Il finalmente "leasing" tipizzato e la "parziale" imperatività delle norme sulla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore
13 Aprile 2018
Com'è noto, l'art. 1, commi da 136 a 140, della legge 4 agosto 2017, n. 124 (“Legge annuale per il mercato e la concorrenza”) ha dettato alcune nuove norme destinate, da un lato, a definire ormai “tipicamente”, in generale, la figura della locazione finanziaria, apprestando al contempo, dall'altro, una disciplina specifica e speciale, almeno parzialmente, per il caso di inadempimento dell'utilizzatore al pagamento dei canoni. In effetti, per quanto varie norme speciali abbiano in passato più volte suggerito l'idea che il leasing avesse superato la risalente atipicità che gli era stata tradizionalmente attribuita, quantomeno nei casi in cui il legislatore aveva provato ad abbozzarne una definizione, magari utilizzando la formula italianizzata di "locazione finanziaria"; tuttavia solo con il comma 136 della legge 124/2017 sembra essere stata conclusivamente formulata una sua definizione veramente di carattere generale e tipizzante, non più funzionalizzata ai limitati fini – fiscali, finanziari ecc. - che quelle norme avevano propiziato. Non che la nuova definizione tipizzante, però, si discosti granchè da quella usualmente accolta dalla giurisprudenza o dalla dottrina. Infatti per “locazione finanziaria” s'intende, ai sensi del citato comma 136, il contratto con il quale una Banca o un intermediario finanziario (iscritto nell'albo di cui all'art. 106 del T.U. di cui al D.Lgs. n. 385/1993) si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell'utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, mettendoglielo a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo, che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l'utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l'obbligo di restituirlo. In sostanza, la definizione suggella sia la natura trilaterale dell'operazione (essendo sottesa la necessaria presenza del terzo soggetto che vende o costruisce il bene da concedersi poi all'utilizzatore in locazione finanziaria), di talchè fuoriesce certamente dal tipo qualunque fattispecie in cui la stessa società concedente costruisca il bene stesso o ne abbia già l'autonoma disponibilità (casi in cui sarebbe in effetti arduo ravvisare la caratterizzante funzione “finanziaria” del contratto, che a sua volta giustifica l'accollo integrale dei rischi in capo all'utilizzatore e il permanere della proprietà del bene, con funzione di garanzia reale, in capo al concedente), sia la connaturata presenza dell'opzione finale d'acquisto: connotati ritenuti, appunto, sempre essenziali dagli interpreti ai fini della integrazione della fattispecie finanziaria del leasing. Del resto, proprio il variabile rapporto tra il prezzo previsto per l'opzione d'acquisto ed il valore residuo del bene alla fine del contratto è stato il maggiore fattore diacritico che ha indotto la S. Corte a consacrare, sin dal 1989 (e al riguardo mi sia consentito in generale il rinvio, anche ai fini blibliografici, al mio commento monografico dell'epoca, “Il leasing. La tipologia del contratto nel nuovo orientamento della Cassazione”, Milano,1990), l'esistenza di una duplice tipologia (socio-economica) di leasing, quella “pura” (o di “godimento”) e quella “impura” (o “traslativa”), quanto meno laddove risultasse consapevolmente programmata (o programmabile) sin dall'inizio la probabile sorte finale del rapporto contrattuale in funzione dell'entità, più o meno elevata, del suddetto prezzo in rapporto al valore residuo del bene (essendo tanto più probabile, se non addirittura economicamente inevitabile, l'esercizio dell'opzione per quanto maggiormente elevato fosse il valore residuo del bene rispetto alla modesta entità del prezzo d'acquisto finale).
Da tale distinzione socio-tipologica (già in qualche misura messa in crisi dall'introduzione di una disciplina ad hoc dello scioglimento del contratto pendente di locazione finanziaria prima con l'art. 72-quater l.fall. nei rapporti leasing-fallimento, e poi con l'art. 169-bis l.fall. nei rapporti leasing-concordato preventivo, disciplina speciale che infatti escludeva, per definizione, ogni interpretazione integrativa motivata da supposte lacune contrattuali) la S. Corte aveva fatto derivare l'applicabilità analogica al leasing traslativo, in caso di risoluzione/scioglimento (per inadempimento dell'utilizzatore), dell'art. 1526 c.c. dettato per il contratto di vendita con riserva della proprietà, stante la ritenuta affinità tra le due figure in ragione, per l'appunto, del supposto inevitabile esito traslativo finale che avrebbe caratterizzato entrambe, sebbene solo nel contratto di vendita con r.p. esso sia previsto, in modo legal-tipico, come automatico. Ora mi pare che, sebbene la legge n. 124/2017 confermi per l'utilizzatore la mera “facoltà” di esercitare il diritto di acquisto del bene al termine del rapporto ad un prezzo prestabilito (senza alcun riferimento a casi in cui tale facoltà nasconda una soluzione d'acquisto effettualmente assai probabile o addirittura inevitabile), ciò non faccia venir meno – almeno sul piano teorico - il senso della distinzione tipologica binaria prospettata dalla S. Corte, ben potendo continuare a programmarsi l'esito più o meno scontato dell'esercizio del diritto di opzione, a dispetto della sua formale facoltatività, in relazione alla già sopra ricordata variabile entità, più o meno elevata e programmata, del prezzo finale d'acquisto in rapporto al valore residuo del bene. Mi pare non dimeno che debba escludersi la possibilità di farne derivare – come finora o fino a poco fa ha ipotizzato la S. Corte - una differenza di disciplina sul piano della risoluzione, e ciò sia in generale, sia, in particolare, nel caso, più ricorrente, in cui l'inadempimento dell'utilizzatore riguardi il mancato pagamento dei canoni e questo rientri nei parametri indicati dalla nuova disciplina. Infatti la legge 124/2017 non solo regola unitariamente (solo) tale ipotesi di risoluzione, ma, soprattutto, lo fa con una norma di carattere palesemente (ancorchè solo parzialmente) imperativo, statuendo che costituisce grave inadempimento dell'utilizzatore, tale da giustificare la risoluzione civilistica (e solo questa, poichè il comma 140 dell'art. 1 dispone che restano ferme le previsioni di cui all'articolo 72-quater l.fall. in tema di scioglimento fallimentare del leasing ed inoltre che continua ad applicarsi, in caso di leasing di immobili da adibire ad abitazione principale, l'art. 1, commi 76, 77, 78, 79, 80 e 81, della L. 208/2015), il mancato pagamento, per i leasing immobiliari, di almeno sei canoni mensili o di due canoni trimestrali anche non consecutivi, o un importo equivalente, ovvero, per gli altri contratti di locazione finanziaria, di quattro canoni mensili anche non consecutivi, o un importo equivalente. E nel caso in cui il contratto appunto si risolva alla stregua di tale previsione (ipotesi però non necessaria ed inevitabile, poiché il concedente in leasing ben potrebbe ritenere opportuno limitarsi ad agire per l'adempimento anziché per la risoluzione), il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all'utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato (dedotte: una somma pari all'ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione; una somma pari al totale dei canoni a scadere, solo in linea capitale; una somma pari al prezzo pattuito per l'esercizio dell'opzione finale di acquisto; e il totale delle spese anticipate per il recupero del bene, per la stima e per la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita). Fermo restando, peraltro, nella residua misura che risulti insoddisfatta, il diritto di credito del concedente nei confronti dell'utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene sia inferiore all'ammontare dell'importo dovuto dall'utilizzatore. In altri termini, quando l'utilizzatore sia inadempiente al pagamento dei canoni almeno nelle predette misure pari a sei o quattro canoni (innovazione limitativa non certo irrilevante, se si considera che la giurisprudenza aveva invariabilmente ritenuto sussistente un inadempimento idoneo a far scattare la clausola risolutiva espressa pur quando fosse risultato limitato ad un solo canone scaduto ed insoluto), da un lato tale inadempimento viene considerato tout court come “grave”, e quindi di carattere risolutivo, per previsione legale tipica; restando escluso, dall'altro, che le parti (e in particolare il concedente in leasing, facendo eventualmente valere la sua forza contrattuale) possano disciplinare contrattualmente il caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore al pagamento dei canoni con previsioni più penalizzanti per l'utilizzatore, ossia in “malam partem”. Proprio questo divieto, d'altronde, induce a considerare cogente, imperativa, la nuova previsione normativa.
Di conseguenza le parti contraenti potranno, semmai, per quanto ciò appartenga più che altro al mondo della fantasia, prevedere contrattualmente solo clausole di maggior favore per l'utilizzatore in tema di risoluzione per inadempimento al pagamento dei canoni (ad es. considerando come grave solo l'inadempimento ad un maggior numero di canoni, o calcolando come debito residuo per l'utilizzatore un importo inferiore, ecc.), essendo la norma in esame, come accennavo poc'anzi, sì imperativa, ma solo parzialmente, ossia solo laddove appresta un'invalicabile tutela minima a favore dell'utilizzatore, senza pregiudicare invece la possibilità di una sua tutela maggiore, lasciata – almeno questa, de residuo - alla libertà contrattuale delle parti. In ciò la nuova norma, nel disciplinare la detta ipotesi di risoluzione, si differenzia chiaramente dalla norma – il citato art. 72-quater l.fall. - che disciplina lo scioglimento del contratto in caso di fallimento. Quest'ultima norma, infatti, appresta, come era logico ed inevitabile, una disciplina interamente imperativa, facendo scattare lo scioglimento (istituto a sua volta ben distinto dalla risoluzione, prescindendo esso da qualche colpa e quindi escludendo qualsiasi diritto risarcitorio) in presenza della sola volontà del curatore; inoltre i diritti di restituzione e di ammissione al passivo da essa disciplinati non sono soggetti ad alcuna possibile variazione ad opera delle parti negoziali al momento di stipula del contratto (peraltro la disciplina fallimentaristica, anche nella parte in cui regola le conseguenze dello scioglimento in termini di diritti di restituzione del bene e di ammissione al passivo della prestazione inadempiuta – unitamente a quella, simile, contenuta nell'art. 169-bis come modificato dall'articolo 8, comma 1, lettere d), del D.L. n. 83/2015, conv. in L. n. 132/2015 -, diverge alquanto rispetto a quella, ora certamente più analitica e garantistica per l'utilizzatore, contenuta nei commi 138 e 139 della L. n. 124/2017). Inoltre, mentre la disciplina dello scioglimento fallimentare, proprio perché dipendente esclusivamente dalla scelta del curatore, non si riferisce espressamente ed in via esclusiva al solo inadempimento dell'utilizzatore (se non per regolare le specifiche conseguenze relative alle modalità di insinuazione dei canoni eventualmente non pagati), né comunque al solo inadempimento al pagamento dei canoni, potendo dunque abbracciare – per implicito – anche qualunque ipotesi di inadempimento (oltre che ogni ipotesi di semplice esecuzione ancora in corso del contratto); viceversa la legge 124/2017 disciplina – come già detto con norma solo parzialmente imperativa - soltanto il caso di inadempimento dell'utilizzatore al pagamento dei canoni (peraltro solo a partire da certe soglie) e non ogni altra ipotesi di inadempimento, ipotesi “aperte”, queste ultime, che pertanto restano soggette, con i relativi effetti conseguenziali in tema di diritti restitutori e risarcitori, alla libera possibilità di programmazione negoziale delle parti. In conclusione, mi pare che, se oggi, a seguito della legge 124/2017, è caduta ogni concreta possibilità di applicazione della distinzione tipologica prospettata dalla S. Corte tra leasing di godimento e leasing traslativo (per quanto ancora valida in astratto) e quindi l'utilità di svolgere un'indagine oggettiva o soggettivo/psicologica – rispettivamente - in merito al rapporto funzionale tra valore residuo del bene e prezzo d'opzione, da un lato, e alla effettiva programmatica intenzione delle parti circa la sorte dell'esercizio del diritto di opzione d'acquisto, dall'altro; ciò valga solo nei limiti in cui ha spazio per operare la nuova norma parzialmente imperativa, apprestando essa una disciplina unitaria e comune per qualunque ipotesi di locazione finanziaria, a prescindere appunto dal variabile rapporto tra prezzo d'opzione e valore finale del bene, in presenza di un inadempimento dell'utilizzatore al pagamento dei canoni; ma, laddove essa non abbia oggettivamente modo di operare, e dunque per gli altri casi di inadempimento ad altre obbligazioni dell'utilizzatore, restino impregiudicati sia i poteri di programmazione negoziale delle parti, sia – in ipotesi meramente astratta – l'applicabilità della distinzione tipologica proposta dalla S. Corte. Dico “in ipotesi meramente astratta” con riferimento alla suddetta distinzione tipologica sia perché, in particolare, al di fuori dell'inadempimento al pagamento dei canoni da parte dell'utilizzatore – area ora interamente disciplinata dalla legge 124/2017 - non sembra più riproponibile l'utilità di tale distinzione, non avendo più modo di prospettarsi, per quanto appena detto, quell'applicazione analogica dell'art. 1526 c.c. in tema di vendita con r.p. che traeva ragion d'essere proprio dalla distinzione medesima; sia perché, più in generale, come ho già in passato cercato più volte di segnalare e dimostrare (per quanto inascoltato), solo quando si verta nell'ambito dello scioglimento fallimentare dei contratti pendenti, il che presuppone appunto l'esistenza di contratti ancora non interamente eseguiti da entrambe le parti, s'impone l'ossequio ad una normativa imperativa, quindi non derogabile, tale essendo quella dettata dal legislatore in generale in tema di contratti pendenti e, in particolare, nell'art. 72-quater (e 169-bis) l.fall. in materia di leasing; mentre, ove il contratto si risolva fuori dal concorso o prima del concorso, gli effetti della risoluzione, a causa della completa regolamentazione delle ipotesi di risoluzione che i contratti di leasing hanno sempre presentato nella prassi, non potevano (e non possono) che essere sempre quelli regolati contrattualmente e liberamente dalle parti, non essendovi motivo per applicare in via analogica, in presenza di un regolamento contrattuale specifico ed esaustivo, la normativa relativa ad un contratto diverso (come quella appunto della vendita con r.p. di cui all'art. 1526 C.C.) se non ritenendo che la fattispecie negoziale concreta fosse o sia, per quanto specifica ed esaustiva, comunque parzialmente affetta da nullità (ad es. per contrasto con l'ordine pubblico o con altre norme generali imperative, come il divieto del patto commissorio), eventualità che però la stessa S. Corte ha sempre escluso in via di principio, statuendo che il leasing è, per definizione, almeno in quella che veniva considerata la sua forma socialmente (anche se non legalmente) tipica, un contratto lecito e comunque meritevole di tutela (in relazione all'art. 1322, comma 2, c.c.). Di conseguenza, la distinzione tipologica prospettata dalla S. Corte, per quanto ancora pertinente e corretta in via teorica, non aveva prima, e a maggior ragione non ha più ora, né avrà in futuro, alcuna ragione di operare in concreto, non essendovi motivo per regolare comunque la risoluzione civilistica – nel leasing, anche laddove non trovi applicazione la disciplina imperativa di cui alla legge n. 124/2017 - in modo diverso da quello voluto dalle parti negoziali.
Semmai, va ancora chiaramente ribadito che, come lo è stato finora, sarà sempre comunque possibile ricorrere, per i contratti che risultino soggetti ad ordinaria risoluzione civilistica (o dei quali, quando intervenga il fallimento, si accerti che si sia già verificata la risoluzione civilistica prima dell'inizio del concorso) al generale rimedio della riduzione della penale contrattuale ex art. 1384 c.c. per riportare ad equità eventuali clausole penali esorbitanti, ancorchè – ovviamente – solo laddove esse possano ancora essere inserite nei contratti di locazione finanziaria (il che può verificarsi, all'evidenza, solo al di fuori dell'area in cui opera la norma imperativa di cui al citato comma 136, ponendo esso inderogabili soglie minime per i canoni inadempiuti suscettibili di far scattare la possibilità di risoluzione del contratto e dettando specifiche inderogabili regole per la quantificazione dei diritti restitutori e risarcitori, ogni violazione negoziale di tali regole essendo di per sè suscettibile di essere dichiarata nulla, senza necessità di ricorso, in tal caso, alla misura equitativa di cui all'art. 1384 c.c.). |