Notarella critica sulla voluntary disclosure e le imposte di donazione e successione

14 Dicembre 2015

Secondo un recente modo di pensare la collaborazione volontaria potrebbe divenire luogo in cui si realizzano, tra gli altri, i presupposti per l'imposizione delle c.d. liberalità indirette e delle successioni ereditarie, ancorché non più accertabili per intervenuta decadenza del potere officioso. Il presente studio si propone di confutare siffatta tesi, dimostrando che le vicende sull'imposizione delle donazioni, liberalità indirette e successioni, se da un lato possono essere provocate durante la collaborazione volontaria, con questa non hanno alcuna attinenza e non possono, mai, subordinarne gli esiti.
La collaborazione volontaria: luogo di emersione dei presupposti per l'imponibilità delle donazioni e successioni ereditarie?

Secondo un recente modo di pensare (cfr. in particolare quanto ipotizzato da A. BUSANI, Esame-donazioni per la voluntary, in Il Quotidiano del Fisco 28.07.2015, e Donazioni indirette, al Fisco la scoperta frutta l'8%, ivi 20.08.2015, ove si afferma in maniera espressa che "la tassazione [delle donazioni indirette] parrebbe non essere soggetta a limiti temporali") la collaborazione volontaria potrebbe divenire luogo in cui si realizzano, tra gli altri, i presupposti per l'imposizione delle c.d. liberalità indirette e delle successioni ereditarie, ancorché non più accertabili per intervenuta decadenza del potere officioso.

L'idea è accesa, pare, da un passaggio della Circolare dell'Agenzia 11 agosto 2015, n. 30/E (pp. 6-9) ed è argomentata attraverso gli esiti di interpretazione letterale di leggi diverse. Ma, avanti a tutte, dalle proposizioni normative dell'art. 56-bis e del comma 6 dell'articolo 27 del D.Lgs. n. 346/90.

In particolare, secondo il ragionamento del Busani, il procedimento di cd. collaborazione volontaria introdotto nel D.L. 167/1990 dalla L. 186/2014, sarebbe assimilabile alla “dichiarazione resa dall'interessato nell'ambito di procedimenti diretti all'accertamento di tributi” di cui all'art. 56-bis cit., co. 1, lett. a). Nel ragionamento in rassegna, poi, è la prima delle due norme anzi menzionate che, come si dice, ‘la fa da padrona' e, non senza una certa dose d'insidia, schiude nel procedimento di collaborazione volontaria il varco all'imposizione indiretta e alle sue regole.

Cosa afferma di così peculiare e insidioso?

Per alcuni tipi di liberalità (appunto, quelle indirette) diverse dalle donazioni dirette e da quelle risultanti da atti di donazione effettuati all'estero a favore di residenti, l'art. 56-bis stabilisce che l'accertamento possa essere effettuato esclusivamente in presenza di due condizioni:

  • la prima ha a che fare con il valore del trasferimento patrimoniale (deve essere superiore a una soglia);
  • l'altra con il mezzo di conoscenza con cui il fatto del trasferimento patrimoniale si è mostrato all'amministrazione. Più in particolare l'esistenza delle liberalità – dice il legislatore (alla let. a del primo comma) – deve risultare da dichiarazioni rese dall'interessato nell'ambito di procedimenti diretti all'accertamento di tributi.

Secondo la tesi, in questo luogo sarebbe posta l'insidia e la chiave dell'inferenza: siccome le informazioni fornite all'Agenzia nell'ambito della collaborazione volontaria sono dichiarazioni sopra le quali l'Ufficio esercita il potere d'accertamento, esse equivalgono a quelle descritte dalla norma testé ricordata. Equivalgono cioè a ‘dichiarazioni rese dall'interessato'; e così, se in quella sede ‘confessoria' emergono elementi relativi a liberalità indirette, esse diverrebbero imponibili.

Discorso simile varrebbe per le successioni ereditarie nascoste all'Agenzia da tempo. Ora, poiché l'imponibilità dei presupposti delle imposte segue le regole peculiari della legge che le disciplina e tra queste, nel quadro delle successioni, v'è ne una che prevede l'assoggettamento al tributo a prescindere dalla intervenuta decadenza del potere d'accertamento, la tesi, nel suo punto più estremo, conclude con l'imponibilità pressoché sine die delle successioni ereditarie emerse con la collaborazione volontaria.

Considerazioni critiche preliminari

L'idea esposta, pur pregevole, non persuade. Non persuade in sé e neppure nelle sue parti.

Avanti a tutto occorre ribadire, a gran voce, che la legittimità del procedimento di voluntary disclosure non può essere inficiata da vicende relative a imposte diverse da quelle in relazione alle quali esso è stato concepito. Così come l'imposta di successione e donazione (da questa prospettiva, dunque, non si può condividere quanto affermato da F. SQUERO, Imposta di successione in Vd, ItaliaOggi 11/07/2015, ove giunge a concludere che “per il perfezionamento della procedura [scil. di collaborazione volontaria] si renda necessario dover presentare volontariamente la dichiarazione di successione, assolvendo all'imposta dovuta sempre e comunque”).

Spingersi ad interpretare le parole dell'Amministrazione finanziaria in senso diverso da quanto anzidetto – alludo alla pag. 9 della Circolare della Direzione Centrale Accertamento, 11 agosto 2015, n. 30/E – equivale ad attribuire alle stesse una portata semantica sovversiva della volontà del legislatore e perciò non accettabile.

In evidenza: pag. 9, Circolare 11 agosto 2015, n. 30/E

“Alla luce di quanto sopra rappresentato, si ritiene che il contribuente, ferma restando la possibilità, secondo i principi generali, di regolarizzare la propria posizione, possa altresì fornire informazioni utili all'accertamento delle imposte in questione in sede di procedura di collaborazione volontaria”. Dunque: nulla è posto sotto forma di obbligo; nulla è posto come interruttivo o subordinante la conclusione della procedura di collaborazione volontaria; il luogo del procedimento è esclusivamente l'occasione per la raccolta dell'informazione funzionale ad attivare, eventualmente, altri procedimenti, quelli specificamente previsti per i singoli tributi indiretti. Il contribuente che ha rivelato l'esistenza di una donazione ancora imponibile, in altre parole, ha diritto a concludere la procedura di collaborazione volontaria senza assolvere quel tributo. Questa obbligazione tributaria sarà accertata, assolta o contestata in altro procedimento".

Ancora prima dell'esame degli argomenti giuridici che dimostrano l'assenza di fondamento della tesi illustrata, tuttavia, mi domando cosa induca a innestare nel procedimento di collaborazione volontaria – già piuttosto diradato da colpevoli aree di vaghezza – le incertezze che provengono da altre norme e una in particolare – l'articolo 56-bis cit. – profondamente criticata fin dal principio e quasi inerte all'interno del proprio ambito.

Quale il senso di fornire un approfondimento conoscitivo di una legge utilizzandone altre prive di chiarezza o con evidente e diversa funzione nell'ordinamento positivo rispetto alla funzione della collaborazione volontaria?

La storia di tale disposizione è storia di compromessi, di ipocrisia legislativa non convincente e il suo testo, si consenta, appare piuttosto come un secchio colmo di materiale di riporto. Perché rovesciarlo sopra la legge n. 186?

Dottrina rilevante

LUPI R., “I trasferimenti non formali: dalle scelte rinunciatarie del legislatore del 1973 all'imbarazzo di quello del 2000”, in “L'imposta delle successioni e donazioni tra crisi e riforme” – Collana di Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 2001, 292-300.

L'autore mette in risalto come le liberalità non formalizzate emergano “dal nulla per la prima volta nell'art. 56-bis, con una disposizione che esordisce parlando dell'accertamento di tali liberalità, senza che nessuna disposizione parli della loro dichiarazione”. La scelta precedente del legislatore del 1973 e del 1990 era stata, d'altronde, quella di evitare di avventurarsi sull'insidioso terreno delle liberalità indirette. Preso atto della riforma del 2000, il Lupi osserva comunque attentamente che “i redattori della legislazione si proponevano di evitare una intromissione del fisco nella sfera privata degli interessati”.

Qui appresso si metterà in evidenza la non compatibilità dell'una (le norme della legge n. 186) con l'altra (l'art. 56-bis, D.Lgs. 346/90) e con l'imponibilità sine die dell'imposta di successione (artt. 27, comma 6 e 48, comma 3 del D.Lgs. 346/90). L'innesto o il collegamento proposto dalla tesi in commento, a ben vedere, rigetta in antinomie giuridiche; la natura dei tributi messi in campo, la forma dell'imposizione, i tempi e gli obiettivi del legislatore, osservati più da vicino, ricusano tale amalgama forzata, oltre l'incoerenza degli effetti che da questa si producono o determinano.

Di seguito si mostreranno le ragioni di tale conclusione attraverso l'esame e il confronto dei presupposti delle norme giuridiche su cui si articola l'idea di fondo della tesi.

I fatti rilevanti per l'accertamento della liberalità indiretta

Si vuol ora dimostrare:

a) che dichiarazione e antecedenti da cui risulta l'esistenza della liberalità hanno caratteristiche peculiari e ulteriori rispetto alla narrazione dei fatti in sede di collaborazione volontaria per modo che non è plausibile attribuire alla seconda alcuna automatica efficacia sul piano dell'imposizione;

b) che estendere i termini d'accertamento per tali liberalità è interpretazione priva di argomento e in contrasto con l'impostazione del sistema.

I fatti, l'effetto, le declinazioni

L'applicazione dell'articolo 56-bis presuppone l'avveramento di alcuni fatti:

  • l'esistenza di una liberalità indiretta (come definita nel corpo della disposizione);
  • la dichiarazione dell'esistenza della liberalità indiretta;
  • l'interessato;
  • un procedimento d'accertamento dei tributi;
  • che le liberalità superino una certa soglia di valore.

Quando sussistono questi ‘elementi' allora si determina l'evento voluto dal legislatore (valore giuridico o effetto) e l'amministrazione può assoggettare il presupposto all'imposta.

I fatti illustrati tracciano un ambito giuridico, determinano un'area esclusiva: al di fuori di tale area viene meno la legittimità dell'imposizione della liberalità indiretta. La norma non lascia spazio a dubbi.

Il tenore letterale della norma

Art. 56-bis, co. 1, D.Lgs. 346/1990

“Ferma l'esclusione delle donazioni o liberalità di cui agli articoli 742 e 783 del codice civile, l'accertamento delle liberalità diverse dalle donazioni effettuate all'estero a favore di residenti può essere effettuato esclusivamente in presenza di entrambe le seguenti condizioni: a) quando l'esistenza delle stesse risulti da dichiarazioni rese dall'interessato nell'ambito di procedimenti diretti all'accertamento dei tributi; b) quando le liberalità abbiano determinato, da sole o unitamente a quelle già effettuate nei confronti del medesimo beneficiario, un incremento patrimoniale superiore all'importo di 350 milioni di lire”.

Il principio di legge può essere declinato anche così:

  1. all'interno dell'area delimitata dai fatti non possono entrare incrementi patrimoniali diversi dalle liberalità indirette, ad esempio, donazioni tipiche o successioni;
  2. fatti diversi dalle liberalità indirette devono essere accertati con strumenti diversi dall'art. 56-bis;
  3. l'accertamento di una liberalità indiretta con strumenti diversi dall'art. 56-bis è invalido;
  4. è valido solo se sussistono gli elementi dell'art. 56-bis ulteriori rispetto all'atto della liberalità indiretta (cioè, la dichiarazione etc...).

Già da questa prima disamina generale sulle proposizioni descrittive si comprende la natura specialissima della norma in rassegna, la rigida clausura attorno i presupposti, la fragilità dell'agire su di essa fuori contesto (come capita nella tesi in commento). Ma, più d'altro, la specialità, non può che indurre a interpretarne i presupposti in ragione della propria natura e funzione d'eccezione.

Il primo fatto: l'esistenza di una liberalità indiretta

Il richiamo alle sole liberalità indirette è privo di vaghezza.

Per tutti gli ulteriori atti che hanno per effetto l'incremento patrimoniale del beneficiario – siano essi successioni mortis causa o donazioni tipiche – il D.Lgs. n. 346/90 è denso di regole e prescrizioni. L'intero testo legislativo è dedicato a questi istituti.

Le liberalità indirette, viceversa, sono, come accennato, l'eccezione. Anzi, se si considera la letteratura formata sull'art. 56-bis al suo esordio nell'ordinamento, la scelta di assoggettarle ad imposta è assunta come “un caso” ricolmo di perplessità. Da allora – era l'anno 2000 – le cose non sono mutate. Tuttavia ciò che qui interessa affermare sul presupposto in rassegna, è che il provvedimento generale che lo ospita e il testo dell'articolo particolare sono univoci e coerenti nel ritenere che l'articolo 56-bis sia applicabile alle sole liberalità indirette, senza deroghe.

In particolare, per chi scrive, un trust istituito per pianificare la successione ereditaria non è liberalità indiretta, ossia è un fatto al di fuori dell'area esclusiva anzidetta e in quanto tale non può essere assoggettato a imposta di donazione secondo le regole d'accertamento dell'articolo in commento.

Il secondo fatto: la dichiarazione dell'esistenza della liberalità indiretta

La dichiarazione dell'esistenza della liberalità indiretta è fatto bicipite, rileva due volte: come ‘fatto della conoscenza' e come ‘fatto/tempo della conoscenza'. Ossia:

  • in primo luogo come ‘dichiarazione in sé' per il contenuto conoscitivo e la cagione;
  • la seconda volta rileva come misura del tempo in cui la conoscenza di sé si manifesta al diritto; il fatto, sé medesimo, rileva in quanto, in un dato tempo, appare nel procedimento.

L'effetto giuridico della norma (quindi la legittima applicazione dell'articolo 56-bis) presuppone l'accadimento di entrambi.

La dichiarazione in sé come fatto della conoscenza

Potrà sembrare ovvio ma, avanti a tutto, deve essere una dichiarazione; non, dunque, un dato, non un documento bancario, non il risultato dell'interpretazione di mezzi di prova o elementi raccolti qua e là, ma una dichiarazione – concepita sia per il comportamento dichiarativo che per il contenuto del testo dichiarato - dotata dei propri elementi costitutivi con cui il contribuente afferma e comunica all'Agenzia – pur nel quadro di un procedimento d'accertamento tributario – gli elementi informativi dell'atto di liberalità indiretta.

E quali sono gli elementi informativi?

La causa, le parti, i tempi, gli ammontari trasferiti, etc...

Occorre, insomma, che il dichiarante, oltre gli elementi descrittivi del fatto, esprima volontà e consapevolezza di essere assoggettato alla relativa imposta. Ma vi è di più. Nel materiale conoscitivo offerto all'amministrazione attraverso la dichiarazione, naturalmente, la liberalità indiretta deve mostrarsi nella sua essenza. Mi spiego meglio.

Si immagini l'atto svolgersi mediante la partecipazione di tre soggetti. Il trasferimento delle somme dal soggetto A al soggetto B, il quale dovrà poi provvedere al ritrasferimento al soggetto C, secondo lo schema della liberalità indiretta, deve essere vero e così rappresentato nella dichiarazione: la dinamica del negozio indiretto e i suoi impulsi, l'animus donandi e l'impoverimento corrispondente divengono oggetti che – senza alcuna attività istruttoria – sono capaci di descrivere il fenomeno della liberalità nei tratti meccanici e psichici. Analogamente a come avverrebbe se la registrazione avvenisse per volontà ex comma 3, art. 56-bis cit. Sottacere elementi descrittivi del negozio o della volontà interiore negherebbe, qui e lì i presupposti fattuali della norma.

Quanto sopra esposto varrebbe anche nell'ipotesi in cui lo schema fosse posto in essere mediante una interposizione fittizia, per modo che il soggetto B assolvesse soltanto un ruolo formale, funzionale a nascondere il vero schema negoziale, ossia, una donazione diretta da A a C. Sul punto potrebbe non essere inutile considerare eventuali effetti dell'art. 20 (interpretazione degli atti) del D.P.R. n.131/86 (Registro) che, come noto, stabilisce: “L'imposta si applica secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponde il titolo o la forma apparente”.

La dichiarazione come fatto/tempo della conoscenza

Da questa prospettiva la proposizione normativa tende – come nella tesi in rassegna - a indurre in errore l'operatore: pare esprimere una notevole cifra di vaghezza poiché non indica il termine entro il quale debba apparire la dichiarazione, ossia, gli elementi che qualificano l'atto ai fini dell'accertamento della liberalità indiretta.

In altre parole, al primo colpo d'occhio, si è persuasi che l'Agenzia quando acquisisce conoscenza di una liberalità del tipo in esame, tramite la dichiarazione resa dall'interessato, sia legittimata a ‘tassarla'. Dunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi tempo avvenga la conoscenza del fatto, anche se sono spirati i termini ordinari del controllo (cinque anni).

Può, davvero, essere questo il senso della legge? Può davvero essere stata disposta, così, in modo ‘implicito', una deroga ai principi fondamentali che regolano il potere officioso e gli effetti del decorso del tempo sopra i rapporti giuridici? No.

E sull'attendibilità di tale negazione gli argomenti sono molteplici. Poiché la deroga alla prescrizione del diritto o alla decadenza dell'azione è eccezione nell'ordinamento, là dove essa è stata voluta il legislatore ha provveduto con chiarezza: è il caso, ad esempio, del comma 6 dell'art. 27 del D.lgs n. 346/90 (sul quale dirò più oltre) o dell'art. 43 del D.P.R. n. 600/73. Sull'inaccettabilità del restare assoggettati senza termine all'imposizione fiscale, inoltre, è stabile anche la posizione della migliore giurisprudenza.

In evidenza: la giurisprudenza costituzionale

Sull'argomento si è espressa anche la Consulta con alcune rilevantissime pronunce che hanno avuto riflessi sull'intero sistema tributario. In questa sede basti richiamare Corte Cost., 15 luglio 2005, n. 280, che ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l'art. 25, D.P.R. n. 602/1973, come modificato dal D.Lgs. n. 193/2001, nella parte in cui non prevedeva un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario dovesse notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi dell'art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973.

Cfr. anche Corte Cost., 4 luglio 2013, n. 170, con la quale è stato dichiarato incostituzionale l'art. 23, commi 37, ultimo periodo, e 40, D.L. 6 luglio 2011 n. 98, conv., con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011 n. 111, nella parte in cui estendeva, nell'ambito della procedura fallimentare, il novero dei crediti erariali assistiti dal privilegio anche a quelli sorti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legge medesimo.

La liberalità indiretta, in conclusione, non può essere dedotta da fatti o elementi o dati o qualsiasi altro oggetto conoscitivo che non siano portati da una effettiva dichiarazione di scienza in senso tecnico che mostri: a) la verità; b) il contenuto; c) causa, senza alcuno sforzo – da parte dell'Agenzia - per l'interpretazione dei fatti (istruttoria); la stessa, inoltre, può intervenire in qualsiasi tempo ma d) nel quadro del termine stabilito per la decadenza del potere d'accertamento officioso stabilito per l'accertamento dell'imposta di donazione.

Estendere il periodo oltre i cinque anni previsti dalla legge non solo è atto ermeneutico che si allontana – senza argomento - dal dato della lettera della legge ma, in aggiunta, si pone in contrasto con i principi fondamentali che ispirano le regole sugli effetti del tempo in relazione ai rapporti giuridici.

Rimosso il limite temporale, il tributo si affaccia sull'eternità: siamo davvero pronti a una fiscalità dell'anima?

L'interessato, il procedimento d'accertamento dei tributi, le liberalità oltre soglia

Questi gli ulteriori ‘pezzi'. Ma solo il primo e il secondo, tra essi, meritano qualche breve considerazione.

La legge prevede sia il soggetto ‘interessato' a rendere la dichiarazione dalla quale attingere - senza equivoco - i fatti costitutivi della liberalità indiretta. Bene. Ma chi è l'interessato che rende la dichiarazione fonte di conoscenza? L'idea che più convince per ragionevolezza e che l'interessato sia chi, nel corpo del procedimento d'accertamento, abbia interesse a fare valere la liberalità indiretta.

Ma chi ha interesse a far valere la liberalità indiretta? Certamente chi l'ha ricevuta (il soggetto passivo), il beneficiario. E per quale motivo avrebbe interesse? Ad esempio, per giustificare l'incremento patrimoniale scoperto dall'Amministrazione nel contesto dell'accertamento avviato e dimostrare che, appunto, esso non costituisce reddito. La veduta proposta, dunque, spinge a far coincidere l'interessato della legge al beneficiario della liberalità. Sicché l'interesse di colui che dichiara ha radice e causa nella prova della non imponibilità dei beni ricevuti.

Da qui una considerazione ulteriore che va a integrare le osservazioni sulla dichiarazione già delineate al punto precedente: se l'interessato è il beneficiario della liberalità ed egli ha interesse a farla valere per non essere assoggettato all'imposta diretta, allora, la dichiarazione, da cui emerge l'incremento patrimoniale, deve possedere questa speciale cagione: ossia deve essere diretta a fare valere la liberalità patrimoniale in contrapposizione alla ipotesi reddituale (G. GAFFURI, L'imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 147).

Per converso, una dichiarazione con i tratti della dazione liberale ma tuttavia consegnata per fini diversi, deve essere collocata al di fuori del perimetro fattuale rilevante dell'art. 56-bis.

Il comma 6 dell'art. 27, D.Lgs. n. 346/90

Il sesto comma dell'articolo 27 è presente nella legge sulle successioni da molto tempo. In genere lo si ricorda per due motivi, e cioè perché:

  • disciplina una eccezionale deroga alla decadenza del potere officioso;
  • ha avuto una applicazione limitatissima e circoscritta.

La tesi in commento, come detto, lo porta alla ribalta, piuttosto frettolosamente.

L'imposta di successione – dice il legislatore del comma 6 “è dovuta anche se la dichiarazione è presentata oltre il termine di decadenza stabilito nel comma 4; in questo caso le disposizioni del ci commi 2, 3, e 5 si applicano con riferimento a tale dichiarazione”.

E' chiaro, dunque, che la norma assuma come proprio antecedente la presentazione di una dichiarazione; e anche qui, come altrove, occorre domandarsi: ma che tipo di dichiarazione deve essere presentata? Una dichiarazione che contenga tutti gli elementi di validità della dichiarazione successoria e non già qualcosa di diverso (a sostegno di tale assunto si pone, nondimeno, anche la giurisprudenza della Suprema Corte: “il sistema delineato dalla legge può essere citato il D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 27 e 28, ma analoghe disposizioni si rinvengono anche nei testi legislativi antecedenti è nel senso di collegare l'insorgenza dell'obbligazione tributaria alla presentazione della denuncia di successione relativa a beni ereditari di cui il denunciante sostenga essere divenuto titolare, salvo specifiche eccezioni […] che in ogni caso devono essere normativamente espresse”, così Cass. civ., sez. trib., n. 3964/2011).

E perché occorre una dichiarazione proprio di questo tipo? Perché non è plausibile una diversa dichiarazione di scienza dalla quale si possa dedurre, indirettamente quindi, l'esistenza dell'attivo ereditario? In aiuto alla risposta – oltre ai consueti canoni ermeneutici – si fa avanti una risalente risposta del Ministero delle Finanze, a tutt'oggi considerata attuale dai commentatori e perciò anche da chi scrive. E' la risoluzione del 10 settembre 1976 n. 271579 del Ministero delle Finanze.

In evidenza: Ministero delle Finanze, Risoluzione 10 settembre 1976, n. 271579

“… A nulla rileva, infatti, la obiezione di parte intesa a puntualizzare il motivo ultimo che ha originato la presentazione della dichiarazione, il conseguimento, cioè, della volturazione dei cespiti a suo tempo non denunziati, in quanto tali effetti potevano essere parimenti ottenuti presso l'ufficio tecnico competente previa corresponsione dei soli tributi relativi alla voltura catastale, senza per questo presentare alcuna denunzia di successione, la cui spontanea presentazione concretizza una sostanziale rinunzia alla prescrizione intervenuta”.

Questa precisa che la grave deroga ai principi fondamentali sulla prescrizione è tollerata dal sistema perché si considera che chi presenta a ‘termini spirati' la dichiarazione successoria abbia implicitamente rinunciato agli effetti della prescrizione. Ora, al di là della condivisibilità dell'affermazione sul punto della possibilità di rinunciare agli effetti della prescrizione (o della decadenza), la risoluzione è ben chiara: l'imposizione rivive se v'è una evidente rinuncia da parte dell'erede che presenta la dichiarazione di successione agli effetti della decadenza del potere officioso d'accertamento. Sicché, fuori da questa volontà rinunciataria conclamata, non v'è spazio di vita per l'imposta.

Non v'è legittimità.

L'idea dell'eternità dell'imposizione è corroborata dal richiamo dell'art. 48, co. 3, D. Lgs. 346/90. Ecco, per semplicità, cosa prescrive: “I debitori del defunto ed i detentori di beni che gli appartenevano non possono pagare le somme dovute o consegnare i beni detenuti agli eredi, ai legatari e ai loro aventi causa, se non è stata fornita la prova della presentazione, anche dopo il termine di cinque anni di cui all'art. 27, comma 4, della dichiarazione della successione o integrativa con l'indicazione dei crediti e dei beni suddetti, o dell'intervenuto accertamento in rettifica o d'ufficio, e non è stato dichiarato per iscritto dall'interessato che non vi era obbligo di presentare la dichiarazione”. Per chi scrive, l'applicazione della disposizione è così circoscritta e residuale che diventa difficile utilizzarla come argumentum. Per lo più il suo utilizzo appare storicamente legato a vicende di volturazione di immobili non ancora – comunque – usucapiti.

Con particolare riferimento alle problematica della durata dell'obbligo di presentazione della denuncia di successione, in relazione al disposto dell'art. 48 T.U. commi 2 e 3, non si può fare a meno di richiamare gli studi del CNN nn. 49/99/T e 116-2006/T, entrambi ad opera di Marilena Cantamessa. In essi, pur vagliate le tesi favorevoli alla “perpetuità all'infinito di un obbligo fiscale relativo a fatti remoti”, l'autrice, in maniera condivisibile, non si esime dall'affermare che “ragionevolmente, è lecito osservare come la durata di un divieto, imposto dalla norma fiscale, non possa protrarsi all'infinito; ed egualmente, il diritto all'adempimento di un ʻobbligoʼ, ai fini fiscali, non possa persistere alla prescrizione, quantomeno a quella decennale”

In conclusione

A conclusione delle presenti riflessioni, si vuol ora ribadire che:

  • il procedimento di collaborazione volontaria non è procedimento di accertamento di tributi siccome stabilito dall'art. 56-bis: la sua estensione, dunque, è priva di fondamento;
  • le vicende sull'imposizione delle donazioni, liberalità indirette e successioni, se da un lato possono essere provocate durante la collaborazione volontaria, con questa non hanno alcuna attinenza e non possono, mai, subordinarne gli esiti;
  • le dichiarazioni rese in sede di collaborazione volontaria e le dichiarazioni rilevanti ai sensi dell'art. 56-bis e art. 27, co. 6, D.Lgs n. 346/90 non sono equiparabili: quelle relative all'imposizione indiretta hanno peculiarità insostituibili, in ispecie, il comma 6 presuppone una (a) denuncia di successione oppure (b) una esplicita rinuncia agli effetti della prescrizione; (iv) le deroghe al termine quinquennale d'accertamento previsto per l'imposizione di donazioni e successione sono in concreto inattuabili nel contesto della collaborazione volontaria.

Giovi ricordare, una volta di più, la tesi in commento: la dichiarazione sull'esistenza di una liberalità indiretta o su masse patrimoniali acquisite per successione ereditaria durante il procedimento di collaborazione volontaria, in ragione dell'art. 56-bis e del comma 6 dell'art. 27 del D.lgs n. 346/90, ne legittimerebbe il prelievo fiscale anche laddove fosse venuto meno il potere officioso di rettifica per quel tributo.

Ora. Quanto illustrato nei punti che precedono ha permesso di mettere in evidenza i fatti giuridici (o classi di) delle norme al centro della tesi (ed i loro sub elementi). Questi appaiono rigidi e strettamente legati allo speciale effetto che devono produrre nel proprio settore dell'ordinamento tributario (l'imposta sulle successioni e donazioni). E' da tale angolazione che si comprende la necessità di conoscerli nelle loro parti essenziali. Ed è da proprio da questa prospettiva – cioè, dal loro interno – che si coglie la netta incompatibilità tra il procedimento di collaborazione volontaria, la dichiarazione che qui viene resa e le dichiarazioni e i procedimenti a cui rinvia il legislatore nelle situazioni giuridiche considerate dalla tesi. Il divario di funzioni tra gli istituti, da questo punto di vista, si fa appariscente.

Il materiale fattuale nelle forme con cui si riversa nel procedimento di collaborazione volontaria non ha le caratteristiche salienti stabilite dall'art. 56-bis né dal sesto comma dell'art. 27:

  • perché non si riversa in un procedimento d'accertamento di tributi (come presupposto dall'art. 56-bis);
  • perché non si riversa in una dichiarazione secondo entrambe le norme in rassegna: non ha quella portata semantica;
  • la causa, poi, è estranea al loro programma.

Occorre ricordare, invero, che l'opzione premiale di cui alla legge n. 186/2015:

  • è eccezionale;
  • è esistente sino al 30 novembre 2015.

Identificare automaticamente - come accade nella tesi - “i procedimenti d'accertamento dei tributi'" con il procedimento d'accertamento del fatto in sede di collaborazione volontaria, anche solo per questo motivo, è un errore, già di per sé sufficiente ad abbandonarla o quanto meno a pretendere da essa uno sforzo interpretativo ulteriore. Le differenze rispetto all'accertamento ordinario, per contro, sono vistose (forma, innesco, istruttoria, conseguenze etc.) e non è questa la sede per rievocarle.

Ma torniamo al punto della dichiarazione. Ciò che viene ‘sostanzialmente confessato' dal contribuente è sempre ed esclusivamente funzionale all'adempimento dell'imposizione diretta e dell'IVA: per tutti gli altri tributi – salvo l'esistenza del fatto generatore e di una richiesta esplicita – manca tale volontà confessoria, elemento essenziale della dichiarazione pretesa dalle due norma su cui è assisa la tesi (la dichiarazione ex art. 56-bis e la dichiarazione ex comma 6 dell'art. 27).

Sul punto anche il terzo comma dell'articolo 56-bis è davvero eloquente: “Le liberalità indirette … possono essere registrate volontariamente …”. Oltre quanto anzidetto in tema di dichiarazione e reddito, la proposizione testé emarginata la ‘dice lunga': il peculiare tipo di ‘donazione' in parola è registrata volontariamente (dunque non obbligatoriamente) oppure è accertata ex comma 1. Bene: come è possibile che esse siano considerate automaticamente accertabili – se non v'è volontà esplicita dell'interessato – in un procedimento che si asside su presupposti confessori (dunque volontari) e che neppure è da considerare ‘accertamento' secondo lo schema ordinario?

Sicché se da un lato mai la verifica sull'adempimento di un obbligo tributario diverso da quelli concepiti nel programma premiale (come per l'imposta di donazione o successione) potrà inficiare la validità o anche solo interrompere il processo di formazione degli atti (l'avviso d'accertamento o irrogazione delle sanzioni), così, da un ‘altro, se il contribuente non confesserà e manifesterà esplicitamente di farsi assoggettare ad una imposta diversa, mancherà sempre quell'elemento essenziale nella ‘dichiarazione' che consentirebbe di attivare meccanicamente (dunque senza istruttoria) l'accertamento della liberalità indiretta o dell'imposta di successione. Sempreché, s'intende, questa circostanza di estensione inequivocabile della confessione di altri inadempimenti fiscali avvenga: a) con la consapevolezza del contribuente di farsi assoggettare a quella imposta; b) che vi siano i presupposti (più sopra illustrati); c) che avvenga nei termini per l'esercizio dei poteri officiosi, tranne il caso in cui, in materia successoria, il collaboratore volontario presenti la dichiarazione di successione oppure faccia espressa richiesta di rinuncia alla prescrizione.

Senza tali elementi la dichiarazione (fatto) sarà sempre priva degli enti coessenziali alla propria capacità di cagionare l'evento voluto dal legislatore. O meglio. Senza questi elementi – e concepirne la loro presenza significa, di fatto, svuotare la tesi in commento - non sarebbe plausibile individuare nel procedimento di collaborazione volontaria il luogo da cui possa fuoriuscire il presupposto per l'imposizione della liberalità indiretta o della successione.

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