Notifica a mezzo PEC: per la firma digitale è ammesso il solo formato .p7m?

Pietro Calorio
09 Ottobre 2017

La Suprema Corte affronta la questione della ritualità della notificazione a mezzo PEC di un atto di parte «con estensione (e quindi forma o struttura informatica) diversa da quella espressamente prescritta».
Massima

Va rimessa al Primo Presidente, affinché valuti l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite, la questione circa gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche sulla forma degli atti del processo in forma di documento informatico oggetto di notifica a mezzo PEC, e in particolare sull'estensione dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità.

Il caso

Parte ricorrente per cassazione (un istituto di credito) provvedeva alla notifica a mezzo PEC di due successivi ricorsi, l'uno con allegata procura generale alle liti e un secondo con una procura speciale.

Due degli intimati notificavano separati controricorsi contro ciascuno dei due ricorsi.

Sul ricorso veniva proposta definizione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 380-bis, comma 1, c.p.c..

Con memoria ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c., la ricorrente sollevava questione di ritualità della notifica di uno dei controricorrenti, «siccome avvenuta con allegazione al messaggio PEC di tre file in formato .PDF e non .p7m e quindi da ritenersi privi di firma digitale».

La questione

La questione giuridica affrontata, sia pure in maniera interlocutoria, è quella della ritualità della notificazione a mezzo PEC di un atto di parte «con estensione (e quindi forma o struttura informatica) diversa da quella espressamente prescritta».

Le soluzioni giuridiche

La sezione VI della Corte di Cassazione [ossia quella deputata alla verifica dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio di inammissibilità, di accoglimento o rigetto dei ricorsi per manifesta fondatezza o infondatezza (art. 376, comma 1, per. 1, c.p.c.)], con ordinanza interlocutoria, riteneva di dover rimettere gli atti al Primo Presidente della Corte di Cassazione per valutare l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite.

Il Collegio riteneva di non dichiarare l'inammissibilità dei ricorsi per altri motivi (pur affermando di poter così procedere), e (anche ai fini di una corretta pronuncia in punto soccombenza e conseguente ripartizione delle spese di lite) rimetteva la questione al Primo Presidente della Corte affinché valutasse l'assegnazione alle Sezioni Unite, stante la rilevanza della questione concernente «gli effetti della violazione delle disposizioni tecniche sulla forma degli “atti del processo in forma di documento informatico” oggetto di notifica a mezzo PEC, e in particolare sull'estensione dei file in cui essi si articolano, ove siano indispensabili per valutare la loro autenticità».

La «questione di massima di particolare importanza» (di cui all'art. 374, comma 2, c.p.c.), ad avviso del Collegio, riguarda la configurabilità o meno di una prescrizione sulla forma dell'atto indispensabile al raggiungimento dello scopo (art. 156, comma 2, c.p.c.).

Osservazioni

È doverosa una premessa: dalla descrizione dei fatti di causa non emergono dettagli importanti in merito all'“essenza informatica” dei file in formato .PDF di cui alla notifica del controricorso della quale parte ricorrente ha eccepito la ritualità in quanto (asseritamente) privi di firma digitale.

È noto e pacifico, infatti, che un file PDF firmato digitalmente con firma strutturata in formato

PAdES

(che consiste in un insieme di restrizioni e implementazioni allo standard del Portable Document Format, appunto il PDF di cui alla norma ISO 32000 e successive modifiche) conserva l'estensione .PDF ed è validamente firmato digitalmente.

Altrettanto noto è che, nel nostro ordinamento processuale, l'ammissibilità del file PDF con firma strutturata in formato

PAdES

è stabilita dal comma 2 dell'art. 12 Provv. DGSIA 16 aprile 2014.

Il Collegio, per vero, cita proprio questa norma (pur con indicazione erronea della data del provvedimento, 28 dicembre 2015, che del provvedimento DGSIA 16 aprile 2014 è soltanto un'integrazione), ma ne riporta solo alcuni stralci, con l'effetto di stravolgerne il senso, mediante la decontestualizzazione del riferimento al formato

CAdES

(rectius del file firmato digitalmente con struttura CAdES, individuato dall'estensione .p7m).

In particolare, lo stralcio della disposizione riportato dal Collegio è il seguente: «la struttura del documento firmato è

PAdES

-BES (o

PAdES

Part 3) o

CAdES

-BES; il certificato di firma è inserito nella busta crittografica; [...] nel caso del formato

CAdES

il file generato si presenta con un'unica estensione .p7m».

Quanto sopra viene interpretato nel senso che risulterebbe «indispensabile l'estensione p7m a garanzia dell'autenticità del file e cioè dell'apposizione della firma digitale al file in cui il documento informatico originale è stato formato, solo per il secondo caso, in cui cioè il documento informatico originale è creato in formato diverso da quello PDF».

Tale interpretazione, ad avviso di chi scrive, risulta erronea: è da ritenere che l'espressione«nel caso del formato

CAdES

il file generato si presenta con un'unica estensione p7m»si riferisca esclusivamente all'ipotesi in cui al file venga apposta più di una firma, e appare arbitrario inferire, da questo inciso, che l'unico formato che garantisce l'autenticità del file è quello .p7m (firma con struttura

CAdES

).

Per vero, dall'ordinanza sembra trasparire rilevante approssimazione e confusione sui concetti di “formato” ed “estensione” dei file.

Il formato di file «indica la convenzione che viene usata per leggere, scrivere e interpretare i contenuti di un file».

“File di testo” (ad esempio) è, in effetti, un'espressione brachilogica a significare che “il contenuto del file va interpretato come testo”.

Fra le “convenzioni” correntemente in uso per identificare il formato di un file, la più diffusa è quella mediante la c.d. “estensione”, una combinazione alfanumerica posta di seguito al “nome” del file e da esso separato tramite un punto.

In sostanza, pertanto, l'estensione è una delle tecniche convenzionali con cui si identifica un formato di file: un documento di testo, un flusso video o audio… o, appunto, un documento informatico testuale firmato digitalmente!

Da ciò consegue, evidentemente, che una determinata estensione di file non indica di per sé univocamente un formato di file, ben potendo un file dello stesso “formato” (in questo caso, un documento informatico di testo firmato digitalmente) presentare estensioni diverse: o .pdf, nel caso di firma con struttura

PAdES

, o .p7m, in caso di firma con struttura

CAdES

.

Anche (ma non soltanto) per queste ragioni, il percorso argomentativo del Collegio della VI Sezione è di assai ardua ricostruzione, perché appare basato su numerosi fraintendimenti circa la realtà tecnica e la disciplina giuridica dei documenti informatici.

Senza dubbio censurabili sono le seguenti affermazioni (peraltro espresse con formule assai dubitative):

  • l'«osservanza delle specifiche tecniche sullo stesso confezionamento dei file informatici nativi dovrebbe poter attenere all'esistenza stessa dell'atto»: al contrario, è palese che un file PDF non firmato, in quanto (a meno di anomalie informatiche che lo abbiano corrotto irrimediabilmente) documento il cui contenuto testuale è perfettamente leggibile, non può fondatamente ritenersi un atto “inesistente” (semmai nullo, con nullità sanata allorché lo scopo, quello di risultare leggibile al giudice e alle controparti, sia raggiunto);
  • che non fosse applicabile alla fattispecie in esame il principio dettato dalle Sezioni Unite (con sent. n. 7665/2016) sul presupposto che, a dire del Collegio, esso fosse riferito ad un «documento nativo analogico notificato in via telematica con estensione .doc anziché .PDF»: è di tutta evidenza che il file in formato .doc non è un documento nativo analogico, ma è anch'esso un documento nativo informatico. L'affermazione, per quanto errata, appare sostanzialmente un obiter dictum irrilevante nel pur accidentato iter argomentativo del provvedimento;
  • che fosse rilevante, nella ricostruzione del quadro normativo, la disposizione di cui all'art. 13 lettera a) Provv. DGSIA 16 aprile 2014, che in realtà si riferisce esclusivamente agli allegati alla trasmissione dei depositi telematici di cui al successivo art. 14, e non ai documenti informatici oggetto di notificazione telematica;
  • che la (supposta) imposizione da parte della normativa tecnica dell'estensione “p7m” fosse posta a garanzia dell' “unione” di un atto (il ricorso) creato ab origine informaticamente e una «parte o componente istituzionalmente non informatica, quale la procura a firma analogica su supporto tradizionale»: ciò nell'errata convinzione che il formato “p7m” realizzi una sorta di incorporazione inscindibile tra atto e procura «con assicurazione di genuinità ed autenticità di entrambi in quanto costituenti un unicum».

Indubbiamente positiva, nonostante tutto, la conclusione interlocutoria: ci si augura dunque che l'eventuale rimessione alle Sezioni Unite conduca ad un provvedimento di carattere conservativo dell'attività processuale svolta con strumenti informatici e telematici, al fine di scoraggiare la formulazione di eccezioni di mera “forma informatica” che non ledano il diritto di difesa e il principio del contraddittorio (come già molto opportunamente stabilito dalle stesse Sezioni Unite con la fondamentale e già citata sent. 18 aprile 2016 n. 7665).

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