La problematica norma "interpretativa" in materia di regime fiscale delle indennità di trasferta e di trasfertismo

06 Ottobre 2017

Il regime fiscale (e contributivo, attesa l'armonizzazione della base imponibile contributiva e di quella fiscale attuata con l'art. 6 del D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314) delle indennità corrisposte in caso di trasferta si inserisce nel sistema di imposizione dei redditi di lavoro dipendente, caratterizzato, come noto, dai principi di onnicomprensività e di irrilevanza delle spese di produzione del reddito (salva la detraibilità di un importo forfetario determinato ai sensi dell'art. 13 TUIR). Da ciò discende che gli eventuali rimborsi, indennità o proventi in genere comunque diretti a compensare il lavoratore dei costi connessi al normale svolgimento della propria attività lavorativa costituiscono per il percettore proventi imponibili, mentre esulano dalla nozione di reddito di lavoro dipendente soltanto le somme corrisposte al lavoratore a titolo di reintegrazione patrimoniale per spese da questi anticipate per conto e nell'esclusivo interesse del datore di lavoro.
Il regime fiscale dei rimborsi e delle indennità di trasferta

Il regime fiscale (e contributivo, attesa l'armonizzazione della base imponibile contributiva e di quella fiscale attuata con l'art. 6 del D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314) delle indennità corrisposte in caso di trasferta si inserisce nel sistema di imposizione dei redditi di lavoro dipendente, caratterizzato, come noto, dai principi di onnicomprensività e di irrilevanza delle spese di produzione del reddito (salva la detraibilità di un importo forfetario determinato ai sensi dell'art. 13 TUIR).

Da ciò discende che gli eventuali rimborsi, indennità o proventi in genere comunque diretti a compensare il lavoratore dei costi connessi al normale svolgimento della propria attività lavorativa costituiscono per il percettore proventi imponibili, mentre esulano dalla nozione di reddito di lavoro dipendente soltanto le somme corrisposte al lavoratore a titolo di reintegrazione patrimoniale per spese da questi anticipate per conto e nell'esclusivo interesse del datore di lavoro.

Nell'accennato contesto, l'individuazione del regime di rilevanza reddituale delle indennità di trasferta avrebbe potuto rivelarsi assai problematica. Al fine di superare tali possibili criticità e di non penalizzare eccessivamente i possessori di redditi di lavoro dipendente, il legislatore ha previsto una disciplina assai dettagliata in merito al regime fiscale dei rimborsi e delle indennità in questione. L'attuale art. 51, comma 5, TUIR, prevede in estrema sintesi un trattamento differenziato per le trasferte all'interno del territorio del comune ove è ubicata la sede di lavoro, le cui indennità concorrono integralmente al reddito salvo che per il rimborso delle spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore, e per le trasferte fuori dal territorio del comune ove è ubicata la sede di lavoro.

Per quest'ultima fattispecie la legge individua tre diversi regimi applicabili.

Adottando il sistema analitico (o “a piè di lista”), è prevista l'esenzione integrale del rimborso delle spese effettivamente sostenute per vitto, alloggio, viaggio e trasporto, nonché di un'ulteriore somma forfetariamente quantificata in € 15,49 al giorno, elevata ad € 25,82 per il caso di trasferta all'estero.

Opposto al sistema analitico è il sistema forfetario, nel quale si prevede la non imponibilità delle indennità di trasferta ricevute dal lavoratore per un importo massimo di € 46,48 per giorno di trasferta, aumentato ad € 77,47 nel caso di trasferta all'estero, oltre alle spese analiticamente determinate di viaggio e trasporto.

Infine, adottando il sistema misto, si prevede la non imponibilità dei rimborsi analitici delle spese di viaggio e trasporto, nonché delle spese documentate di vitto o di alloggio, e di una ulteriore indennità pari a quella prevista per il sistema forfetario ridotta di un terzo, nel caso di rimborso delle sole spese documentate di vitto o di alloggio, e di due terzi per il caso di rimborso delle spese documentate sia di vitto che di alloggio.

Per il lavoratore il sistema del rimborso analitico sarà generalmente più favorevole rispetto agli altri, prevedendo la detassazione senza limiti del rimborso delle spese documentate di viaggio, trasporto, vitto e alloggio, oltre ad un'ulteriore somma forfetaria di € 15,49 destinata a coprire eventuali altre spese non documentabili.

I regimi forfetari e misti, invece, evidenziano il limite derivante dal mancato aggiornamento all'attuale costo della vita degli importi massimi indennizzabili in esenzione d'imposta. Tali regimi, tuttavia, consentono una notevole semplificazione nelle procedure aziendali di gestione delle trasferte e dei relativi rimborsi, rendendo possibile l'erogazione di indennità non analiticamente correlate alle spese effettivamente sostenute ed esentate nella misura (seppure ormai inadeguata) forfetariamente stabilita dal legislatore.

Il “trasfertismo” ed il regime fiscale e contributivo della relativa indennità

Nell'ipotesi della trasferta, alla quale si è fatto riferimento nel paragrafo precedente, si verifica una temporanea dissociazione tra la sede “normale” del lavoro (che resta tale, anche durante l'espletamento della trasferta) ed il luogo in cui la prestazione lavorativa viene momentaneamente ed occasionalmente resa. Vi sono però ipotesi in cui un simile legame è assai labile o manca del tutto, poiché la prestazione lavorativa deve essere di per sé resa in luoghi sempre diversi; in questi casi lo spostamento geografico del lavoratore non dipende da singole decisioni del datore di lavoro (dettate da esigenze meramente occasionali e contingenti) ma proprio dal fisiologico svolgimento delle mansioni cui il lavoratore è addetto e quindi, in definitiva, dalla normale esecuzione della prestazione lavorativa.

Anche per la fattispecie appena delineata, denominata con la locuzione “lavoro itinerante” o con il termine “trasfertismo”, la contrattazione collettiva ed individuale prevede generalmente il diritto del lavoratore al pagamento di una particolare indennità aggiuntiva rispetto alla retribuzione base. Il regime fiscale e contributivo attualmente previsto per tale indennità si differenzia, però, da quello previsto per i rimborsi e le indennità di trasferta.

L'art. 51, comma 6, primo periodo, TUIR stabilisce, infatti, che “Le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all'espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità, […] concorrono a formare il reddito nella misura del 50 per cento del loro ammontare”.

Come detto, la disciplina in questione diverge sensibilmente rispetto a quella applicabile ai rimborsi ed alle indennità di trasferta: mentre queste ultime sono fiscalmente rilevanti solo nella eventuale parte eccedente i tetti massimi giornalieri stabiliti forfetariamente dalla legge (e solo ove non si proceda al rimborso analitico), per le indennità ai trasferisti si prevede in ogni caso l'imponibilità nella misura del 50% di quanto corrisposto.

La ratio di tale differenziazione è generalmente individuata nel fatto che l'indennità riconosciuta ai trasferisti sarebbe correlata alla causa tipica e normale del rapporto di lavoro, dovendosene perciò riconoscere il carattere totalmente retributivo. La parziale esenzione prevista dall'art. 51, comma 6, TUIR, dunque, rappresenterebbe nella sostanza un'agevolazione concessa alla categoria di lavoratori itineranti, giustificata dalle particolari condizioni nelle quali si svolge la loro attività lavorativa.

È opportuno precisare che, in astratto, non è possibile stabilire quale regime sia più favorevole per il lavoratore tra quello previsto per la trasferta e quello previsto per il lavoro itinerante, ciò dipendendo dalla misura concreta dell'indennità corrisposta al lavoratore; la disciplina prevista per i trasferisti sarà più conveniente laddove la relativa indennità sia di elevato ammontare e le spese effettivamente sostenute siano poco rilevanti, poiché in questo caso l'abbattimento del 50% inciderebbe più pesantemente sulla base imponibile fiscale e previdenziale.

In concreto, come emerge dalla casistica, prestatori e datori di lavoro trovano generalmente più conveniente l'applicazione del regime della trasferta piuttosto che quello del trasfertismo.

La necessità di delimitare i rispettivi ambiti applicativi delle due discipline

Le due discipline in commento sembrerebbero chiare nell'indicare i relativi presupposti applicativi, consentendo una agevole delimitazione dei rispettivi ambiti di operatività. La fattispecie al ricorrere della quale si rendono applicabili le norme recate dall'

art. 51, comma 5, TUIR

, è individuabile nell'erogazione di un rimborso o di una indennità correlata all'effettuazione di una trasferta, ovvero al verificarsi di una temporanea ed episodica dissociazione tra luogo di lavoro “normale” e luogo in cui la prestazione lavorativa viene effettivamente resa; il successivo comma 6 fa invece riferimento alle indennità riconosciute ai “lavoratori itineranti”, cioè a quelli per i quali la variabilità del luogo di lavoro non costituisce una vicenda occasionale imputabile ad una singola decisione del datore, ma la continua e fisiologica modalità di espletamento delle mansioni lavorative.

Quanto appena detto vale, però, soltanto in astratto; in concreto, la linea di demarcazione appena indicata non è sempre così netta. Si pensi, soltanto per fare un esempio, ai lavoratori per i quali la “sede di lavoro” si risolve nel mero luogo di deposito degli strumenti di lavoro (come avviene spesso nel settore dell'edilizia, dell'autotrasporto o di alcune tipologie di servizi). In queste ipotesi “di confine” non è sempre facile stabilire se il fenomeno di mobilità territoriale del lavoratore sia inquadrabile nella categoria della trasferta (ripetuta, frequente, o addirittura costante) oppure del lavoro itinerante, con la conseguente incertezza in ordine alla qualificazione giuridica delle relative indennità e del regime fiscale e contributivo alle stesse applicabile.

Tale situazione di incertezza è stata nel tempo aggravata a seguito del formarsi di una netta divaricazione tra le indicazioni fornite dalla prassi amministrativa e l'orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità. Recentemente, lo stesso legislatore ha avvertito la necessità di intervenire con una norma dichiarata di interpretazione autentica dell'

art. 51, comma 6, TUIR

, il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di fare definitiva chiarezza sul punto. Prima di illustrare il contenuto di tale norma [si tratta dell'

art. 7

-quinques

del D.L. 22 ottobre 2016

, inserito in sede di conversione ad opera della

L. 1° dicembre 2016, n. 225

] e di verificare se l'obiettivo proposto si possa dire realizzato, è però opportuno esaminare i nodi problematici emersi nella prassi e nella giurisprudenza in merito all'interpretazione ed all'applicazione delle due discipline in questione.

La pretesa rilevanza dell'indicazione formale della sede di lavoro

Nella Circolare n. 326/E del 23 dicembre 1997 l'Amministrazione Finanziaria ha per la prima volta indicato alcuni elementi in grado, a proprio giudizio, di orientare l'interprete nella corretta applicazione della norma in tema di trasfertisti. In primo luogo, nel richiamato documento l'Amministrazione affermava che il regime fiscale previsto per le indennità ai lavoratori itineranti avrebbe potuto essere applicato anche ai lavoratori non qualificabili come “trasfertisti” ma, più propriamente, in “trasferta frequente”. In sostanza, il Ministero prefigurava l'ipotesi in cui il lavoratore effettua frequentemente trasferte e nella quale le parti, per semplificare la gestione amministrativa del rapporto di lavoro, pattuiscono non già l'erogazione di indennità o rimborsi correlati alle trasferte effettivamente svolte, bensì l'attribuzione di una somma forfetaria determinata tenendo conto delle trasferte mediamente effettuate nell'arco del periodo di tempo preso in considerazione; seguendo la tesi ministeriale, dunque, si sarebbe dato luogo all'applicazione del regime previsto per il lavoro itinerante a fattispecie propriamente inquadrabili nella trasferta (e, dunque, assoggettabili ad uno dei regimi previsti dall'art. 51, comma 5, TUIR).

Dai successivi sviluppi della prassi emerge, tuttavia, come tale ipotesi non abbia quasi mai trovato riscontro; emerge, anzi, il prevalere dell'opposta tendenza volta ad allargare la sfera di applicabilità del regime previsto per le trasferte (ritenuto, come già detto, più conveniente per l'indennità di ammontare contenuto) a fattispecie più correttamente inquadrabili nella categoria del lavoro itinerante.

Gli spunti iniziali di tale tendenza sono forniti già nella medesima Circolare n. 326/E del 1997, nella parte in cui si indicava la mancata indicazione nel contratto o nella lettera di assunzione di una sede di lavoro predeterminata come elemento in grado di determinare l'applicabilità del regime previsto dall'art. 51, comma 6, TUIR. Proprio sulla base di tale spunto, la pretesa di discernere le ipotesi di applicabilità delle due discipline sulla base del dato formale dell'indicazione della sede di lavoro nel contratto o nella lettera di assunzione è stata in tempi più recenti ribadita anche dall'Amministrazione previdenziale [cfr., la nota del Ministero del Lavoro n. 25/I/0008287 del 20 giugno 2008, nonché il Messaggio INPS n. 27271 del 5 dicembre 2008].

A tale riguardo sono però necessarie alcune considerazioni.

È chiaro che l'indicazione di un luogo dove la prestazione debba essere svolta sia ontologicamente incompatibile con la stessa fattispecie astratta del lavoro itinerante. Tuttavia, una cosa è verificare la natura itinerante della prestazione lavorativa dedotta in contratto (cioè accertare la mancanza di un luogo in cui la prestazione lavorativa deve essere stabilmente espletata), un'altra è pretendere di accertare tale natura sulla base del solo elemento formale del testo contrattuale o della lettera di assunzione e prescindendo del tutto dalle reali modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In realtà, il dato formale riguardante la previsione di una sede di lavoro non dovrebbe essere dirimente né per affermare né per escludere la natura itinerante del rapporto di lavoro (e quindi per qualificare l'indennità percepita dal prestatore), tanto più in un ambito, quello giuslavoristico, fortemente ispirato al principio di effettività dei rapporti. D'altro canto, seguendo la diversa impostazione, si finirebbe per rimettere alla discrezionalità delle parti la scelta del regime fiscale e contributivo cui assoggettare l'indennità pattuita.

Sulla base di tali argomenti la Suprema Corte ha respinto la tesi ministeriale ed ha affermato più volte la necessità di distinguere, all'esito di una disamina avente ad oggetto l'effettivo svolgimento del rapporto di lavoro, tra la previsione di una “sede di lavoro” (che nel caso dei trasfertisti non può essere individuata con carattere di stabilità) e l'eventuale indicazione di una “mera sede di assunzione o comunque luogo in cui il dipendente non è chiamato a svolgere normalmente la propria attività lavorativa e costituente sostanzialmente mero riferimento per la gestione burocratica del rapporto di lavoro” [così, Cass. civ., sez. lav., 13 gennaio 2012, n. 396].

In definitiva, secondo la Cassazione, ai fini dell'individuazione del corretto regime applicabile ad un'indennità collegata a fenomeni di mobilità territoriale del lavoratore, dovrebbe ritenersi del tutto irrilevante la previsione contrattuale di una sede di lavoro che non trovi riscontro nell'effettivo svolgimento del rapporto di lavoro, oppure che sia nei fatti destinata a fungere “da mero punto di riferimento per prendere materiale e attrezzature e compiere solo alcune saltuarie operazioni” [in tal senso, Cass. civ., sez. VI - lav., 26 febbraio 2013, n. 4837].

La pretesa rilevanza del carattere continuativo dell'erogazione dell'indennità

Un altro elemento valorizzato nella Circolare n. 326/E del 1997 (e poi nella prassi successiva) al fine di circoscrivere l'ambito applicativo del regime fiscale riservato ai trasfertisti è rappresentato dal carattere continuativo dell'erogazione della relativa indennità, affermandosi che la disciplina in materia di indennità per lavoro itinerante dovrebbe trovare applicazione soltanto “quando l'indennità o la maggiorazione di retribuzione è attribuita con carattere continuativo e senza alcun controllo circa l'effettuazione o meno di prestazioni in trasferta o del luogo di trasferta” [tale affermazione ha trovato conferma ed ulteriore sviluppo in due successivi pronunciamenti di prassi, entrambi riguardanti le indennità corrisposte dalle imprese di autotrasporto ai propri autisti; cfr., Risoluzione n. 56/E del 9 maggio 2000 e Circ. n. 101/E del 19 maggio 2000].

Per dimostrare la scarsa consistenza di tale assunto è però sufficiente richiamare il tenore testuale dell'art. 51, comma 6, TUIR, che fa rifermento alle indennità ed alle maggiorazioni di retribuzione “spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all'espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità”. È chiaro, in tale contesto, che l'inciso “anche se corrisposte con carattere di continuità” non attribuisce affatto rilevanza decisiva al carattere di continuità dell'erogazione; al contrario, con detto inciso il legislatore ha inteso confermare proprio l'irrilevanza dell'eventuale carattere di continuità nell'erogazione delle indennità in parola, con ciò confermando che anche le indennità corrisposte non continuativamente potrebbero rientrare nell'ambito applicativo della norma. Insomma, la tesi ministeriale sopra richiamata finiva per attribuire al carattere di continuità nell'erogazione dell'indennità una rilevanza del tutto diversa, e persino opposta, rispetto a quella ricavabile dal dato letterale della norma.

Ed infatti, anche tale criterio è stato fermamente respinto dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha invece ribadito che la regula iuris ricavabile dal contenuto letterale dell'art. 51, comma 6, TUIR è esattamente opposta rispetto a quella affermata dall'Amministrazione, poiché “La norma indica infatti come eventuale tale rigida continuità (“anche se”) mentre concentra il nucleo significativo della disposizione, in rapporto a quello del precedente comma, nel dato relativo ad una erogazione corrispettiva dell'obbligo contrattuale assunto dal dipendente di espletare normalmente le proprie attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi” [così la già citata Cass. civ., sez. lav., 13 gennaio 2012, n. 396, richiamata da Cass. civ., sez. lav., 1° settembre 2015, n. 17982; nello stesso senso, Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2016, n. 3066].

L'opportunità di un intervento normativo e la norma “interpretativa” del 2016

Il sovrapporsi di orientamenti amministrativi e giurisprudenziali contrastanti tra loro ha condotto ad una situazione di grande incertezza circa la corretta qualificazione delle indennità erogate in relazione a fenomeni di mobilità territoriale dei lavoratori dipendenti, con grave pregiudizio per le imprese maggiormente interessate da tali fenomeni. In sostanza, mentre le Amministrazioni finanziarie e previdenziali centrali adottavano posizioni ispirate alla tutela degli interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, i quali trovano generalmente più appetibile il regime fiscale e contributivo delle trasferte piuttosto che quello previsto per il lavoro itinerante, gli uffici periferici delle medesime amministrazioni hanno frequentemente contestato la mancata applicazione del regime di cui all'art. 51, comma 6, TUIR, anche nei casi in cui i soggetti si erano adeguati alle indicazioni fornite con i richiamati documenti di prassi; all'esito del copioso contenzioso che ne è scaturito, poi, la Suprema Corte ha respinto tali indicazioni e confermato l'operato degli uffici periferici e la legittimità delle contestazioni sollevate [si vedano, Cass. civ., sez. lav., 13 gennaio 2012, n. 396; Cass. civ., sez. VI - lav., 26 febbraio 2013, n. 4837; Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2014, n. 5289; Cass. civ., sez. lav., 1° settembre 2015, n. 17982; Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2016, n. 3066].

Nel tentativo di ovviare a tale situazione è intervenuto il legislatore, con l'art. 7-quinquies del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, rubricato “Interpretazione autentica in materia di determinazione del reddito di lavoratori in trasferta e trasfertisti” ed inserito in sede di conversione ad opera della L. 1° dicembre 2016, n. 225.

Sull'efficacia dell'intervento normativo in questione, però, è lecito avanzare più di qualche dubbio.

In sostanza, con la novella in esame il legislatore ha inteso attribuire rilevanza normativa ai criteri di qualificazione già affermati nella prassi amministrativa ed invece respinti dalla costante giurisprudenza della Cassazione. In particolare, il primo comma del citato art. 7-quinquies fa espresso riferimento alla mancata indicazione nel contratto o nella lettera di assunzione di una sede di lavoro, nonché al carattere di continuità dell'erogazione dell'indennità: soltanto al ricorrere congiunto di tali condizioni (unitamente allo “svolgimento di un'attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente”) il lavoratore potrà essere qualificato “trasfertista” e la relativa indennità sarà assoggettabile al regime di cui al comma 6 dell'art. 51 TUIR; in caso contrario, come sancisce il comma 2 dell'art. 7-quinquies, l'indennità dovrebbe restare assoggettabile ad uno dei regimi previsti per le indennità di trasferta dal comma 5 dell'art. 51, TUIR. Il carattere interpretativo della norma sarebbe inoltre funzionale a conferire alla stessa la naturale efficacia retroattiva tipica di tali norme, mettendo così al riparo i soggetti che in passato si sono attenuti alle indicazioni amministrative dalle conseguenze pregiudizievoli in precedenza illustrate.

Natura innovativa della norma del 2016 e problematiche di efficacia intertemporale

Nonostante il lodevole intento di ristabilire chiarezza in materia e di tutelare i soggetti che in passato hanno prestato affidamento alle indicazioni ministeriali, la norma solleva, come già anticipato, numerosi profili di perplessità.

In primo luogo, nonostante la rubrica e la chiara formulazione della disposizione depongano per la natura interpretativa (e quindi per l'efficacia naturalmente retroattiva) della nuova norma, sembra chiaro che il suo contenuto sia in realtà innovativo e modificativo rispetto alla norma che si propone di interpretare (cioè l'art. 51, comma 6, TUIR).

Come noto, la natura interpretativa oppure innovativa di una norma non può essere accertata sulla base di meri elementi testuali, come il titolo o la formulazione delle disposizioni medesime, essendo invece necessario avere riguardo esclusivo al contenuto della stessa; una norma, insomma, può dirsi autenticamente interpretativa soltanto qualora “si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario”, poiché soltanto in tal caso, “la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo»” [così, Corte Cost., 5 aprile 2012, n. 78; cfr. anche, Corte Cost., 4 giugno 2014, n. 156].

Nel caso in esame, alla luce della costante giurisprudenza di legittimità richiamata in precedenza, non v'è dubbio che la norma oggetto di interpretazione autentica (l'art. 51, comma 6, TUIR) non contemplasse affatto tra i suoi presupposti applicativi la necessaria continuità dell'erogazione dell'indennità e che prescindesse del tutto dal dato formale rappresentato dall'indicazione nel contratto o nella lettera di assunzione della sede di lavoro.

Proprio sulla scorta di dette motivazioni, il carattere innovativo della norma recata dall'art. 7-quinquies, d.l. n. 193 del 2016, è già stato rilevato dalla Suprema Corte in una recente ordinanza [Cass., sez. lav., ord. 18 aprile 2017, n. 9731] nella quale, chiamati a valutare l'applicabilità della novella a vicende verificatesi anteriormente alla sua entrata in vigore, i giudici di legittimità hanno giustamente fatto notare che “l'intervento del legislatore, ancorché autodefinitosi di interpretazione autentica del testo dell'art. 51, comma 6, T.U. n. 917/1986, pare attribuire a quest'ultimo un significato che non poteva in alcun modo essere incluso nel novero dei suoi significati possibili” e che “l'attribuzione di senso operata dall'art. 7-quinquies d.l. n. 193/2016 (conv. con l. n. 225/2016), nei confronti dell'art. 51, comma 6, T.U. n. 917/1986, pare avere valore innovativo, avendo nei fatti il significato di sopprimere la locuzione congiuntiva “anche se”, che figura nella disposizione interpretata”; per tale ragione, la questione è stata rimessa al presidente della Corte affinché sia valutata l'opportunità della pronuncia sul punto da parte delle Sezioni Unite.

È bene precisare che il carattere innovativo della norma non emerge soltanto con riferimento al requisito della continuità dell'erogazione, cui si riferisce espressamente l'ordinanza appena citata, ma anche in relazione all'indicazione delle sede di lavoro nel contratto o nella sede di assunzione; nell'ordinanza richiamata la Suprema Corte limita il proprio esame al carattere di continuità dell'erogazione soltanto perché tale elemento era quello concretamente rilevante nella fattispecie dedotta al suo giudizio.

Ciò detto, l'unica plausibile ragione per “mascherare” da norma interpretativa una norma nei fatti innovativa può essere individuata proprio nell'intento di attribuire a detta norma l'efficacia retroattiva naturalmente correlata a tale tipologie di norme. Un siffatto intervento legislativo, però, oltre ad essere risultato davvero maldestro, non era affatto necessario. In effetti, nella materia tributaria (e previdenziale) non vige il divieto assoluto di prevedere norme retroattive, sicché la modificazione con efficacia retroattiva dell'art. 51, comma 6, TUIR. avrebbe potuto essere effettuata senza ricorrere all'apparente artificio tecnico della normazione interpretativa (salvo il rispetto degli altri limiti entro cui è possibile emanare norma retroattive).

Peraltro, in alcune recenti pronunce la Suprema Corte ha chiarito che “se il riferimento alla interpretazione da attribuire a norme precedenti non serve per ciò solo ad attribuire ad una norma carattere interpretativo (ove tale carattere essa non abbia effettivamente), tuttavia testimonia dell'intento del legislatore di attribuire ad essa il carattere retroattivo che è proprio della norma interpretativa” [così, Cass. civ., sez. trib., 10 febbraio 2017, n. 3590; nello stesso senso, Cass. civ., sez. I, sent. 19 gennaio 2017, n. 1336; Cass. civ., sez. trib., 15 aprile 2016, n. 7488].

Accogliendo tale impostazione, dunque, all'art. 7-quinquies del D.L. n. 193/2016 dovrebbe comunque potersi attribuire efficacia retroattiva, poiché è chiaro che l'intento del legislatore nel formulare una simile disposizione era quello di conferire alla stessa efficacia retroattiva.

Ciò, comunque, non fa venir meno tutti i problemi legati all'efficacia intertemporale della novella.

In effetti, l'efficacia retroattiva della norma in commento avrebbe dovuto essere funzionale alla tutela dei soggetti che in passato si sono attenuti alle indicazioni ministeriali nei confronti delle eventuali contestazioni loro rivolte; non è però affatto escluso, soprattutto dopo il consolidarsi della giurisprudenza della Cassazione richiamata in precedenza (i cui primi arresti risalgono al 2012), che altri soggetti si siano adeguati ai principi sanciti dalla Suprema Corte, ad esempio applicando il regime previsto per i trasfertisti pure in casi nei quali i contratti o le lettere di assunzione recavano l'indicazione di una sede di lavoro che, in realtà, era solo la sede dell'impresa datrice di lavoro.

In queste ipotesi l'operato di detti soggetti, pur essendo pienamente legittimo alla luce delle norme allora vigenti e del consolidato orientamento giurisprudenziale, potrebbe oggi essere considerato illegittimo in forza proprio della nuova disciplina applicabile retroattivamente; ne deriva che i lavoratori in questione avrebbero subito ritenute fiscali e previdenziali all'epoca correttamente operate ma che oggi dovrebbero essere ritenute indebite, con i conseguenti obblighi restitutori e sanzionatori a carico dei datori di lavoro. Quasi certamente tale eventualità non è stata in alcun modo presa in considerazione dal legislatore, che non ha dettato al riguardo alcuna disciplina.

I limiti di carattere sostanziale della novella

Quanto al contenuto della novella, il punto in relazione al quale sembrano porsi le maggiori perplessità è quello relativo alla rilevanza attribuita al dato formale dell'indicazione della “sede di lavoro”, per le ragioni in parte già illustrate.

Come visto, già prima dell'emanazione della norma “interpretativa” in esame, la Suprema Corte aveva avvertito la necessità di distinguere tra l'indicazione della sede effettiva di lavoro (che per il lavoro itinerante è di per sé assente) e “mera sede di assunzione o comunque luogo in cui il dipendente non è chiamato a svolgere normalmente la propria attività lavorativa e costituente sostanzialmente mero riferimento per la gestione burocratica del rapporto di lavoro” [così la già citata Cass. civ., sez. lav., 13 gennaio 2012, n. 396].

Per individuare l'effettiva portata della nuova norma occorre dunque stabilire se l'indicazione della sede di lavoro in grado di inibire l'operatività dell'art. 51, comma 6, TUIR sia soltanto l'indicazione della sede di lavoro effettiva, oppure se sia sufficiente il puro dato formale dell'indicazione di un luogo di lavoro, a prescindere dall'effettività o meno dello stesso. Ove ci si orientasse nel primo senso, dovrebbe sempre essere riconosciuto alle parti del rapporto ed agli uffici fiscali e previdenziali il diritto di contestare la non effettività della sede indicata e, conseguentemente, si dovrebbe consentire al giudice di accertare la natura itinerante del rapporto di lavoro avendo riguardo al reale svolgimento dello stesso, a prescindere dal contenuto formale del contratto o della lettera di assunzione; se così fosse, però, la previsione di cui all'art. 7-quinquies, primo comma, lett. a), D.L. n. 193/2016, sarebbe sostanzialmente priva di portata innovativa.

Diversamente, interpretando la norma nel senso di attribuire rilevanza al puro dato formale della eventuale indicazione di una sede di lavoro, si finirebbe per attribuire alle parti del rapporto di lavoro la sostanziale discrezionalità sul regime fiscale e contributivo da applicare alle maggiorazioni retributive connesse a fenomeni di mobilità geografica del lavoratore; circostanza che rappresenterebbe probabilmente un unicum nell'intera legislazione fiscale e previdenziale, come noto fortemente orientata a far emergere la sostanza effettiva dei rapporti rispetto alla loro formale apparenza.

Non è tutto.

Altri e forse più gravi problemi sorgono avendo riguardo al coordinamento del primo e del secondo comma dell'art. 7-quinquies in esame.

Il secondo comma dell'articolo citato prevede che “Ai lavoratori ai quali, a seguito della mancata contestuale esistenza delle condizioni di cui al comma 1, non è applicabile la disposizione di cui al comma 6 dell'articolo 51 del testo unico di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica n. 917/1986 è riconosciuto il trattamento previsto per le indennità di trasferta di cui al comma 5 del medesimo articolo 51”. L'intento di tale norma dovrebbe essere quello di assicurare l'applicabilità del regime previsto per le indennità di trasferta nei casi in cui, non ricorrendo congiuntamente le tre condizioni richieste dal primo comma, non potrebbe essere applicato il regime dei trasfertisti.

Ovviamente, la precondizione per applicare il regime di cui all'art. 51, comma 5, TUIR dovrebbe comunque essere individuata nella configurabilità in concreto di una trasferta del lavoratore che riceve l'indennità, ovvero lo svolgimento da parte di quest'ultimo in via temporanea ed eccezionale e su specifica direttiva del datore di lavoro di una prestazione lavorativa in un luogo diverso dalla propria sede normale di lavoro. Ciò detto, è opportuno chiedersi quale debba essere, alla luce della norma il commento, il regime applicabile all'indennità percepita da un lavoratoretenuto per contratto all'espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi” (per il quale, cioè, non possa essere individuata una sede normale di lavoro e, quindi, non possa essere propriamente configurata una “trasferta” rilevante agli effetti dell'art. 51, comma 5, TUIR) ma che al tempo stesso non rispetti congiuntamente le tre condizioni dettate dall'art. 7-quinquies, primo comma, D.L. n. 193/2016 (ad esempio perché il contratto prevede un'indennità non continuativa ma calcolata sulle giornate di lavoro, oppure perché nel contratto o nella lettera di assunzione è indicata come sede di lavoro la sede del datore).

Nell'ipotesi prospettata non sarebbe certamente applicabile il regime previsto per i trasfertisti, poiché ciò dovrebbe ritenersi precluso proprio dall'art. 7-quinquies in oggetto; ma, non trattandosi di un occasionale e temporaneo allontanamento dalla sede di lavoro normale effettuato a seguito di una specifica direttiva del datore, il fenomeno di mobilità geografica in questione non potrebbe propriamente essere qualificato come una trasferta, con l'effetto che la relativa indennità non potrebbe ricadere nemmeno nell'ambito applicativo dell'art. 51, comma 5, TUIR. Probabilmente in questo caso, trattandosi di un emolumento riconducibile al rapporto di lavoro e non rientrando in nessuno dei casi di esclusione totale o parziale dalla base imponibile fiscale e contributiva, l'indennità dovrebbe essere interamente assoggettata a tassazione ed a contribuzione, non potendo beneficiare né dell'esenzione forfetaria prevista per l'indennità di trasferta né dell'abbattimento nella misura del 50% prevista per l'indennità ai trasfertisti.

Nemmeno questa eventualità sembra essere stata presa in considerazione dal legislatore.

Riferimenti bibliografici

Sulla nozione di “trasfertismo” e sulla distinzione tra tale fattispecie e quella della trasferta:

cfr., F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro, 2

Il rapporto di lavoro subordinato, Padova, 2015, p. 235

A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro II, Il rapporto di lavoro, Padova, 2015

Sul regime reddituale dei rimborsi e delle indennità di trasferta e di trasfertismo:

cfr., F. Crovato, Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001

A. Tocci, commento all'art. 51 TUIR

AA.VV., Commentario al testo unico delle imposte sui redditi, a cura di G. Tinelli, Padova, 2009

A.A. Ferrario, I redditi di lavoro dipendente e assimilati, Milano, 2012

M. Leo, commento all'art. 51 TUIR, in Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2016

Sulla precedente prassi amministrativa e giurisprudenziale in materia e sull'opportunità di una riforma della disciplina:

cfr. A. Pace, Il trattamento fiscale dei trasfertisti, in Boll. trib., 2006

F. Petrucci, Opportunità di revisione del regime fiscale dei trasfertisti, in Corr. trib., 2008

id. Quali prospettive per il regime fiscale delle indennità dei trasfertisti, in Corr. trib., 2012

id., Il regime fiscale dei trasfertisti in attesa di riforma, in Corr. trib., 2013

id. Necessario riformare il regime dei trasfertisti per superare le rigidità della Cassazione, in Corr. trib., 2016

G. Marianetti, Trasferta e trasfertismo nel rapporto di lavoro, in Corr. trib., 2014

Per un commento alla novella del 2016

cfr., G. Marianetti, Delineati i confini (tributari) tra trasferta e trasfertismo, in Corr. trib., 2017

B. Ferroni, Lavoratori in trasferta e trasfertisti: l'opportunità di un intervento di riforma, in Il fisco, 2017

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