurando e come consulente fiduciario dello stesso, analizzando i modelli contrattuali sul mercato e rapportandoli alle esigenze del cliente, allo scopo di individuare la polizza assicurativa economicamente più conveniente e maggiormente confacente ai bisogni dell'assicurando» (Cass. civ., n. 12973/2010).

Sulla responsabilità dell'intermediario finanziario

«La violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d' investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione» (Cass. civ., Sez. Un., n. 26724/2007).

Sulla forma del mandato consulenziale

«La disposizione dell'art. 1392 c.c. - secondo cui la procura non ha effetto se non è conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere - è riferibile soltanto ai contratti rispetto ai quali sia la legge a prescrivere una particolare forma, mentre, rispetto ai contratti per i quali la forma sia richiesta solo ad probationem (nella specie, il contratto di assicurazione e art. 1888 c.c.), il requisito formale assume rilievo solo sul piano probatorio, sicché la sua mancanza non può determinare l'invalidità della procura» (Cass. civ. n. 8198/1997).

Sull'ambito di applicazione dell'art. 1337 c.c.

«La regola posta dall'art. 1337 cod. civ. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso ed implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell'altrui comportamento scorretto» (Cass. civ., n. 24795/2008).

Sulla responsabilità da c.d. “contatto sociale”

«Le obbligazioni possono sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. In questi casi», prosegue la Corte, «non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (è infatti ormai acquisito che, nell'ambito dell'art. 2043 c.c., l'ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale» (Cass. civ., n. 589/1999).

Sulla natura extra contrattuale della responsabilità ex art.1337 c.c.

«La responsabilità precontrattuale, configurabile per violazione del precetto posto dall'art. 1337 c.c. - a norma del quale le parti, nello svolgimento delle trattative contrattuali, debbono comportarsi secondo buona fede - costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, che si collega alla violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell'"iter" di formazione del contratto, sicché la sua sussistenza, la risarcibilità del danno e la valutazione di quest'ultimo debbono essere vagliati alla stregua degli artt. 2043 e 2056 c.c., tenendo peraltro conto delle caratteristiche tipiche dell'illecito in questione» (Cass. civ., Sez. Un. n.9645/2001).

Sulla natura contrattuale della responsabilità ex art. 1337 c.c.

«In tema di contratti conclusi con la P.A., l'eventuale responsabilità di quest'ultima, in pendenza dell'approvazione ministeriale, deve qualificarsi come precontrattuale, ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c., ed è inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale da "contatto sociale qualificato", inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti, non obblighi di prestazione ai sensi dell'art. 1174 c.c., bensì reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c., con conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall'art. 2946 c.c.» (Cass. civ., n. 14188/2016).

Sulla limitazione del danno illecito precontrattuale al solo interesse c.d. negativo

«Il danno cagionato da illecito precontrattuale è risarcibile nei soli limiti dell'interesse negativo, inteso come il pregiudizio che il danneggiato subisci per avere inutilmente confidato nella conclusione del contratto (id quod interest contractus initus non fuisset). Siffatto pregiudizio, circoscritto nei limiti dell'illecito precedente il contratto, tendenzialmente comprende l'integrale risarcimento del danno sofferto dal contraente ignaro e può venire in rilievo sia sotto il profilo del danno emergente (consistente nelle spese sopportate nel corso delle trattative) sia sotto il profilo del lucro cessante sofferte dal contraente per la mancata conclusione di altre trattative dalle quali è stato distolto» (Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14539).

Sul risarcimento del danno da illecito precontrattuale in caso di stipulazione valida ed efficace

«In caso di responsabilità precontrattuale relativa alla conclusione di un contratto valido ed efficace ma sconveniente, il risarcimento del danno, pur non potendosi commisurare al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto (c.d. interesse positivo), neppure può coincidere con la tradizionale figura del c.d. interesse negativo, commisurato alle spese vanamente sostenute e alle occasioni alternative mancate a causa della trattativa poi risultata inutile; bensì deve ragguagliarsi al minor vantaggio o al maggior aggravio economico subito dalla vittima per il comportamento sleale di controparte, salva la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto» (Cass. civ., n. 19024/2005).

Sull'adeguatezza della formula claims made rispetto alle esigenze del terzo danneggiato

«È stata da più parti segnalata l'incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici, quel che in questa sede rileva è che il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura. È peraltro di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico. E di tanto dovrà necessariamente tenersi conto al momento della stipula delle "convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti", nonché in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l'idoneità dei relativi contratti» (Cass. civ., Sez., Un. n. 9140/2016).

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