La natura integrativa dei poteri istruttori del Giudice tributario

Ignazio Gennaro
03 Dicembre 2015

I poteri istruttori delle Commissioni tributarie esercitabili attraverso la richiesta di dati, informazioni, elementi conoscitivi o consulenze, possono integrare ma non sostituire l'attività probatoria delle parti processuali.L'articolo propone una rapida panoramica sui poteri istruttori attribuiti alle Commissioni tributarie, sia nel vecchio rito disciplinato dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 che nel nuovo processo tributario disciplinato dal D.lgs. n. 546/1992, attraverso un excursus della giurisprudenza della Consulta e della Corte di Cassazione ed un esame analitico di ciascun mezzo di prova ammesso.
I poteri istruttori delle Commissioni Tributarie nel vecchio rito (D.P.R. n. 636/1972)

Nella vigenza del vecchio rito tributario, disciplinato dal D.P.R. n. 636/1972, i poteri istruttori delle Commissioni tributarie erano regolati dall'art. 35 il quale prevedeva che le commissioni tributarie, al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione, erano dotate di tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari dalle singole leggi di imposta.

Il collegio poteva delegare l'esecuzione di tali adempimenti istruttori ad uno dei suoi componenti che vi procedeva con l'assistenza del segretario. Le parti dovevano essere tempestivamente avvertite e potevano intervenire per fare constatare a verbale le loro richieste e deduzioni.

Quando fosse stato necessario acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità la commissione tributaria poteva richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell'Amministrazione dello Stato e la collaborazione del Corpo della Guardia di finanza.

Del deposito della relazione doveva essere data comunicazione alle parti.

Il ricorrente, le altre parti intervenute o chiamate nel giudizio potevano chiedere al presidente, entro i trenta giorni successivi a tale comunicazione, la fissazione di un termine per presentare una relazione sottoscritta da un professionista o da un esperto.

La parte che vi avesse avuto interesse poteva chiedere la nomina di un consulente tecnico d'ufficio assumendosene il relativo onere economico.

Non erano ammessi né il giuramento né la prova testimoniale.

Gli adempimenti istruttori venivano disposti con ordinanza motivata che non poteva essere impugnata separatamente dalla decisione.

I poteri istruttori nel nuovo processo tributario (D.Lgs. n. 546/1992)

All'entrata in vigore del nuovo processo tributario, introdotto dal Decreto legislativo n. 546/1992, l'art. 71 del nuovo rito ha abrogato il citato art. 35 del D.P.R. n. 636 a far data dall'insediamento delle Commissioni tributarie provinciali e regionali.

Da quel momento i poteri istruttori delle Commissioni tributarie sono esercitati esclusivamente in applicazione del citato art. 7.

Nel testo (originariamente) introdotto dal nuovo rito del 1992, l'art. 7 risultava composto da cinque commi:

1. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari e all'ente locale da ciascuna legge d'imposta.

2. Le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell'Amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre di consulenza tecnica. I compensi spettanti ai consulenti tecnici non possono eccedere quelli previsti dalla Legge 8 luglio 1980, n. 319 e successive modifiche ed integrazioni.

3. È sempre data alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia.

4. Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.

5. Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all'oggetto dedotto in giudizio, salva l'eventuale impugnazione nella diversa sede competente.

I poteri istruttori d'ufficio attribuiti alle commissioni tributarie dal comma 3) del citato art. 7, tra cui la facoltà di ordinare il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia costituivano una norma eccezionale che non poteva essere utilizzata come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie delle parti dal momento che il giudice tributario non era tenuto ad acquisire d'ufficio le prove a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio salvo che fosse impossibile o sommamente difficile esercitarlo. (Cass. civ., sez. trib., 11 gennaio 2006, n. 366).

L'abrogazione del comma 3) dell'art. 7 - il ridimensionamento dei poteri istruttori

I poteri istruttori, nella loro portata originaria, sono stati successivamente “ridimensionati” a seguito dell'abrogazione del comma 3) dell' art. 7 in parola avvenuta ad opera dell'art. 3-bis D.L. 30 settembre 2005 n. 203 convertito nella lLegge 2 dicembre 2005 n. 248 il quale ha eliminato la ”… facoltà di ordinare sempre alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”.

I poteri istruttori attribuiti alle commissioni tributarie dall'abrogato comma 3) dell'art. 7 del D. lgs. n. 546/1992 (nella vigenza della norma) avevano valore “integrativo” e non “esonerativo” dell'onere della prova (Cass. civ., sez. trib., 16 maggio 2005, n. 10267): potevano, quindi, essere esercitati solo per sopperire alla impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte e non in caso di mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato.

Tale abrogazione non ha comunque inciso radicalmente nei poteri di indagine del Giudice: la Suprema Corte di Cassazione, pronunciandosi poco dopo l'eliminazione del citato comma 3), ha infatti affermato che nel processo tributario il Giudice dispone di ampi poteri istruttori e di indagine conferitigli dall'art. 7 D.lgs. n. 546/1992, ed ha ritenuto che l'avvenuta abrogazione del comma 3) di tale articolo non abbia comunque inciso sulla "connotazione" della giurisdizione tributaria (Cass. civ., sez. trib., 13 settembre 2006, n. 19593).

L'intervento della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, sollecitata a pronunciarsi dalla Commissione tributaria provinciale di Novara (sent. 26 maggio 2006, in G.U., I sr. speciale, n. 43 del 2006) ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale riguardante l'abrogazione del comma 3) sollevata per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

La Consulta ha motivato la propria sentenza affermando che la “ratio” di tale abrogazione va ricercata nella rilevanza pubblicistica dell'obbligazione tributaria la quale pur se giustifica i penetranti poteri che la legge attribuisce all'Amministrazione nel corso del procedimento tributario non può consentire che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale contaminando l'essenza stessa del ruolo di terzietà del giudice attribuendogli poteri officiosi potenzialmente idonei a risolversi in una vera e propria supplenza dell'Amministrazione.

Ad avviso della Consulta è quindi in tale ottica che si colloca l'abrogazione dell'art. 7 co. 3) D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, che conferiva al giudice tributario il potere di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia (Corte Costituzionale, 29 marzo 2007, n. 109).

Nel vigore della norma abrogata il Giudice tributario poteva esercitare in qualunque fase del giudizio di merito (“…è sempre data alle commissioni tributarie facoltà…) il potere istruttorio anche attraverso ordinanza di esibizione di un documento utile ai fini della decisione.

La Consulta, con la citata sentenza, ha inoltre ritenuto che “…in forza del principio dell'applicabilità al processo tributario, in quanto compatibili, delle norme del codice di procedura civile, il giudice tributario può sia ordinare la produzione di documenti a norma dell'art. 210 c.p.c., non soltanto alle parti, ma anche ai terzi, sia chiedere informazioni o documenti ai sensi dell'art. 213 c.p.c. alle pubbliche amministrazioni diverse da quella che è parte del giudizio davanti a lui pendente”.

La natura “integrativa” dei poteri istruttori

Il giudice, attraverso l'acquisizione di documenti o di prove ex art. 7 D.lgs. n. 546/1992, non può sopperire all'onere probatorio delle parti, ma solo integrare gli elementi forniti dalle medesime.

L'attribuzione dei poteri di disporre l'acquisizione d'ufficio di mezzi di prova, deve quindi essere letto alla luce del principio di terzietà sancito dall'art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori: tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un'obiettiva situazione di incertezza al fine d'integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia. (Cass. civ., sez. trib., 17 novembre 2006, n. 24464; Cass. civ., sez. trib. 9 giugno 2009, n. 13201).

Il processo tributario, infatti, è un giudizio a cognizione piena e tende all'accertamento sostanziale del rapporto controverso con la conseguenza che solo quando l'atto di accertamento sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l'identificazione dei presupposti impositivi e precludere l'esame del merito del rapporto tributario — come nel caso in cui vi sia difetto assoluto o totale carenza di motivazione — il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, ostandovi altrimenti il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice di avvalersi dei propri poteri valutativi ed estimativi ai fini della decisione e, in forza dei poteri istruttori attribuiti dall'art. 7 D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, di acquisire aliunde i relativi elementi, prescindendo dagli accertamenti dell'Ufficio e sostituendo la propria valutazione a quella operata dallo stesso (Cass. civ., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11935).

Essendo il processo tributario un giudizio di impugnazione dell'atto, il principio secondo il quale le ragioni poste a base dell'atto impositivo segnano i confini del processo tributario non esclude il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posta a fondamento della pretesa fiscale, né l'esercizio di poteri cognitori d'ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo d'impugnazione di atti autoritativi, quale quello amministrativo di legittimità.

Il giudizio dinnanzi alla giurisdizione tributaria, infatti, tende all'accertamento sostanziale del rapporto controverso e l'atto di accertamento costituisce il "veicolo di accesso" al giudizio di merito sul rapporto; ne consegue che, soltanto ove esso sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l'identificazione dei presupposti impositivi e di precludere l'esame del merito del rapporto tributario, come potrebbe avvenire in ipotesi di difetto assoluto o di totale carenza di motivazione, il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, ostandovi altrimenti il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice tributario di avvalersi dei propri poteri valutativi ai fini della decisione. (Cass. civ., sez. trib., 09 ottobre 2009, n. 21446).

Pertanto, a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall'art. 7 D.lg. n. 546/92, perché tali poteri sono meramente “integrativi” e non esonerano la parte processuale dall'onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte (Cass. civ., sez. trib., 28 ottobre 2009, n. 22769).

Le posizioni interpretative del Giudice di legittimità

In ordine all'esercizio ed alla natura dei poteri istruttori d'ufficio dei giudici tributari, la giurisprudenza della Corte di Cassazione nel tempo non è stata del tutto uniforme.

Secondo una parte della giurisprudenza di legittimità, in applicazione dell'art. 7, D.Lgs. n. 546, i giudici tributari di merito sono investiti di amplissimi poteri istruttori d'ufficio, tanto da assumere connotazioni non soltanto di indagine, da esercitarsi qualora dagli atti non risultino sufficienti elementi di giudizio e sempre che le Commissioni non ritengano di averne acquisiti in misura sufficiente, il tutto nei limiti dei fatti dedotti dalle parti (Cass. civ. 13 settembre 2006 n. 19593); ma anche estimativi e sostitutivi, sicché i giudici tributari di merito, avvalendosi dei larghi poteri istruttori, possono acquisire aliunde gli elementi di decisione anche prescindendo dall'accertamento dell'Ufficio e dall'eventuale difetto di prova del suo assunto (Cass. civ. 24 maggio 2006 n. 12327; Cass. civ. 20 gennaio 2006 n. 1135; Cass. civ. 11 gennaio 2006 n. 339).

Espressione di questo primo orientamento giurisprudenziale favorevole ad un esteso uso dei poteri istruttori d'ufficio del giudice tributario deve essere considerata anche la decisione della Corte di cassazione nella quale si afferma che l'acquisizione d'ufficio dei documenti necessari per la decisione costituisce una facoltà discrezionale attribuita alle Commissioni tributarie (nella vigenza della norma) dal comma 3) dell'art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 il cui esercizio, peraltro, non poteva sopperire al mancato assolvimento dell'onere della prova, il quale grava sull'Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale e si trasferisce a carico del contribuente soltanto quando l'Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell'obbligazione tributaria.

Nella specie, la Corte ha aggiunto che, tuttavia, qualora la situazione probatoria fosse stata tale da impedire la pronuncia di una sentenza ragionevolmente motivata senza l'acquisizione d'ufficio di un documento, l'esercizio di tale potere istruttorio si sarebbe configurato come un dovere il cui mancato assolvimento avrebbe dovuto essere compiutamente motivato (Cass. civ., 18 gennaio 2006 n. 905).

Un diverso indirizzo giurisprudenziale teso a ridimensionare e limitare i poteri istruttori d'ufficio delle Commissioni tributarie, interpreta l'art. 7 D.lgs. n. 546 del 1992 (nella parte in cui attribuisce al giudice il potere di disporre l'acquisizione d'ufficio di mezzi di prova) alla luce del principio di terzietà sancito dall'art. 111 Cost. il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti sovvertendo i rispettivi oneri probatori.

Tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un'obiettiva situazione di incertezza, al fine d'integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia (Cass. civ. 17 novembre 2006, n. 24464).

Sempre secondo quest'ultimo “orientamento”, l'onere della prova della pretesa impositiva, che incombe sull'Amministrazione, non può ritenersi assolto attraverso il mero richiamo ad un atto mai acquisito al contraddittorio, per essere la parte pubblica rimasta assente in primo e in secondo grado, non avendo assolto al proprio pregiudiziale onere di deduzione ed allegazione in giudizio.

Di conseguenza al giudice tributario - i cui poteri d'iniziativa istruttoria sono, peraltro, circoscritti dall'art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 546 del 1992nei limiti dei fatti dedotti dalle parti” - non è consentito di condividere le conclusioni contenute in un atto mai sottoposto, nelle forme processualmente stabilite, al suo esame (Cass. civ., 1 febbraio 2006, n. 2203).

In presenza di un mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato, quindi, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall'art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 cit., perché tali poteri sono meramente “integrativi” e non “esonerativi” dell'onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, esclusivamente al fine di sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte.

I mezzi di prova ammessi

Il Giudice tributario dispone oggi dei poteri istruttori espressamente previsti dall'art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, limitatamente ai fatti dedotti dalle parti:

  • facoltà di accesso (analogamente a quanto previsto per gli uffici tributari) che può essere esercitata allo scopo di effettuare rilievi riguardanti lo stato dei luoghi e delle cose che si trovano all'interno dei locali;
  • facoltà di richiedere dati, informazioni e chiarimenti (analogamente a quanto previsto per gli uffici tributari) sia alle parti del giudizio che ai terzi (es: professionisti, pubbliche amministrazioni, banche, ecc.);
  • richiesta di relazioni tecniche alla Pubblica Amministrazione o di rapporti/relazioni alla Guardia di Finanza, nei casi di particolare complessità tecnica (norma speculare a quella prevista dall' art. 213 c.p.c.);
  • nomina di C.T.U. nel qual caso trovano applicazione le norme del codice di procedura civile in materia di consulenze tecniche, ovvero la facoltà delle parti di assistere alle operazioni (art.194, c. 2 c.p.c.) e di nominare un proprio consulente (art. 201 c.p.c), l' obbligo per il C.T.U. di prestare il giuramento (art. 193 c.p.c.) e per le parti di poter ricusare il consulente (art. 192 c.p.c) non sono invece applicabili le disposizioni di cui gli artt. 198,199 e 200 c.p.c., non essendo ammissibile un tentativo di conciliazione delle parti operato dal consulente tecnico di ufficio, considerata la specifica disciplina dell'istituto della conciliazione giudiziale (ex art. 48 D.Lgs. 546/1992) davanti alla Commissione provinciale, non oltre la prima udienza;
  • nonchè il potere di disapplicazione dei regolamenti e degli atti generali eventualmente ritenuti illegittimi.

Le disposizioni dell'art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 sono applicabili anche nella fase di appello: sia per effetto al richiamo alle norme del processo di primo grado contenuto nell'art. 61, sia per applicazione diretta dell'art. 58 dello stesso decreto, che ammette le nuove prove quando esse vengano ritenute necessarie dal giudice.

In conclusione

Di fronte al mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove in forza dei poteri istruttori attribuitigli dall'art. 7 D.lgs. n. 546/1992, perché tali poteri sono meramente “integrativi” e non “esonerativi” dell'onere probatorio principale e vanno esercitati, al fine di dare attuazione al principio costituzionale della parità delle parti nel processo, soltanto per sopperire all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra (Cass. civ., sez. trib., 14 maggio 2007,n.10970; Cass. civ., sez. trib., 16/05/2005 n. 10267).

Nel processo tributario l'art. 7 del D.lg. n. 546 del 1992, in quanto norma eccezionale attributiva di ampi poteri istruttori officiosi alle Commissioni tributarie, tra i quali la facoltà di ordinare il deposito di documenti necessari ai fini della decisione, può trovare applicazione solo quando l'assolvimento dell'onere della prova a carico del contribuente sia impossibile o sommamente difficile e comunque entro l'ambito dei mezzi di prova ammissibili.

Tale indefettibile condizione – come ha rilevato la Cass. civ., sez. trib., 26 febbraio 2009, n. 4589 - richiede, a carico della parte, l'allegazione e l'accertamento della specifica situazione di fatto che, nel caso concreto, abbia reso impossibile o sommamente difficile l'assolvimento dell'onere della prova essendo insufficiente la mera affermazione dell'esistenza del presupposto priva dell'allegazione relativa all'avvenuta sollecitazione del giudice del merito all'esercizio del predetto potere.

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