Continuità aziendale e responsabilità degli amministratori
17 Dicembre 2018
Capita che nell'ambito dell'esercizio dell'azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., il curatore contesti, talvolta troppo genericamente, agli amministratori – ed al collegio sindacale, quanto alla culpa in vigilando – di avere arrecato danno alla società e/o ai creditori sociali per effetto della prosecuzione dell'attività d'impresa, una volta venuta meno – si dice – la continuità aziendale. Il venir meno della continuità aziendale (fatto economico) può essere collegato, fra gli altri fattori, alla perdita del capitale sociale, elemento, quest'ultimo, che rappresenta uno dei presupposti di scioglimento del vincolo societario (fatto giuridico). In questo caso, la legge impone agli amministratori di convocare, senza indugio, l'assemblea per deliberare, da una parte, la riduzione del capitale sociale, dall'altra, contemporaneamente, il suo aumento al di sopra dei minimi di legge, salvo che non venga deliberata la trasformazione della società. Ove l'assemblea non vi provveda, gli amministratori devono accertare la causa di scioglimento, procedendo alla relativa pubblicità ed astenendosi, al contempo, dal compimento di attività che non siano finalizzate alla conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale. E ciò sino a quando non venga data formale esecuzione alla pubblicità della nomina dei liquidatori, pena la responsabilità personale e solidale degli amministratori in relazione ai danni arrecati alla società, ai soci, ai creditori e ai terzi (artt. 2485, 2486 e 2487-bis c.c.). Il danno – sul ricordato presupposto della illegittimità della prosecuzione dell'attività d'impresa, una volta perduto il capitale – è determinato sulla base dell'eventuale decremento del patrimonio assunto con riferimento, da un lato, alla data della (doverosa) rilevazione della causa di scioglimento, dall'altro, alla data di scioglimento del vincolo sociale ovvero, se anteriore, alla data di apertura del fallimento (Cass., civ. sez. I, 20 aprile 2017, n. 9983). D'altra parte, nel nostro ordinamento vige la "tipicità" delle cause di scioglimento – e, fra queste, non è annoverata la mancanza (recte, il venir meno) della continuità aziendale, la quale non può dunque rilevare neanche nella (diversa) prospettiva della sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, ex art. 2484, comma 1, n. 2), c.c.
Sul punto, la Cassazione ha adottato un'interpretazione restrittiva, circoscrivendo la fattispecie "dissolutiva" della sopravvenuta impossibilità di raggiungere l'oggetto sociale ai soli casi di assoluta impossibilità giuridica e/o materiale, fra cui non può farsi rientrare la perdita della continuità (Cass., civ. sez. I, 15 luglio 1996, n. 6410). Del resto, attrarre nell'alveo delle causa di scioglimento la "discontinuità" aziendale, intesa quale impossibilità economica di raggiungere l'oggetto sociale, genererebbe interferenze sul piano della funzione riorganizzativa/risanatoria dell'impresa in crisi (v. infra). La perdita della continuità può assumere rilevanza, nella prospettiva della responsabilità degli organi sociali, indipendentemente dalla perdita del capitale, dunque prescindendo dal verificarsi della formale causa di scioglimento del vincolo societario, ex art. 2484, comma 1, n. 4), c.c. Il concetto di “continuità” trova fondamento nella scienza aziendalistica, rappresentando l'attitudine dell'impresa a generare flussi economico-finanziari idonei a dare compimento al ciclo produttivo e, dunque, a far fronte regolarmente alle obbligazioni aziendali in un arco temporale di almeno dodici mesi dalla chiusura dell'esercizio. La legge attribuisce rilevanza alla continuità aziendale quale postulato cardine per la corretta formazione del bilancio d'esercizio: le valutazioni contabili devono essere fatte nella prospettiva della continuazione dell'attività d'impresa (art. 2423-bis c.c.). I valori aziendali sono dunque espressi sul presupposto che la società proceda su binari d'ordinario funzionamento, senza intenzione, né necessità d'interrompere il corso della gestione. È compito degli amministratori verificare la capacità dell'impresa di operare secondo tali criteri di “normalità”, attraverso un'adeguata, doverosa attività di monitoraggio della gestione aziendale. Qualora da tale attività di controllo emergano significative incertezze circa la sussistenza delle condizioni d'equilibrio economico-finanziario, gli amministratori sono tenuti a fornire adeguate informazioni nell'ambito dei documenti di bilancio e nella relazione sulla gestione. Integra il requisito della “significatività” ogni evento o condizione la cui gravità e/o straordinarietà renda probabile che la società cessi di operare secondo i ricordati criteri d'ordinario funzionamento. Il processo di controllo degli amministratori si basa, oltreché sul set informativo contabile, rielaborato ai fini d'ogni più efficiente controllo di gestione, su idonei indicatori quantitativi e qualitativi, volti a misurare l'andamento reddituale, patrimoniale e finanziario dell'impresa. Gli amministratori che ritengano sussistente il presupposto della continuità aziendale pur in presenza di dubbi significativi sulla capacità di operare in un regime d'ordinario funzionamento, sono tenuti a fornire adeguate informazioni circa le iniziative assunte ovvero concretamente programmate al fine di neutralizzare gli effetti delle rilevate incertezze, soffermandosi – con trasparenza – sui profili di ragionevolezza e fattibilità di tali soluzioni. Qualora, al contrario, gli amministratori giudichino probabile che la società cessi di operare secondo una prospettiva di going concern – e dunque ritengano che sia venuto meno il requisito della continuità –, adottano, ai fini della formazione del bilancio d'esercizio, alternativi criteri liquidatori, rimandando peraltro alla compagine sociale ogni determinazione circa l'eventuale scioglimento della società, ex art. 2484 c.c. Sotto altro profilo, venendo al tema della crisi d'impresa, gli amministratori hanno il dovere di fare quanto possibile – sempre peraltro nel rispetto del principio di business judgment rule – per tutelare e preservare la continuità aziendale e, più in generale, i valori aziendali ed il complesso produttivo. Quanto sopra, operando su due livelli.
Un primo livello attiene alla rilevazione anticipata delle soglie di attenzione delle difficoltà aziendali che possano condurre alla crisi d'impresa. In questa prospettiva “anticipatoria”, si colloca il sistema degli strumenti di allerta e prevenzione introdotto, come principio ispiratore della riforma, dalla legge delega n. 155/2017, anche in un quadro di trattative stragiudiziali e confidenziali finalizzate ad un accordo fra debitore e creditori. Secondo quello che sarà il testo definitivo del codice della crisi e dell'insolvenza, gli amministratori saranno tenuti, con il coinvolgimento degli organi di controllo e dei creditori pubblici “qualificati”, facendo perno sull'organismo di composizione assistita della crisi, a monitorare l'andamento della gestione prevenendo, attraverso la rilevazione – appunto anticipata – dei segnali di difficoltà aziendale, il manifestarsi della crisi (probabilità d'insolvenza). L'idea è che l'emersione "precoce" delle difficoltà aziendali possa consentire agli amministratori di adottare misure di risanamento quando ancora l'impresa sia in grado di evitare la dispersione dei valori aziendali. Peraltro, anche in base al diritto vigente gli amministratori sono ben tenuti a monitorare, in modo adeguato, l'andamento aziendale, nella prospettiva della sussistenza del requisito di continuità. Ci si riferisce, in particolare, all'art. 2381, comma 5, c.c., norma che impone all'organo delegato di far sì che l'assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura ed alle dimensioni dell'impresa, nonché di riferire periodicamente al consiglio d'amministrazione ed al collegio sindacale sull'andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione. L'adeguatezza dell'assetto aziendale passa, fra l'altro, attraverso l'esistenza di idonee procedure interne volte alla rilevazione tempestiva della crisi d'impresa e, più in generale, di un sistema di controllo interno finalizzato alla individuazione, misurazione e mitigazione dei rischi aziendali. Restano, poi, saldi in capo agli amministratori i generali doveri d'agire secondo diligenza e prudenza, con particolare riferimento alla responsabilità verso la società (art. 2392, comma 1, c.c.), e di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale, con particolare riferimento alla responsabilità verso i creditori (art. 2394, comma 1, c.c.). Siamo quindi al secondo livello, il quale attiene alla necessità di adottare – nel rispetto dei doveri di cui sopra –, una volta intercettati i segnali di tendenziale “discontinuità” aziendale, in modo appropriato rispetto al livello di difficoltà rilevata, uno degli strumenti previsti nell'ambito della vigente legge fallimentare riformata. Passando dunque, con riferimento agli strumenti previsti dalla normativa generale, dal piano di risanamento attestato ex art. 67, comma 3, l. fall., qualora sia ritenuto idoneo – in un quadro negoziale, pur con le tutele previste dalla legge in caso di successivo fallimento –, al risanamento dell'esposizione debitoria d'impresa e ad riequilibrio della situazione finanziaria. Ovvero dall'accordo ex art. 182-bis l. fall., finalizzato – ancora in quadro negoziale, ma con profili di evidente concorsualità (es., effetti sospensivi ed inibitori in ordine alle azioni esecutive e cautelati, per quanto temporanei, erga omnes) – alla ristrutturazione dei debiti aziendali, laddove idoneo ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori estranei, nel rispetto dei termini di legge. Ovvero, infine, al piano d'impresa contenuto nella domanda di concordato preventivo, volto – sul presupposto dei requisiti di piena concorsualità della procedura – alla ristrutturazione dei debiti ed alla soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma tecnica e negoziale. In conclusione, venuto meno il requisito della continuità aziendale, la condotta degli amministratori (e del collegio sindacale, per quanto di propria competenza) – in caso di successivo fallimento – dovrà essere attentamente valutata dagli organi della procedura, ai fini della valutazione dei profili di eventuali responsabilità, sulla base dei criteri di diligenza, prudenza, ragionevolezza, ma anche perizia, adeguatezza e tempestività in ordine alle scelte adottate per gestire la situazione di crisi d'impresa, nella particolare prospettiva della tutela degli interessi dei creditori sociali.
|