Irragionevole durata del processo tributario ed equa riparazione: nuove alternative all'orizzonte?

21 Agosto 2018

Il procedimento di equa riparazione per irragionevole durata del processo, normativamente previsto dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (legge c.d. Pinto), non risulta, ad oggi, applicabile al contenzioso tributario, se non fatte salve le dovute eccezioni. Di fronte al costante indirizzo di chiusura espresso dalla Corte di Strasburgo, che ha ritenuto la materia fiscale ancora rientrante nel “nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica”, le posizioni assunte negli anni dalla nostra giurisprudenza di merito e di legittimità si sono rivelate altalenanti, sebbene allo stato consolidate verso l'esclusione dell'equa riparazione al processo tributario. Tale orientamento suscita non poche perplessità poiché, oltre a configurare un evidente vulnus all'art. 111 della Costituzione, priva di adeguata tutela i contribuenti coinvolti in processi tributari irragionevolmente lunghi.
La ragionevole durata del processo nell'ordinamento europeo e italiano

Fulcro centrale intorno al quale ruota uno Stato di diritto è dato dal principio di ragionevole durata del processo, il quale, senza ombra di dubbio, rappresenta il precetto essenziale alla cui stregua “si deve svolgere la competizione processuale in una società democratica” (Cardone, Diritti fondamentali (tutela multilivello), in Enciclopedia del diritto, Milano, 2011, 335 e ss.).

È innegabile, infatti, che l'efficienza del sistema giudiziario è elemento essenziale per assicurare lo Stato di Diritto.

Il funzionamento efficace della Giurisdizione favorisce il buon governo, aiuta a combattere la corruzione e a consolidare la fiducia dei cittadini verso le istituzioni, contribuendo, inoltre, allo sviluppo dell'individuo attraverso il godimento dei diritti economici e sociali e stimolando gli investimenti e le attività economiche (in tal senso La verità dell'Europa sui magistrati italiani, ed. 2016, dossier a cura dell'Associazione Nazionale Magistrati, che illustra il periodico monitoraggio effettuato dalla Commissione Europea per l'efficacia della Giustizia (CEPEJ) sui sistemi giudiziari dei 47 Paesi membri del Consiglio d'Europa).

La ragionevole durata del processo, oltre a costituire interesse collettivo ad una “giustizia non amministrata con ritardi tali da comprometterne l'efficienza e la credibilità” (Di Stasi, Principi giurisprudenziali e principi “costituzionali” euro-nazionali in materia di ragionevole durata del processo e del procedimento, in Diritto Comunitario e degli Scambi Internazionali, 2005, 229 e ss.), si impone quale interesse individuale ad un processo ragionevolmente celere, invocabile da tutte le parti in causa, ovvero non solo dal vincitore in una lite ma anche dal soccombente (Come è stato osservato da Focarelli, Equo processo e convenzione europea dei diritti dell'uomo, Padova, 2001, 274 e ss, “la dilatazione temporale delle operazioni processuali significa il differimento delle conseguenze negative della sentenza”).

Non a caso l'adagio anglosassone“Justice delayed is justice denied” (tale aforisma, spesso richiamato per descrivere l'esito più evidente e critico dell'incapacità dello Stato di rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia dei cittadini, rispecchia il pensiero del suo autore, Jeremy Bentham, che nel 1829, richiamando le “memorabili parole” della Magna Charta, pubblica i suoi “Justice and Codification Petitions”, appelli in favore di una giustizia accessibile a tutti e non solo a pochi a causa dei suoi costi elevati, reale e non più solo nominale), di sorprendente attualità, si erge ad assoluto imperativo per tutti i procedimenti, non solo per quelli penali (nel processo penale, visti gli interessi in gioco, la predetta garanzia rappresenta un'ineludibile necessità per la tutela dei diritti alla libertà, all'onore e alla reputazione dell'individuo), poiché un prolungamento del processo, con un ritardo nella soluzione della controversia, rischia di tradursi in un sostanziale diniego di giustizia.

Emerge, dunque, chiaramente la necessità di perseguire un'accelerazione e un'economia processuale tali da garantire una risoluzione della controversia in tempi ragionevoli, senza, di converso, andare a pregiudicare altri principi fondamentali di rilevanza costituzionale, quali il diritto al contraddittorio e/o il diritto di difesa (in realtà, come illustra con dovizia di particolari il rapporto della CEPEJ, già citato, per quanto riguarda l'Italia il numero di procedimenti civili istaurati ogni 100 abitanti è in linea con la media dei Paesi membri del Consiglio d'Europa. I giudici italiani, però, definiscono un numero di affari civili di primo grado, contenziosi e non contenziosi, superiore a quello che incamerano. Il numero assoluto dei procedimenti civili e commerciali del 2014 è diminuito di quasi il 30% rispetto a quelli giacenti nel 2010. I magistrati italiani possono vantare un clearance rate (indice di smaltimento dei procedimenti) del 119% rispetto ad una media di poco inferiore al 100%. Essi, quindi, riescono a definire più procedimenti rispetto a quelli ricevuti. Nonostante la positività di tale dato, l'Italia registra un gravissimo ritardo nel disposition time (tempi medi di definizione dei procedimenti). Nel 2014, infatti, si registra un tempo medio di definizione delle cause civili e commerciali in primo grado di 532 giorni, a fronte di una media, tra i Paesi oggetto del monitoraggio, di 237 giorni. In altri termini, è necessario attendere quasi due anni per avere una sentenza di primo grado).

Tuttavia, è innegabile che il tentativo di assicurare il rispetto della predetta garanzia, prefiggendosi quale obiettivo esclusivamente e pericolosamente la “celerità per la celerità” (Conso, Tempo e giustizia: un binomio in crisi, in Costituzione e processo penale: dodici anni di pagine sparse: 1956-1968, Milano, 1969), potrebbe inficiare e compromettere, in maniera inevitabile, una corretta ed equa amministrazione della giustizia.

Dal quadro sopra delineato, appare chiara l'importanza attribuita al principio di ragionevole durata, la quale risulta, comunque, confermata dalla tutela multilivello allo stesso riconosciuta in Convenzioni internazionali, oltre che nelle fonti europee e interne.

Nello specifico, tale principio è accolto nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) (firmata a Roma il 4 novembre del 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953, tale Carta è stata redatta nell'ambito del Consiglio d'Europa e si prefigge lo scopo di garantire il riconoscimento e l'applicazione universale ed effettiva dei diritti enunciati, delineando uno spazio di libertà e giustizia, che si sostanzia in una serie di regole minime, assolute ed irrinunciabili. In tal senso, Gaito-Giunchedi, Il giudice più idoneo tra prospettive sovranazionali e giustizia interna, in Procedura penale e garanzie europee, Torino, 2006), e precisamente nell'art. 6, § 1, rubricato “Diritto ad un equo processo”.

In tal senso, la norma convenzionale sopracitata attribuisce ad ogni individuo il “diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole davanti ad un Tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge e chiamato a pronunciarsi sulle controversie concernenti diritti e doveri di carattere civile, nonché sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”.

Pertanto, risulta inequivoca la volontà del legislatore europeo di inserire, nell'alveo del processo equo, la garanzia della sua ragionevole durata: non v'è dubbio, infatti, che un procedimento, che osservi i canoni dell'equità, sia anche ragionevolmente breve (Chiavario, Diritto processuale penale – profilo istituzionale, Torino, 2012, 2 e ss.).

Tale scelta è espressione, inoltre, della costante attenzione riservata allo svolgimento dell'iter processuale quale “componente essenziale di un nucleo più ampio di regole” (Angioi-Raimondi, La ragionevole durata del processo in Europa. Genesi, effetti e sviluppi della Legge Pinto, Napoli, 2011) volte a tutelare l'individuo da un uso arbitrario del potere da parte degli organi dello Stato.

Ne deriva che la garanzia positivizzata nella CEDU costituisce lo “standard minimo e adeguato di tutela della persona in rapporto all'esercizio della giurisdizione” (Sanna, La durata ragionevole dei processi nel dialogo tra giudici italiani ed europei, Milano, 2008).

Tuttavia, i suoi contorni e le sue sfaccettature sono stati progressivamente delineati dalla giurisprudenza autorevole della Corte europea dei diritti dell'uomo, le cui decisioni se da un lato sono state finalizzate a risolvere la controversia concreta invocata dalle parti, dall'altro hanno contributo a definirne e chiarirne l'ambito applicativo, l'oggetto e la portata.

Parallelamente, la ragionevolezza dei tempi processuali ha rivestito un indiscusso valore anche nell'ambito dell'Unione europea, contribuendo alla realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia che l'Unione “offre ai suoi cittadini” ai sensi dell'art. 3 del Trattato sull'Unione europea (TUE) e venendo recepita all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE nel Titolo VI dedicato alla “Giustizia” (Proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, è oggi giuridicamente vincolante a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona ex art. 6 TUE. Le disposizioni della Carta si applicano anche alle istituzioni e agli organi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri. Nello specifico, la stessa enuclea la ragionevole durata quale principio cardine del giusto processo a garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva).

Le modalità redazionali, con le quali il diritto in esame è stato codificato nell'ambito europeo, riassumono la sua evoluzione giurisprudenziale.

In tal senso, l'ordinamento UE, sebbene goda di una sua autonomia funzionale ed organica, si presenta in stretta connessione con la CEDU (Bartole-Conforti-Raimondi, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001; Falzea, Nel cinquantenario della convenzione europea sui diritti dell'uomo, in Rivista di diritto civile, 2000, 695 e ss.; Guazzarotti, La CEDU e l'ordinamento nazionale, in Quaderni costituzionali, 2006, 491 e ss.) tanto che “i diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali” (ex art. 6 Trattato sull'Unione europea).

Sul piano nazionale, invece, nonostante il recepimento della CEDU (intervenuto con il deposito degli strumenti della ratifica in forza della legge 4 agosto 1955, n. 148) abbia generato non poche perplessità con riguardo alla sua posizione rispetto alla gerarchia delle fonti e alla sua applicabilità nell'ordinamento interno (fino all'intervento risolutore del legislatore, avvenuto con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 che ha novellato l'art. 117 della Costituzione), il principio di ragionevole durata del processo trova fondamento nell'art. 111, secondo comma, della Costituzione, così come riformato dalla Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (l'inserimento in Costituzione del principio del “giusto processo” risponde, come sottolineato ampiamente dalla dottrina, all'esigenza di introdurre nell'ordinamento interno un principio di civiltà giuridica, già presente in altre costituzioni dell'area europea. In tal senso, Papa, Brevi considerazioni sulla tutela del diritto alla ragionevole durata del processo tra giudici nazionali e Corte europea dei diritti dell'uomo, in Bilancia-De Marco, La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004).

Infatti, il precetto costituzionale, dopo aver affermato il necessario svolgimento del contenzioso giurisdizionale nel rispetto del principio del contradditorio tra le parti, innanzi un giudice terzo e imparziale, demanda alla legge il compito di “assicura(rne) la ragionevole durata”.

Prima facie, si comprende immediatamente come la ragionevolezza dei tempi processuali rivesta un ruolo indispensabile per l'effettiva attuazione delle altre garanzie connesse al giusto processo (a titolo esemplificativo la garanzia del contraddittorio tra le parti in condizione di parità), le quali risulterebbero, inevitabilmente, affievolite qualora venisse a mancare la necessaria attenzione del legislatore ad una giustizia celere (D'aiuto, Il principio della «ragionevole durata» del processo penale, Napoli, 2007).

Tuttavia, la previsione costituzionale non riesce a frenare la dilatazione dei tempi processuali avanti agli organi giudiziari italiani, la quale determina, contestualmente, un aumento esponenziale dei ricorsi alla Corte di Strasburgo contro il nostro Paese al fine di richiedere il giusto indennizzo per l'irragionevole durata dei giudizi.

Pertanto, l'“intasamentodell'organismo europeo (tale termine è stato usato dal relatore Volimi nella seduta del Senato del 28 settembre 2000), che arriva ad impegnare più della metà delle proprie risorse per sanzionare l'Italia a causa delle violazioni del délai raisonnable (nel dettaglio, ad esempio, significa che nel 2000, a fronte di un totale di 695 sentenze emesse nei confronti di tutti gli Stati per violazione della durata ragionevole, contro l'Italia ne sono state pronunciate ben 378), rende indispensabile l'introduzione di un rimedio interno, volto a fronteggiare le eventuali disapplicazioni della disposizione convenzionale.

Viene dunque varata, al fine di deflazionare il contenzioso dinanzi alla Corte europea e garantire il diritto al risarcimento del danno per l'eccesiva durata del processo, la Legge 24 marzo 2001, n. 89Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 c.p.c.”, denominata “Legge Pinto” dal nome del senatore primo firmatario del relativo progetto (la Legge c.d. Pinto rappresenta, dunque, la risposta di diritto interno alle pressanti sollecitazioni provenienti da Strasburgo, nonché strumento diretto a concretizzare, a livello nazionale, i principi convenzionali del giusto processo, che, per effetto dell'attuale formulazione del novellato art. 111 Cost., rivestono oggi rango costituzionale).

Si introduce, così, un procedimento camerale presso la Corte di appello, con la previsione del brevissimo termine di quattro mesi per la pronuncia del decreto sull'istanza di equa riparazione.

Si tratta di una vera e propria via di ricorso interna da intraprendere, in base al combinato disposto degli artt. 13 e 35 CEDU, prima di mettere in moto i meccanismi di tutela internazionale che hanno una funzione meramente sussidiaria ( Gli Stati contraenti, come previsto dall'art. 13 CEDU, devono attuare strumenti di protezione effettiva dei diritti, riconosciuti dalla CEDU, innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte alle giurisdizioni nazionali senza necessità per i cittadini di adire la Corte EDU per la loro tutela).

Tuttavia, sebbene nella sua originaria formulazione la Legge n. 89/2001 fosse diretta ad influire direttamente sulla durata del processo, in una logica non di mera riparazione e sanzione, ma di vera e propria correzione del sistema, nella sua versione definitiva il provvedimento si configura quale strumento esclusivamente riparatorio, non idoneo ad agire sulle cause del problema.

Procedimento di equa riparazione e processo tributario

Come in precedenza accennato, con la Legge c.d. Pinto il legislatore riconosce a chiunque abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6 della Convenzione, il “diritto ad una equa riparazione” (art. 2, co. 1).

In tale contesto normativo, è stato sollevato il problema dell'applicabilità o meno del principio della ragionevole durata del processo e, dunque, del procedimento di equa riparazione alla materia tributaria.

Rinviando expressis verbis la legge nazionale alla disposizione convenzionale, risulta imprescindibile fare rimando alle decisioni della Corte di Strasburgo, che hanno giocato un ruolo di fondamentale importanza rispetto all'interpretazione e all'applicazione della Legge n. 89/2001 da parte dei giudici italiani (in tal senso, è innegabile che le posizioni, talvolta discordanti, assunte dalla nostra giurisprudenza di merito e di legittimità rispetto a quelle dei giudici di Strasburgo, abbiano generato numerose condanne dell'Italia in sede europea).

La posizione della Corte di Strasburgo sull'equa riparazione in materia fiscale

La Corte europea dei diritti dell'uomo, facendo leva sul tenore letterale dell'art. 6 CEDU e richiamando esplicitamente i “diritti e doveri di carattere civile”, ha escluso dalle controversie civili il contenzioso tributario, il quale, malgrado gli effetti patrimoniali prodotti nei confronti dei contribuenti, sottende ad un rapporto di natura pubblica tra cittadino e Amministrazione (CEDU, 9 dicembre 1994, Schouten e meldroun c. Paesi bassi; Corte europea dei diritti dell'uomo, 23 luglio 2002, Janosevic c. Svezia).

Nello specifico, la Corte di Strasburgo, nella nota sentenza Ferrazzini c. Italia (CEDU, 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia), dopo aver premesso che la nozione di controversia in materia civile e in materia penale (in relazione e nei limiti delle quali il diritto alla ragionevole durata del processo è tutelato dall'art. 6, § 1, CEDU) va determinata “in modo autonomo” da essa stessa e non con riferimento al diritto interno dello Stato convenuto (il principio della “autonomia” di questa nozione, ai sensi dell'art. 6, § 1, CEDU si rinviene nelle sentenze della CEDU: 28 giugno 1978, Konig c. Repubblica federale di Germania serie A n. 27. pp. 29-30; 8 luglio 1987, Baraona e. Portogallo, serie A n. 122, pp. 17-18, par. 42; 21 ottobre 1997 Pierre Bloch c. Francia. Infatti, qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l'oggetto e la portata della Convenzione.), ha escluso dalla sfera di applicazione della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni, che, pur di natura patrimoniale, “risultino da una legislazione fiscale” ed attengano, invece che a diritti di natura civile, a doveri civici “imposti in una società democratica” (CEDU, 9 dicembre 1994, Schouten e Meldroun c. Paesi Bassi).

Ne deriva che la natura patrimoniale delle obbligazioni non rende sempre applicabile il richiamato art. 6 della Convenzione in quanto possono esistere delle obbligazioni “patrimoniali” nei confronti dello Stato o dei suoi organi che devono essere considerate come rientranti esclusivamente nell'ambito del diritto pubblico e di conseguenza non comprese nella nozione di “diritti e doveri di carattere civile”.

Nel conferire attualità alla propria posizione, la Corte di Strasburgo, nonostante abbia riconosciuto i cambiamenti intervenuti nella società e le tutele concesse agli individui nel loro rapporto con lo Stato nel corso dei cinquanta anni trascorsi dall'adozione della Convenzione, ha ribadito fermamente che “le evoluzioni verificatesi nelle società democratiche” non sono state relative alla natura essenziale dell'obbligo per gli individui o le imprese di pagare le imposte, che è rimasto inalterato (Corte europea dei diritti dell'uomo, 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia).

La Corte, pertanto, ha ritenuto che la materia fiscale faccia ancora parte del “nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica”, risultando assolutamente predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività (lo stesso sostanziale principio è stato ribadito anche nella sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, 23 giugno 2002, Vatsberga Taxi Aktiebolag).

Tale rigido orientamento è stato, in parte, attenuato nelle decisioni assunte negli anni successivi, nelle quali è stato riconosciuto che il processo tributario deve rispettare i precetti di cui all'art. 6 CEDU e, nella specie, l'obbligo della pubblica udienza (CEDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia), nel caso in cui abbia ad oggetto una sanzione, che seppur non penale, non assolve ad una funzione compensativa del danno prodotto, bensì assume una valenza punitiva, oltre che deterrente.

In tal modo, è stato consentito all'interprete di equiparare il contenzioso tributario a quello penale ogniqualvolta venga irrogata una sanzione che, per natura e gravità, appaia assimilabile ad una penale.

Pertanto, la materia fiscale, formalmente estromessa dall'ambito delle “controversie sui diritti e doveri di carattere civile”, ne ha fatto sostanzialmente il suo ingresso dalla sfera dell'“accusa penale”.

Segue: l'orientamento della nostra giurisprudenza di merito

Per quanto finora argomentato, tale indirizzo della Corte di Strasburgo non è stato univocamente recepito dai giudici nazionali, i quali hanno assunto, talora, posizioni difformi.

Infatti, alcune magistrature di merito, alludendo alla precedente formulazione dell'art. 3, co.3, della Legge n. 89/2001, la quale menzionava espressamente i “procedimenti del giudice tributario” nella parte in cui prevedeva la proposizione del ricorso al “Ministro delle Finanze”, hanno ritenuto che“il legislatore avesse inteso prevedere una tutela più ampia di quella assicurata dal paragrafo 6 della convenzione ratificata dalla L. n. 848/55” (Corte d'appello di Perugia, sez. civ, 30 ottobre 2001, n. 331) e si sono espresse a favore dell'applicazione dell'equa riparazione, per violazione del principio di ragionevole durata del processo, anche al contenzioso tributario (Corte d'appello di Perugia, sez. civ., 30 ottobre 2001, n. 331; Corte d'appello di Roma, sez. civ., 8 luglio 2002).

Tali Corti, non condividendo l'assunto della vincolatività dei precedenti giurisprudenziali provenienti da Strasburgo, hanno riconosciuto alla legge c.d. Pinto il merito di aver ampliato le previsioni contenute nella Convenzione, estendendo il principio della ragionevole durata del processo alla materia fiscale.

Tale posizione, oltre a basarsi sul richiamato art. 3 della Legge n. 89/2001, trova il proprio fondamento in ragioni di opportunità ed equità, non rinvenendo alcuna valida ragione per escludere l'applicabilità del procedimento di equa riparazione al processo tributario.

A tale indirizzo giurisprudenziale va riconosciuto il merito, come osservato da autorevole dottrina, di aver attribuito alla Corte di Strasburgo il solo compito di garantire l'adozione, da parte degli ordinamenti nazionali, degli strumenti necessari ad assicurare un giusto processo, di cui è caratteristica fondamentale una durata ragionevole, conferendo ad ogni Stato aderente alla Convenzione la libertà di disciplinare la materia nel modo ritenuto più consono alla situazione nazionale e agli scopi da perseguire e di non essere vincolato dalla giurisprudenza della Corte EDU, peraltro suscettibile di variazione nel tempo (Muccari, “Solo apparente il mutamento di indirizzo della Suprema Corte sulla irragionevole durata del processo tributario” in Rivista di giurisprudenza tributaria, 2005).

E a ben vedere, in quegli anni, la portata di tali conclusioni sembrò aver colto nel segno, se non altro per aver innescato l'immediata reazione del Governo, che, inquieto per gli effetti in termini economici derivanti dalla possibile estensione del procedimento di equa riparazione al contenzioso tributario, provvide a modificare immediatamente l'art. 3 della Legge n. 89/2001 con l'art. 2 del D.L. n. 201/2002, il quale escludeva in maniera espressa la possibilità di presentare ricorso per i procedimenti di competenza del giudice tributario (ad eccezione dei procedimenti rilevanti penalmente, per cui veniva fatta salva la possibilità di ricorrere al Ministro dell'economia e delle finanze. Tuttavia, in sede di conversione del predetto decreto, avvenuta con Legge 14 novembre 2002, n. 259, è stata eliminata la parte riguardante le modifiche da apportare alla Legge c.d. Pinto, che è rimasta in vigore nella sua versione originaria).

All'interno di tale panorama, tuttavia, non è possibile non evidenziare che non sono mancati orientamenti contrari all'applicabilità della Legge c.d. Pinto al processo tributario, espressi dalle Corti d'appello di Brescia (Corti d'appello di Brescia, sez. civ., 16 febbraio 2002, n. 1958), Catanzaro (Corti d'appello di Catanzaro, decreto n. 7023/2002), Bologna (), nonché dalla stessa Corte d'appello perugina, che ha rigettato, per estraneità dei crediti tributari all'art. 6 della CEDU, il ricorso presentato da un contribuente per la condanna del Ministero dell'Economia e delle Finanze al pagamento di un'equa riparazione per irragionevole durata del procedimento (il ricorso, avviato il 24 settembre 1993 dinnanzi alla Commissione tributaria di I grado di Roma, è stato definito in Cassazione con sentenza n. 4513/2000).

Segue: la posizione della nostra giurisprudenza di legittimità

La risposta della nostra Corte di Cassazione non si è lasciata attendere ed è risultato abbastanza chiaro l'orientamento dominante (Cass. civ., 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339 e 1340; Cass. civ., 17 giugno 2004, n. 11350).

Ritenendo vincolanti per il Giudice nazionale le norme contenute nella CEDU, nonché l'interpretazione ad esse fornite dalla Corte di Strasburgo, la Suprema Corte ha attribuito alla Legge c.d. Pinto una natura meramente processuale di regolamentazione delle procedure e ne ha negato l'applicabilità ai processi tributari.

Conseguentemente, la norma nazionale, facendo propri i limiti di tutela imposti dalla norma convenzionale, non può essere invocata per garantire l'equa riparazione all'eccesiva durata di quei processi, aventi ad oggetto diritti non protetti dalla CEDU (in tal senso Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Milano, 2002; Didone, Il danno da irragionevole durata del processo, Milano, 2004; Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, 2002).

Nello specifico, la Corte di Cassazione (Cass. civ., 17 giugno 2004, n. 11350) ha espressamente escluso per i processi tributari l'applicazione della disciplina di equa riparazione, per mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, § 1, CEDU, in virtù del:

  1. collegamento genetico (reiteratamente sottolineato pure nei lavori preparatori) e funzionale (testualmente ed univocamente postulato dall'art. 2) della Legge c.d. Pinto con la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo;
  2. valore conformativo, in termini di diritto vivente (o del valore di cosa interpretata), rivestito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo con riguardo alla definizione e alla delimitazione della portata applicativa della fattispecie disciplinata dalla norma europea (art. 6, § 1), alla cui violazione, appunto, il nostro legislatore ha inteso porre rimedio con il meccanismo riparatorio in discussione;
  3. chiare indicazioni emergenti dalla giurisprudenza della Corte EDU nel senso della non estensibilità del campo di applicazione dell'art. 6, § 1, CEDU alle controversie tra il cittadino ed il Fisco, relative a provvedimenti impositivi.

Tale posizione è stata ribadita in pronunce successive (Cass. civ., 27 agosto 2004, n. 17139), in cui è stata riconosciuta una “perfetta simmetria di contenuto”della norma nazionale rispetto a quella comunitaria,nel senso e per la ragione che il meccanismo riparatorio, introdotto dal legislatore italiano del 2001, mira ad assicurare al ricorrente “una tutela analoga”a quella che gli spetterebbe nel quadro della istanza internazionale (risultano chiaramente esplicitati nei lavori preparatori; vds. relazione alla Legge c.d. Pinto, in atti Senato n. 3813 del 16 febbraio 1999).

Alla luce di tale assunto e tenuto conto che la fattispecie costitutiva del diritto, attribuito dalla Legge n. 89/2001, consiste in una determinata violazione della CEDU, ben si comprende come sia compito del giudice di Strasburgo individuare tutti gli elementi che la contraddistinguono; ne deriva che l'oggetto di tale tutela finisce per essere delineato dalla autorevole giurisprudenza europea, la quale, a sua volta, si impone, ai fini dell'applicazione della legge c.d. Pinto, ai giudici italiani (Cass. civ., 26 gennaio 2004, n. 1338).

Non a caso il riferimento diretto all'art. 6, § 1, CEDU (quale all'uopo inserito nel testo dell'art. 2 della legge n. 89/2001) conferma la matrice convenzionale della norma nazionale e identifica “il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo per relationem” (Nota a Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2005 n. 20675), oltre a consentire di trasferire sul piano interno “i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale”.

Invero, questa simmetria tra i due piani (interno ed internazionale) di tutela dei diritti dell'uomo, la quale appare coessenziale all'attuazione del principio di sussidiarietà, si realizza adeguando la fattispecie violativa, cui è ricollegata l'equa riparazione ex lege 89/2001, a quella prevista dalla disposizione convenzionale di riferimento, come in concreto risulta delineata dall'esegesi della Corte di Strasburgo (Viola, I danni cagionati dallo Stato, dalla pubblica amministrazione e dal fisco, 2008).

Tale interpretazione della legge c.d. Pinto, in correlazione e in piena sintonia con l'art. 6, par. 1, della Convenzione, non autorizza nemmeno, a parere della Suprema Corte, a dubitare di un suo possibile contrasto con il novellato art. 111 della Costituzione, il quale, nel tutelare la ragionevole durata come elemento del giusto processo, fa riferimento ad ogni tipologia di processo, non escluso quello tributario.

Una siffatta questione di legittimità costituzionale sarebbe infatti, per definizione, inammissibile con riguardo ai limiti istituzionali della funzione sindacatoria della Corte Costituzionale in rapporto alla funzione legislativa, non essendo richiedibile a quella Corte un intervento volto ad elevare il tasso di costituzionalità di norme che siano, come si prospetta per quelle in esame, non integralmente attuative o comunque non pienamente in sintonia con il precetto costituzionale (in tal caso, resta in premessa escluso alcun vulnus alla Costituzione e la possibile correzione migliorativa della norma, in direzione di una integrale o più completa realizzazione del valore costituzionale, rimane di esclusiva competenza del legislatore).

D'altro canto, tale conclusione, per i giudici di Piazza Cavour, non è contraddetta dalla previsione dell'art. 3 della Legge n. 89/2001, che include, tra i soggetti legittimati passivi rispetto all'azione di riparazione, anche il Ministero dell'Economia e delle Finanze quando si tratti di procedimenti tributari.

Infatti, tale disposizione, che, per la sua natura di norma processuale, attiene alle forme di esercizio del diritto, non potrebbe modificare e ampliare i contenuti di quella tutela definita e circoscritta dalla normativa di portata sostanziale, di cui al precedente art. 2, co. 1, Legge n. 89/2001, ma si inserirebbe coerentemente con il complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione, nel senso della sua riferibilità a quelle controversie di competenza del giudice tributario, che siano relative:

  1. alla materia civile, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo, ma solo aspetti a questa consequenziali, come nel caso, ad esempio, del giudizio di ottemperanza ad un giudicato del giudice tributario ex art. 70 D. Lgs. 546/92 o nel giudizio, anch'esso di competenza del Giudice tributario , vertente sull'individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza;
  2. alla materia penale, intesa quest'ultima - secondo la “nozione autonoma”, elaborata anche per tal profilo dalla giurisprudenza della CEDU, di cui il giudice nazionale deve tenere conto - come comprensiva anche delle controversie relative all'applicazione delle sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro “gravità”, assimilabili sul piano della afflittività ad una sanction penale (Cass. civ., 17 giugno 2004, n. 11350).

Viene, pertanto, prevista una possibilità residuale di applicazione della disciplina di equa riparazione al contenzioso tributario, limitata ai casi appena citati (Viene, di converso, escluso dall'ambito applicativo della Legge c.d. Pinto una controversia tributaria avente ad oggetto l'opposizione del contribuente al recupero dell'I.V.A. da parte dell'Amministrazione finanziaria. In tal senso, vds. Cass. civ., 25 ottobre 2005, n. 20675).

La Suprema Corte: una timida apertura

L'indirizzo espresso dai giudici di legittimità nel 2004 è stato sostanzialmente riconfermato anche in successive pronunce (Cass. civ., 15 luglio 2008, n. 19367; Cass. civ., 7 marzo 2007, n. 5275; Cass. civ., 24 gennaio 2007, n. 1540), nelle quali, pur ritenendo inapplicabile al contenzioso tributario il procedimento di equa riparazione di cui alla Legge c.d. Pinto, è stato comunque riconosciuto che il principio costituzionale di ragionevole durata, racchiuso nell'art. 111 Cost., si rivolge non solo al giudice e alle parti, ma anche al legislatore ordinario, il quale è tenuto ad adottare adeguati strumenti normativi per assicurare che il processo (compreso quello tributario) si svolga in tempi ragionevoli (Cass. civ., 24 gennaio 2007, n. 1540).

Tuttavia, nel corso degli anni la Corte di Cassazione ha ulteriormente contribuito a delineare i contorni della questione, coprendo quelle zone che erano rimaste in ombra.

Con riguardo, infatti, alle limitazioni applicative della Legge c.d. Pinto alla materia fiscale, la Suprema Corte ha riconosciuto che non tutte le controversie tra cittadino e Fisco, portate all'attenzione del giudice tributario, debbono rimanere estranee alla possibile applicazione della tutela di cui alla Legge n. 89/2001, in quanto potrebbero rientrarvi le richieste di rimborso di somme, rifluenti nell'area delle obbligazioni privatistiche (Cass. civ., 26 luglio 2012, n. 13322. Tra le obbligazioni privatistiche non sono comunque ricomprese le controversie riguardanti il rimborso di imposte che il privato ritenga indebitamente trattenute, poiché il relativo diritto non è accertato secondo i principi di diritto civile sulla ripetizione di indebito, ma in base all'esistenza o meno del potere impositivo. Tale posizione era già stata affrontata: vds. sul punto Cass. civ., 1 febbraio 2011, n. 2371; Cass., 11 giugno 2007, n. 13657; Cass., 4 novembre 2007, n. 21403), o anche le pretese tributarie dell'Amministrazione finanziaria qualora connesse a sanzioni suscettibili di rientrare nella seconda parte del paragrafo 1 dell'art. 6 della Convenzione (Cass. civ., 24 settembre 2012, n. 16212).

In tal senso, i giudici di Piazza Cavour hanno nuovamente ribadito che sono ricomprese non solo le cause riguardanti sanzioni tributarie assimilabili a quelle penali per il loro carattere afflittivo (Cass. civ., 13 gennaio 2014, n. 510) (tale da farle apparire alternative a una sanzione penale ovvero a una sanzione che, in caso di mancato adempimento, sia commutabile in una misura detentiva), ma anche quelle, che pur essendo riservate alla giurisdizione tributaria, sono riferibili alla “materia civile”, in quanto relative a pretese del contribuente non involgenti la determinazione del tributo ma solo aspetti consequenziali (A tale conclusione era già giunta la Cass. civ., 15 luglio 2008, n. 19367).

Ai fini dell'assimilazione della sanzione tributaria a quella penale, indispensabile per ascrivere il giudizio tributario alla “materia penale” e attivare la tutela ex art. 2 della L. n. 89/2001, la Corte di Cassazione ha specificato (Cass. civ., 8 settembre 2014, n. 18885) che non è sufficiente il carattere afflittivo della sanzione occorrendo un preciso riferimento normativo, alla luce di quanto affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (CGUE, 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson) e in linea con il principio costituzionale di stretta legalità nell'individuazione degli illeciti e delle sanzioni penali ex art. 25 Cost., recepito anche in sede di legislazione ordinaria all'art. 1 c.p. (Cass. civ., 13 gennaio 2014, n. 510).

Ai fini della valutazione della natura penale delle sanzioni tributarie, sono rilevanti tre criteri, dati dalla:

  1. qualificazione giuridica dell'illecito nel diritto nazionale;
  2. natura stessa dell'illecito;
  3. natura nonché il grado di severità della sanzione in cui l'interessato rischia di incorrere.

Ne deriva che appare assai più conferente ancorare l'assimilabilità di una sanzione amministrativa o tributaria ad una penale non esclusivamente in base al requisito della sua afflittività, il quale potrebbe presentare indubbi caratteri di relatività (Con tali conclusioni, la Suprema Corte ha cassato con rinvio il decreto n. 754/11 della Corte di Appello di Lecce, con cui era stato riconosciuto, in favore del contribuente, un equo indennizzo di 20 mila euro per la durata irragionevole di un giudizio tributario, iniziato nel 1985 e conclusosi in Commissione tributaria centrale nel 2009, ritenendo fondate le doglianze lamentate dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, in tema di violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della L. n. 89/2001 e dell'art. 6 , paragrafo 1, CEDU, nonché di vizio di motivazione del predetto responso).

Sebbene le conclusioni a cui è giunta la Suprema Corte abbiano mostrato una timida apertura verso l'applicazione estensiva della disciplina dell'equa riparazione al contenzioso tributario, i giudici di legittimità sono successivamente ritornati sull'argomento e, di fronte alle non univoche posizioni assunte dalla nostre Corti d'appello negli anni (in tali decisioni è stato accolto il ricorso presentato per irragionevole durata del processo tributario e conseguentemente condannato il Ministero dell'Economia e delle Finanze al pagamento di un indennizzo a titolo di risarcimento), ha ribadito, nelle note sentenze c.d. gemelle (Cass. civ., 3 marzo 2015, n. 4282; Cass. civ., 4 marzo 2015, n. 4435), che la disciplina dell'equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, § 1, CEDU, quale introdotta dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e ss., non è applicabile ai giudizi in materia tributaria involgenti la potestà impositiva dello Stato, data l'estraneità e l'irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile.

Specificatamente, nel primo caso, la Suprema Corte ha ritenuto che la controversia, riguardante il diritto del ricorrente all'ottenimento del rimborso di una ritenuta fiscale, ritenuta indebitamente operata sull'indennità di buonuscita, andasse sottratta alla materia civile di cui all'art. 6 CEDU, e dunque all'equa riparazione, in quanto concernente “un rapporto obbligatorio interamente disciplinato da norme di diritto pubblico” (Cass. civ., 3 marzo 2015, n. 4282).

Nel secondo caso, la Suprema Corte (Cass. civ., 4 marzo 2015, n. 4435), dopo aver cassato il decreto impugnato, ha deciso nel merito e ha accolto il ricorso del Ministero dell'Economia e delle Finanze, dichiarando inammissibile la domanda di equa riparazione per irragionevole durata che era stata promossa dagli eredi per un giudizio, di durata ultratrentennale, concernente l'impugnazione della sanzione amministrativa della revoca ex lege n. 765/1967 dei benefici fiscali per via di abusi edilizi nella costruzione di un edificio.

Ne deriva, a parere della stessa Corte, che la revoca delle agevolazioni fiscali, per il venir meno delle relative condizioni (Cass. civ., 4 marzo 2015, n. 4435. Tale revoca sanziona il contribuente attraverso il recupero della dimensione originaria dell'obbligo tributario, l'accertamento del quale costituisce un giudizio in cui viene in rilievo la potestà impositiva dello Stato), esula sia da un ambito sostanzialmente penale, “essendo da ricusare la semplice equazione, quoad effectum, tra sanzione e pena”, che da quello civilistico, poiché concerne la legittimità del provvedimento di revoca e, dunque, il ripristino dell'obbligazione tributaria, e non già i profili civilistici che risultano essere puramente consequenziali.

Applicabilità dell'equa riparazione al processo tributario: nuove alternative all'orizzonte?

Di fronte all'orientamento della nostra giurisprudenza di legittimità, seppur consolidato, è innegabile che sorgano molteplici perplessità.

Sicuramente, la conclusione a cui è giunta la Suprema Corte e sopradescritta priva di adeguata tutela i contribuenti che siano coinvolti in processi tributari irragionevolmente lunghi.

Tale carenza di tutela rende palesemente evidente la disparità di trattamento tra quest'ultimi e coloro che rientrano in quelle posizione giuridiche a cui la legge c.d. Pinto offre idonea garanzia, mal conciliandosi con il nostro impianto costituzionale e con il principio di uguaglianza in esso racchiuso agli artt. 3 e 24 (a titolo meramente esemplificativo, nel caso di controversie aventi ad oggetto casi di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., la loro eccessiva lunghezza è tutelabile attualmente dalla Legge n. 89/2001 se le stesse appartengono alla giurisdizione del giudice civile e non se attengono al contenzioso tributario. Tale circostanza vale anche nell'ipotesi in cui il rapporto tributario abbia finito per costituire soltanto l'“occasione” della pretesa tributaria senza investire l'esercizio della potestà impositiva dello Stato, come nel caso di istanze di rimborso oggetto di contenzioso per effetto di errori, duplicazioni di pagamenti od altro. In tal senso, vds. Fondazione Luca Pacioli, Ragionevole durata del processo ed equa riparazione nel contenzioso tributario, Roma, 2005, 8 e ss.).

Appare, infatti, ovvio che nel caso di contenziosi tributari che si protraggano nel tempo, oltre una ragionevole durata, si configurino, a carico dell'interessato, situazioni di danno del tutto simili a quelle riguardanti diritti soggettivi o interessi legittimi di competenza della giurisdizione civile o amministrativa.

L'irragionevole durata del processo tributario, a cui oggi viene negata un'idonea garanzia e riparazione, costituisce, dunque, un aspetto da non sottovalutare.

Infatti, risultano fortemente pregiudizievoli i costi sostenuti da un contribuente per garanzie o interessi passivi connessi al credito, resosi necessario per liquidare “in esecuzione provvisoria” accertamenti o sentenze che vengano, poi, annullati (analogamente, la ritardata erogazione o restituzione del rimborso per eccedenza di imposta, provocata dal relativo contenzioso, assurge a danno patrimoniale per la parte in causa).

Allo stesso tempo, anche a prescindere dai profili di danno non patrimoniale, iniziative finanziarie, economiche o societarie, rientranti nelle strategie imprenditoriali di un'impresa, potrebbero subire una battuta di arresto o, comunque, un duro contraccolpo se scoraggiate da voci di debito erariale, poi rivelatosi inesistente, inserite in contabilità.

Di converso, la possibilità di far rientrare, nella sfera di applicazione di cui alla CEDU, le sanzioni tributarie, anche di natura non penale, ha suscitato non pochi dubbi.

Infatti, nei casi in cui il ricorso del contribuente investa sia la pretesa tributaria che la correlativa sanzione, dilatare il carattere deterrente e punitivo, che contraddistingue il meccanismo sanzionatorio tributario ai fini di una sua riconducibilità all'art. 6, § 1, CEDU, porterebbe o a ritenere inoperante il “termine ragionevole” rispetto ad entrambe le contestazioni ovvero di considerarlo attivo nei confronti di tutt'e due (Dorigo, Il diritto alla ragionevole durata del giudizio tributario, in Rassegna tributaria, 2003, 50).

In conclusione

Alla luce delle considerazioni finora espresse, risulta fortemente auspicabile un'inversione di rotta da parte del nostro Legislatore, con conseguente estensione del procedimento di equa riparazione per irragionevole durata del processo anche al contenzioso tributario.

Estendere l'ambito applicativo della Legge c.d. Pinto al procedimento tributario andrebbe sicuramente a garantire una concreta attuazione dell'art. 111, comma 2, della Costituzione (Tale aspetto era stato oggetto di osservazione da parte della stessa Corte di Cassazione, la quale, nella sentenza n. 11350 del 2004, aveva riconosciuto formalmente l'incompletezza dell'ambito di applicazione della Legge c.d. Pinto rispetto al precetto costituzionale di cui all'art. 111 Cost. In tal senso, la spesso invocata possibilità di disporre la sospensione dell'atto impugnato, di cui all'art. 47 del D.Lgs. n. 546/1992 in tema di processo tributario, non sarebbe sufficiente ad assicurare l'attuazione del principio del giusto processo di rango costituzionale), il quale, attribuendo alla legge il compito di assicurarne la ragionevole durata, non ammette esclusioni e/o eccezioni di sorta che ne possano tollerare la violazione.

Giustificare una tale discrasia alludendo ad un'asserita coerenza con la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo non appare sufficiente di fronte agli interessi in gioco.

Neanche conformare la norma nazionale a quella comunitaria di riferimento, come in concreto esemplificata dall'interpretazione della Corte di Strasburgo, andando a rimarcare l'imprescindibile attuazione del principio di sussidiarietà tra l'impianto interno e internazionale, rende giustificabile tale situazione di fatto.

Infatti, pur potendo condividere l'orientamento della nostra giurisprudenza di legittimità nella ricostruzione dell'intervento legislativo, avvenuto con la Legge n. 89/2001, e nel corretto inquadramento del rapporto esistente tra quest'ultima e la norma convenzionale, nonché nel richiamo, in tema di art. 6 e materia finanziaria, alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, al cui dictum il giudice nazionale è vincolato, non si può non celare che il principio costituzionale, racchiuso nell'art. 111, non ha limiti di oggetto.

In tale ottica, il legislatore ordinario sembra, come è stato osservato dalla dottrina (Corso, Nessuna riparazione per l'eccesiva durata del processo tributario, Corriere tributario n. 34/2004, 2690 e ss.), doppiamente inadempiente non solo per non aver agito in maniera tale da diminuire i tempi del giudizio in materia tributaria, ma anche per non aver previsto l'aliud pro alio, ovvero una “equa riparazione” nei casi di eccessiva durata.

E, seppure si possano rilevare le ragioni di tale inerzia nel tentativo frettoloso di individuare un rimedio alla continuità di condanne in sede europea, la soluzione riduttiva e quasi emergenziale, dinanzi ad un problema generale che avrebbe richiesto una doverosa risposta, non può non essere stigmatizzata.

La stessa non trova neanche una giustificazione alludendo al fatto che rientrasse nelle intenzioni del Legislatore evitare oneri finanziari eccessivi, sebbene il contenimento dei costi appaia una preoccupazione costante che viene in maniera tangibile osservata nella previsione, di cui all'art. 3, co. 2-bis, del D.L. n. 40/2010, della definizione delle liti “ultradecennali” pendenti in Cassazione e in Commissione tributaria centrale (con cui estinguere le controversie, iscritte a ruolo nel primo grado da oltre dieci anni ed “assistite” dalla soccombenza della Amministrazione finanziaria nei precedenti gradi di giudizio, mediante il pagamento di un importo ridotto, calcolato sul valore della causa e contestuale rinuncia ad ogni pretesa di equa riparazione ai sensi della c.d. Legge Pinto); l'istituto de quo risponde infatti all'esigenza di ridurre i tempi dei processi tributari nei termini della loro ragionevole durata ai sensi della CEDU e dell'art. 111 Cost. (come esplicitamente evidenziato) e, al contempo, di limitare i costi delle attività giurisdizionali di smaltimento dell'arretrato (Genovese, Definizione delle liti ultradecennali pendenti in Cassazione e in Commissione tributaria centrale, Corriere tributario n. 32/2010, 2574 e ss.).

Di fronte al bradipismo del Legislatore sul versante della ragionevole durata (e conseguentemente dell'equa riparazione) dei processi tributari, che configura un evidente vulnus al principio dell'art. 111 della nostra Carta fondamentale, sarebbe auspicabile, a parere di chi scrive, cambiare la prospettiva con cui guardiamo al problema, riflettendo non tanto sulla “legittimità dei provvedimenti dell'Amministrazione finanziaria” (di per sé estranea al concetto di lite in materia civile), ma sul tempo che il processo impiega per appurare o escludere detta legittimità.

Infatti, pur riconoscendo che “la materia fiscale fa parte ancora del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica”, si osserva come tale assunto non ha nulla a che fare con la buona organizzazione e il buon funzionamento degli Uffici giudiziari che lo Stato ha il dovere di garantire alla collettività.

Pertanto, se ad oggi risulta ancora molto lontana la strada verso l'approvazione, nel nostro ordinamento, di una Legge Pinto-bis, con cui dirimere le lacune dell'attuale disciplina sull'equa riparazione, più percorribile appare l'instaurazione di un concreto dialogo con la Corte di Strasburgo.

Tale alternativa consentirebbe di giungere ad una più equilibrata e attenta lettura dell'art. 6, §1, della Convenzione al fine di ampliarne l'oggetto e la portata e, conseguentemente, estendere l'ambito applicativo della disciplina dell'equa riparazione, di cui alla Legge n. 89/2001, anche al processo tributario.

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