La riforma della riscossione introdotta, di recente, dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159, presenta, quale tratto distintivo, la maggiore apertura concessa dal legislatore verso forme di maggiore facilitazione nei pagamenti fiscali; si pensi all'aumento del numero delle rate concedibili a seguito di avvisi bonari ovvero in presenza di atti di adesione, all'introduzione della fattispecie del lieve inadempimento sia nel quantum che nella durata ovvero, ancora, al riconoscimento del beneficio della riduzione delle sanzioni anche in caso di autotutela parziale.Il decreto, tuttavia, interviene anche su aspetti apparentemente non collegati, in modo diretto, alla materia della riscossione e che presentano profili di sicuro interesse, anche nell'ottica contenziosa: si pensi alla non impugnabilità del diniego parziale di autotutela, ovvero all'utilizzo esclusivo della modalità di notifica a mezzo posta elettronica certificata, a decorrere dal 1 giugno 2016, per le cartelle di pagamento emesse nei confronti delle imprese e dei professionisti.
La nozione di lieve inadempimento
Una prima importante novità è rappresentata dall'introduzione, per la prima volta nell'ordinamento, della fattispecie del lieve inadempimento nel pagamento dei tributi, che fa salvi i piani di rateazione degli avvisi bonari e delle somme dovute a seguito di adesione, evitando, in tal modo, la decadenza dal beneficio della dilazione.
È quanto previsto dal terzo comma del nuovo art. 15-ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, il quale, testualmente recita: “È esclusa la decadenza in caso di lieve inadempimento dovuto a:
a) insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3 per cento e, in ogni caso, a diecimila euro;
b) tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni”.
Quello del lieve inadempimento, tuttavia, benchè codificato per la prima volta solo con il decreto di riforma non costituisce un argomento totalmente nuovo alla materia fiscale, lato sensu considerata.
Con circolare 28 giugno 2001, n. 65, infatti, la stessa Agenzia delle Entrate, avuto riguardo proprio all'accertamento con adesione, aveva già ammonito i propri Uffici periferici rispetto al fatto che “in presenza di anomalie di minore entità (ad esempio, lieve carenza e tardività dei versamenti eseguiti, ovvero tardività nella prestazione della garanzia), nonchè in presenza di valide giustificazioni offerte dal contribuente nei casi di più marcata gravità come sopra richiamati, l'Ufficio può valutare il permanere o meno del concreto ed attuale interesse pubblico al perfezionamento dell'adesione e quindi alla produzione degli effetti giuridici dell'atto sottoscritto. Tale valutazione, fondata sul principio di conservazione degli atti amministrativi, deve essere esercitata su elementi di riscontro oggettivi ed avendo preminente riguardo ai termini di decadenza dell'azione accertatrice, in relazione ai tempi tecnici occorrenti alle attività da porre in essere per l'eventuale perfezionamento dell'adesione”.
Come si vede, dunque, era già stata l'Agenzia delle Entrate a manifestare la propria volontà di salvaguardare gli effetti dei procedimenti di adesione per i quali si fossero registrate lievi anomalie, sia nell'ammontare che nella periodicità dei versamenti, che, pertanto, risultassero, a proprio giudizio, meritevoli di tutela.
Anche la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, dal canto suo, aveva ammesso la scusabilità dell'errore lieve, questa volta con specifico riferimento al termine di produzione dei documenti richiesti con un questionario. La Corte, in particolare, aveva chiarito che “il legislatore, lungi dallo stabilire una sorta di automatismo, ha graduato le conseguenze in relazione al tipo di inadempimento del contribuente all'invito a produrre documenti e/o risposte a questionari, mettendo il solo totale inadempimento sullo stesso piano delle altre ipotesi previste dall'art. 39, co. 2, D.P.R. n. 600 del 1973, le quali tutte legittimano il ricorso al metodo induttivo in quanto, proprio nella loro gravità e specificità, sono caratterizzate dal fatto di impedire all'Amministrazione di eseguire un accertamento analitico. Ne consegue che il mero leggero ritardo da parte del contribuente nell'eseguire quanto richiestogli dall'ufficio con la concessione del termine minimo (come nel caso in esame nel quale l'invito alla produzione è stato notificato il 24 novembre 2003 e la relativa esecuzione è del 5 gennaio 2004), non può essere equiparata alle più gravi ipotesi previste e disciplinate dal legislatore nell'art. 39, co. 2, D.P.R. n. 600 del 1973, soprattutto quando come nel caso di specie, l'invito alla produzione dei documenti era stato preceduto da altri due inviti regolarmente evasi. Può dunque affermarsi il seguente principio di diritto: il solo non grave ritardo da parte del contribuente nel riscontro ad una richiesta di documenti da parte dell'ufficio, accompagnata dalla concessione del termine minimo di gg. 15, specie se già preceduta da altre richieste regolarmente evase, non legittima il ricorso al metodo di accertamento induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2” (Cass. civ., sez. trib., 6 ottobre 2011, n. 20461).
Visto in quest'ottica, pertanto, l'intervento del legislatore ha in un certo senso recepito, a livello normativo, un concetto che appariva già insito nell'ordinamento e che, sulla spinta del periodo di crisi e probabilmente nell'ottica garantistica delineata dalle disposizioni dello Statuto del Contribuente, è stato inevitabilmente attratto nell'alveo della riforma, con il chiaro intento di agevolare i contribuenti in difficoltà con l'adempimento fiscale.
L'ottica garantistica, peraltro, sembra avere ispirato anche i riflessi sanzionatori del lieve inadempimento, con riferimento al quale l'irrogazione della penalità appare in linea con la buona fede tutelata dall'art. 10 dello Statuto del Contribuente; se è vero, infatti, che il versamento insufficiente non può restare immune da sanzione (finendo, diversamente, per provocare una inammissibile disparità di trattamento rispetto a coloro che l'adempimento lo hanno rispettato), è altrettanto vero che il legislatore della riforma ha applicato una sanzione – per così dire – mitigata, avendola commisurata al solo importo non pagato e non, dunque, all'intero, come, talvolta, in passato era accaduto.
Inquadrata in quest'ottica più ampia, dunque, la nozione di lieve inadempimento integra sostanzialmente quella di errore scusabile, concetto peraltro non nuovo nel panorama della legislazione fiscale (si pensi, a titolo di esempio, all'art. 16 della Legge 27 dicembre 2002, n. 289 in materia di chiusura di liti fiscali pendenti, il quale, espressamente, prevedeva che “in caso di pagamento in misura inferiore a quella dovuta, qualora sia riconosciuta la scusabilità dell'errore, è consentita la regolarizzazione del pagamento medesimo”).
La nuova fattispecie, in definitiva, si inserisce nel solco dei provvedimenti, anche recenti, finalizzati a sanare le irregolarità più lievi, in modo da consentire ai contribuenti comunque virtuosi di non perdere i benefici fiscali già ottenuti.
Le novità in materia di autotutela a confronto con la giurisprudenza della Cassazione
L'art. 11 del decreto di riforma interviene anche sul tema dell'autotutela, argomento quantomai attuale e dibattuto.
In particolare, la norma prevede che “nei casi di annullamento o revoca parziali dell'atto il contribuente può avvalersi degli istituti di definizione agevolata delle sanzioni previsti per l'atto oggetto di annullamento o revoca alle medesime condizioni esistenti alla data di notifica dell'atto purchè rinunci al ricorso” e, inoltre, che “l'annullamento o la revoca parziali non sono impugnabili autonomamente".
Quanto al primo profilo, la novella normativa ha condivisibilmente esteso anche alle ipotesi dell'autotutela parziale la possibilità di usufruire della riduzione a un sesto delle sanzioni, ponendo tuttavia un limite, rappresentato dalla rinuncia al giudizio da parte del contribuente e, con essa, alla eventuale vittoria delle spese processuali. Appare invece più problematica la norma che stabilisce la non impugnabilità dell'atto di autotutela parziale e ciò non solo per i limiti insiti in qualsivoglia disposizione con cui si intenda comprimere il diritto di difesa (si pensi alle alterne vicende che, nel passato anche recente, hanno caratterizzato la questione dell'impugnabilità del diniego all'interpello disapplicativo), ma anche perché, proprio di recente, la Suprema Corte è pervenuta alla conclusione diametralmente opposta.
Infatti, come si è avuto modo di evidenziare proprio sulle “pagine” de “Il Tributario” (“Impugnabilità del diniego di autotutela: la Cassazione non fa ancora chiarezza”, Giurisprudenza commentata del 28 Settembre 2015), con sentenza 8 luglio 2015, n. 14243 la Cassazione ha avuto modo di precisare che “l'esercizio del potere di autotutela in materia tributaria attraverso l'annullamento parziale di un avviso impositivo, non preclude al contribuente, ancorchè l'originario provvedimento fosse già definitivo, la possibilità di impugnare, nei termini di legge, il provvedimento emesso in autotutela, privandosi altrimenti il contribuente della possibilità di difesa relativamente a tale atto, ancorchè riduttivo della originaria pretesa. L'elencazione degli atti impugnabili davanti al giudice tributario, di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non esclude, inoltre l'impugnabilità di atti non compresi in tale novero ma contenenti la manifestazione di una compiuta e definita pretesa Tributaria, come nel caso di provvedimento in autotutela (Cass. civ., sez. trib., 8 ottobre 2007, n. 21045)”.
La Corte, dunque, muovendosi, addirittura, sul terreno ben più insidioso rappresentato dall'esperibilità del rimedio dell'autotutela in presenza di un atto divenuto definitivo, si è indirizzata nella direzione opposta a quella intrapresa dal legislatore della riforma, riconoscendo la piena impugnabilità del diniego di autotutela.
Appare per questo inevitabile il sorgere, nel futuro prossimo, di un contenzioso anche sull'impugnabilità del diniego parziale di autotutela, nonostante la novella contenuta nel decreto di riforma l'abbia espressamente esclusa.
La notifica a mezzo p.e.c. nei confronti di imprese e professionisti e l'ipotesi della “irreperibilità relativa”
Altra importante novità introdotta dal decreto di riforma è quella rappresentata dalla notifica obbligatoria, a mezzo posta elettronica certificata (p.e.c.), delle cartelle di pagamento destinate alle imprese e ai professionisti, procedimento che diventerà obbligatorio a decorrere dal 1° giugno 2016.
A prevederlo è il novellato secondo comma dell'art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, il quale dispone che "la notifica della cartella può essere eseguita, con le modalità di cui al D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata, all'indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti dalla legge. Nel caso di imprese individuali o costituite in forma societaria, nonché di professionisti iscritti in albi o elenchi, la notifica avviene esclusivamente con tali modalità, all'indirizzo risultante dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC)”.
La lettura della nuova disposizione, poi, conduce ad un facile parallelismo con l'ipotesi della “irreperibilità relativa” prevista dall'art. 140 del c.p.c., ove ci si trovi in presenza di una notifica a mezzo p.e.c. non andata a buon fine.
Infatti, prosegue la norma, “se l'indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido e attivo, la notificazione deve eseguirsi, mediante deposito dell'atto presso gli uffici della Camera di Commercio competente per territorio e pubblicazione del relativo avviso sul sito informatico della medesima, dandone notizia allo stesso destinatario per raccomandata con avviso di ricevimento, senza ulteriori adempimenti a carico dell'agente della riscossione. Analogamente si procede, quando la casella di posta elettronica risulta satura anche dopo un secondo tentativo di notifica, da effettuarsi decorsi almeno quindici giorni dal primo invio.” Ad essere richiamato alla mente, dunque, è l'art. 140 del codice di rito rispetto al quale il testo del nuovo articolo 26 rappresenta, sostanzialmente, l'evoluzione, dal momento che la disposizione codicistica prevede, appunto, che “Se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell'articolo precedente, l'ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario, e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”.
In conclusione
A decorrere dal 1° giugno 2016, dunque, in caso di notifiche (di cartelle di pagamento) non andate a buon fine, indirizzate alle imprese e ai professionisti, l'iter obbligatoriamente da seguire sarà, di fatto, quello già previsto per l'ipotesi della “irreperibilità relativa” e, dunque:
il deposito dell'atto presso la Camera di Commercio competente per territorio (in luogo della casa comunale),
la pubblicazione dell'avviso di deposito sul sito internet della Camera di Commercio (in luogo dell'affissione alla porta dell'abitazione o dell'ufficio o dell'azienda del destinatario) e, infine,
l'invio della raccomandata con avviso di ricevimento con cui si dà notizia di quanto avvenuto (quest'ultimo adempimento identico a quello previsto dal codice di procedura civile).
È da ritenersi, pertanto, che, così coma già accade nell'ipotesi “tradizionale” della “irreperibilità relativa”, anche nella fattispecie prevista dalla nuova norma la notifica si perfezionerà solo all'atto del ritiro, da parte del contribuente, dell'atto depositato presso la Camera di Commercio, ovvero all'atto del ricevimento della raccomandata informativa, se precedente; nel caso, poi, di mancato ritiro dell'atto presso la Camera di Commercio, ovvero di mancato ricevimento della raccomandata, la notifica si intenderà perfezionata decorsi dieci giorni dalla data di spedizione di quest'ultima (Corte Costituzionale, sentenza 14 gennaio 2010, n. 3).
Anche in questa ipotesi, dunque, il mancato rispetto degli adempimenti previsti impedirà il perfezionamento dell'iter notificatorio, il che non potrà che comportare l'inesistenza stessa della notifica e, con essa, la nullità insanabile della cartella di pagamento, notificata infruttousamente a mezzo p.e.c.
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Sommario
Le novità in materia di autotutela a confronto con la giurisprudenza della Cassazione
La notifica a mezzo p.e.c. nei confronti di imprese e professionisti e l'ipotesi della “irreperibilità relativa”