Rimessione del processoFonte: Cod. Proc. Pen. Articolo 45
28 Luglio 2015
Inquadramento
La rimessione è uno degli strumenti con il quale il legislatore si prefigge lo scopo di assicurare un sereno svolgimento del processo, quale ineliminabile condizione per l'affidabilità del suo esito. In concreto, la considerazione che un processo che si celebri in un contesto ambientale variamente inquinato ne pregiudica gli esiti, ha comportato la previsione dello spostamento del processo in un'altra sede processuale. Le inevitabili implicazioni che vi sono sottese hanno imposto sia di prevedere rigorosamente le situazioni suscettibili di legittimare il trasferimento del procedimento, sia di individuare l'organo competente ad effettuare la valutazione dei presupposti, sia di determinare l'ufficio al quale rimettere il processo. La rimessione è configurata come lo strumento volto ad evitare, tramite una deroga ai normali criteri di determinazione della competenza territoriale, che situazioni locali “esterne” rispetto al processo si ripercuotano con effetti negativi sulla serenità e sull'imparzialità del suo svolgimento. La normativa cerca di assicurare un bilanciamento tra il principio di imparzialità del giudice ed il principio del giudice naturale; tra i due principi prevale quello di imparzialità, anche se il principio del giudice naturale impone la tassatività determinatezza delle ipotesi di rimessione. I casi di rimessione
La situazione “reggente” il disagio ambientale è costituita da “gravi situazioni locali” che rappresentano l'imprescindibile requisito condizionante l'intero meccanismo derogatorio dei criteri di competenza territoriale. Il baricentro pare dunque incentrato sulla valutazione della gravità – da intendersi in termini di “particolare consistenza” – piuttosto che sul “turbamento dello svolgimento del processo”. In altri termini, le situazioni devono essere idonee ad incidere in modo oggettivo e rilevante sulla serenità funzionale del giudice connessa all'ineliminabilità altrimenti delle situazioni locali. Il connotato della gravità si riferisce ad una tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per l'imparzialità del giudice (Cass. pen., Sez. un. 27 gennaio 2003, n. 13687). Il carattere locale si richiama a una diffusione che non investa l'intero territorio nazionale e ad un fenomeno esterno alla dialettica processuale riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge. Secondo l'interpretazione preferibile deve trattarsi di situazioni esterne al processo, radicate nell'”ambiente” che circonda il processo medesimo dovendosi escludere che lo spostamento di competenza possa farsi dipendere da ragioni di tipo soggettivo riguardanti i protagonisti del processo e i loro rapporti personali.
I comportamenti del giudice possono assumere rilevanza, quale effetto delle citate situazioni, ogniqualvolta queste, per il loro carattere oggettivo, siano sicuramente sintomatici della mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario. In altri termini, è il territorio nel quale si radica quel determinato processo che deve essere investito da una situazione di tale gravità da rendere il processo incompatibile con la permanenza in quel luogo. Le indicate situazioni locali si estrinsecano su tre livelli alternativi:
La sicurezza pubblica deve intendersi come “il complesso delle condizioni di pace e di tranquillità sociale su cui la collettività confida quale garanzia della convivenza”, mentre la incolumità pubblica “dovrebbe almeno consentire di restringere il campo alla protezione di pericoli attinenti alla sfera della vita, integrità fisica e salute delle persone”. Il pregiudizio della libertà di determinazione delle persone che partecipano la processo consiste nel condizionamento che queste persone subiscono, in quanto soggetti passivi di una vera e propria coartazione fisica o psichica che incide sulla loro libertà morale. Il legittimo sospetto sarebbe costituito, invece, dal ragionevole dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il giudice a non essere, comunque, imparziale o sereno, con la conseguenza di risolversi in un concetto più ampio del primo. Va ulteriormente precisato che connotato del sospetto deve essere la “legittimità”, così da ancorarne la ricorrenza solo in presenza di dati obiettivi e concreti che consentano di asserire il venir meno della imparzialità del giudice che con la sua naturalità assicurano il “giudice giusto”. I soggetti legittimati
La legittimazione alla formulazione della domanda spetta al P.G. presso la Corte d'appello, al P.M. presso il giudice procedente ed all'imputato, con esclusione, quindi, del difensore di quest'ultimo. Questi potrà formulare la richiesta solo in quanto munito, ai sensi dell'art. 46, comma 2, c.p.p., di una procura speciale. È altresì esclusa la titolarità del P.G. presso la Corte di cassazione. Nel caso in cui trattasi di un procedimento instaurato per uno dei reati di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. la legittimazione spetterà al P.M. che effettivamente svolge le funzioni presso il giudice competente, come eventualmente disposto dal P.G. presso la Corte d'appello ex art. 51, comma 3-ter e quater,c.p.p..
I profili cronologici
La richiesta di rimessione può essere presentata “in ogni stato e grado del processo di merito”: conseguentemente, dovrà escludersi l'operatività dell'istituto nelle indagini preliminari (Cass. pen., Sez. un., 27 gennaio 2003, n. 13687) e per il giudizio di cassazione e dovrà ammettersi per le fasi propriamente giurisdizionali connesse all'esercizio da parte del P.M. dell'azione penale in uno dei modi previsti dall'art. 405 c.p.p.; in sede di giudizio di rinvio e di revisione e, non senza contrasti, in sede di esecuzione e sorveglianza nel processo di prevenzione. Premesso che il presupposto dell'inerenza della richiesta alla fase del processo di merito deve obbligatoriamente sussistere al momento della decisione della Cassazione, è ammissibile la richiesta presentata all'udienza preliminare ovvero a seguito della richiesta di giudizio immediato.
I profili formali della richiesta
La richiesta deve essere prodotta in forma scritta e motivata. Quella dell'imputato, in particolare, deve essere sottoscritta da lui personalmente o da un suo procuratore speciale. Nessuna formalità è invece prevista per il deposito, con i documenti di supporto, nella cancelleria del giudice, potendo essere effettuato sia da persona diversa dal richiedente che a mezzo posta, previa certificazione della firma mediante autenticazione. La domanda deve essere notificata entro sette giorni a cura del richiedente alle altre parti. Come osserva la dottrina la notificazione non si estende ai documenti allegati e garantisce l'effettiva attuazione della garanzia del contraddittorio nel procedimento di rimessione, tanto da dover essere esteso anche alla persona offesa, ancorché non costituita parte civile, in quanto titolare di un interesse ad un corretto svolgimento del processo. Ancorché quest'ultimo adempimento non sia più sanzionato con l'improponibilità della richiesta fondata sugli stessi motivi, ma solo con la sanzione dell'inammissibilità, resta da ribadire, per quanto il termine sia stato allungato da cinque a sette giorni, la difficoltà per l'imputato di conoscere i nomi di tutte le altre parti. Il riferito adempimento della notificazione è ora imposto anche al P.M. richiedente. Anche il P.M. deve provvedere a depositare la richiesta con i documenti a suo sostegno nella cancelleria del giudice, il quale provvederà ad inoltrarli immediatamente alla Corte di cassazione, allegandovi, ove lo ritenga opportuno, le sue osservazioni. Sotto quest'ultimo profilo, l'invio è ritenuto “irrituale” e, comunque, tollerato dalla giurisprudenza anche se va esclusa la ricorrenza dell'inammissibilità dell'istanza nel caso in cui il giudice del procedimento principale non provveda.
Il giudice di merito, al quale sia stata presentata richiesta di rimessione per legittimo sospetto non può dichiararne l'inammissibilità per manifesta infondatezza, anche quando ne appaia palese la pretestuosità o per inosservanza delle forme dettate dal codice in materia, pena la nullità dell'ordinanza, in quanto la relativa valutazione è riservata esclusivamente alla Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. un., 12 maggio 1995, n. 6925). Gli effetti della richiesta
Giustificato dalla necessità di un equilibrio tra le esigenze di garantire il regolare svolgimento del processo e la necessità di precludere iniziative pretestuose, tese a paralizzare gli sviluppi procedimentali, l'art. 47 c.p.p., in linea con quanto precisato dalle Corte cost. n. 353/1996 e n. 5/1997, regola gli effetti della richiesta di rimessione. In via generale, si prevede che la richiesta di rimessione non determina la sospensione del procedimento, in quanto deve ritenersi una “costante” legislativa che la mancanza di termini entro i quali proporre la richiesta di spostamento del processo implichi il naturale sviluppo della vicenda processuale. Invero, solo la fissazione di termini entro i quali far valere i motivi di rimessione appare correlata all'interruzione del giudizio in attesa della decisione sulla fondatezza della richiesta. Tuttavia, l'equo contemperamento delle segnalate esigenze è ricondotto al potere di sindacato del giudice, cui spetta la facoltà di sospendere il processo fino a quando non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta. Configurato quale potere lato sensu di natura cautelare il relativo potere risulta condizionato dal fumus boni iuris (inteso quale apparente fondatezza della richiesta) e dal periculum in mora (valutato come effettiva necessità di sospendere il processo per evitare che il suo proseguimento possa pregiudicare il seguito processuale), da esercitarsi in situazioni di tale evidenza da far presupporre l'accoglimento dell'istanza. Il provvedimento è assunto de plano, in quanto diretto a paralizzare con urgenza il pregiudizio imminente e irreparabile, che potrebbe derivare dall'illegittima prosecuzione del processo principale. L'adozione del provvedimento sospensivo trova fondamento nell'esigenza di scongiurare tempestivamente il pregiudizio imminente ed irreparabile che potrebbe derivare dall'illegittima prosecuzione del processo in costanza del procedimento di rimessione.
Resta confermato che i giudici del Supremo Collegio, considerati gli elementi addotti dalle parti e quelli assunti direttamente (art. 48, comma 1., c.p.p.), possano disporre con ordinanza la sospensione del processo. Un limite all'esercizio del potere de quo deriva dall'ipotesi che il processo sia già stato dichiarato sospeso a mente del comma 1 dell'art. 47 c.p.p., nella parte in cui prevede “comunque” la sospensione obbligatoria del processo. Invero, fra i possibili effetti della richiesta, un dato significativo è rappresentato dalla previsione di una sospensione obbligatoria del processo prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione con conseguente impossibilità di emettere il decreto che dispone il giudizio ovvero di pronunciare sentenza, da parte del giudice che riceva “notizia” che la richiesta è stata assegnata alle Sezioni unite o ad una sezione semplice diversa dalla sezione filtro (art. 48, comma 3, c.p.p.). Parimenti alla sospensione facoltativa, l'effetto non preclude il compimento degli atti urgenti e termina quando “interviene” l'ordinanza che rigetta o dichiara inammissibile la richiesta (Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2003, n. 14451).
Il processo seguirà il suo corso nel caso in cui la richiesta venga invece assegnata alla sezione filtro. Quindi tutto dipende da un corretto ed oculato esercizio preliminare da parte del Presidente della Cassazione. Invero, in tal caso, la legge non prescrive alcun obbligo di notizia in capo al Presidente per cui, fatto salvo il caso di una sospensione facoltativa ex art. 47, comma 1, c.p.p., il giudice potrà emettere il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare e del dibattimento; il pregiudizio nel quale potrebbe incorrere avrebbe forse reso opportuna l'adozione di un meccanismo d'informazione analogo a quello previsto per le altre ipotesi, per cui il giudice deve valutare con estremo rigore le condizioni di cui all'art. 47, comma 2, c.p.p. Sempre al fine di evitare un uso strumentale dell'istituto, limitando le ricadute negative derivanti dalla stasi del processo, si prevede che la sospensione della prescrizione del reato, deducibile, peraltro, in via interpretativa ex art. 159 c.p. nel caso della sospensione e nell'eventualità in cui la richiesta venga formulata dall'imputato, determini la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare. La sospensione del corso della prescrizione appare rivolta a compensare l'eventuale stasi dell'attività processuale che verrebbe a determinarsi tanto a seguito della sospensione per decisione discrezionale del giudice procedente o della Corte di cassazione, quanto nel caso in cui la sospensione sia stata obbligatoriamente imposta ai sensi dell'art. 47, comma 2, c.p.p.
In merito all'effetto sospensivo dei termini di custodia cautelare va fatto notare che esso non discende dall'applicazione analogica dell'art. 304 c.p.p., bensì direttamente dall'art. 47 c.p.p., che rappresenta una norma speciale. Invero, tale ultima norma prevede espressamente che se la richiesta viene proposta dall'imputato, i termini di cui all'art. 303, comma 1, c.p.p. sono sospesi. Conseguentemente, a differenza delle ipotesi contemplate nell'art. 304 c.p.p., l'effetto sospensivo dei termini di custodia non è ricollegabile ad una decisione del giudice, censurabile ex art. 310 c.p.p., ma direttamente dalla legge. Si fa notare, peraltro, che così configurata, la previsione prospetta una sorta di imputabilità del ritardo a carico dell'imputato richiedente di cui viene fermato il tempo della carcerazione. Atteso il richiamo alla “compatibilità” delle disposizioni dettate dall'art. 304 c.p.p., si ritiene che la regola mutuabile è quella dell'adozione del provvedimento e della sua impugnabilità. L'ordinamento appresta, dunque, un controllo sull'iniziativa dell'imputato per ponderarne il fumus di serietà, incidendo sul suo diritto alla scarcerazione, diversamente da quanto prevede l'art. 303, comma 2, c.p.p. il quale non “copre” i tempi morti, operando semplicemente un ricalcolo dei termini rispetto a ciascun stato o grado a far data dal provvedimento che dispone il regresso o il rinvio, mentre sarebbe stato più opportuno riferirsi alla pronuncia di accoglimento.
Una diversa conclusione è prospettata dalla Cassazione. Il dies a quo della sospensione va individuato nel momento della sospensione del processo principale da parte del giudice, nei casi facoltativi, ovvero della Cassazione nei casi obbligatori, e non in quello della richiesta, creando, tuttavia, un'antinomia con il sistema dell'art. 159 c.p. nella parte in cui fa derivare tale conseguenza processuale da “una particolare disposizione di legge” e non da un provvedimento giurisdizionale attraverso il quale si può determinare discrezionalmente il tempo occorrente per la prescrizione del reato. La legge individua, con precisione, per entrambi i fenomeni (prescrizione e termini massimi di custodia) il termine finale: esso è ancorato al giorno in cui la Cassazione rigetta o dichiara inammissibile la richiesta, vale a dire al momento della delibazione, in caso di esito negativo della richiesta incidentale.
Il procedimento camerale e la decisione della Cassazione
La domanda, come anticipato, è oggetto di un primo vaglio, imposto per esigenze organizzative e per omogeneizzare la giurisprudenza, affidato al presidente della Corte di cassazione, al quale spetta determinare se la richiesta possa o meno essere assegnata alla sezione di cui all'art. 610 c.p.p. A tale sezione andranno trasmesse le richieste affette da una causa di inammissibilità (artt. 45, 46, comma 4, e 49, comma 3, c.p.p.). Scartata la necessità di operare l'assegnazione a tale peculiare Sezione, alla trasmissione presso altra Sezione della Corte (Sezioni unite o Sezione diversa da quella c.d. filtro) si accompagna l'immediata notizia al giudice che procede secondo canoni di tempestività, onde consentirgli di operare la sospensione obbligatoria a mente dell'art. 47 c.p.p. Il procedimento si svolge con il rito camerale: le parti interessate ed i difensori devono essere avvisati dell'udienza fissata. Trattasi segnatamente dei difensori delle parti private e il P.G. Alle parti deve, inoltre, riconoscersi la facoltà di chiedere di essere sentite se compaiono, senza, peraltro, che una tale previsione si ponga in contrasto con gli artt. 613, comma 1, e 614, comma 2, c.p.p., secondo cui davanti alla Corte le parti sono rappresentate dai difensori. La forma camerale rappresenta la modalità più idonea ad assicurare la garanzia del contraddittorio, ferma restando la possibilità che la decisione della Cassazione possa basarsi, peraltro, non solo sul materiale introdotto dalle parti e sulle eventuali osservazioni fatte pervenire dallo stesso giudice “sospetto” anche in un momento successivo (con riferimento al p.m. v. Cass. pen., Sez. un. 27 gennaio 2003, n. 13687) ma anche sulle informazioni che essa reputa opportuno acquisire, purché funzionali ad una più meditata decisione. Devono evidenziarsi gli elementi indispensabili alla decisione. Posto che in materia di rimessione del processo la Cassazione è giudice anche del fatto, ben potrà esercitare poteri d'ufficio di ricerca della prova dell'effettiva esistenza dei presupposti legittimanti la rimessione, relativamente ai quali le parti sono tenute, invece, ad un mero onere di allegazione, e, ai fini di una più meditata decisione, procedere ad acquisire le opportune informazioni, tra le quali non sono ricompresi gli atti finalizzati all'eventuale esercizio dell'azione disciplinare da parte del Ministero della giustizia. La sospensione del processo concesso alla Corte dall'art. 47, comma 1, c.p.p. potrà essere disposta de plano e non in forma camerale. Le decisioni della Cassazione possono essere di rigetto, di inammissibilità o di accoglimento. Il rigetto della richiesta si fonda sull'assenza delle condizioni previste dalla legge per lo spostamento della competenza; l'inammissibilità si richiama all'assenza dei requisiti di forma (art. 46, commi 1 e 2, c.p.p.); la manifesta infondatezza deve intendersi integrata allorché risulti palese la non rispondenza della situazione concreta dedotta dal richiedente alle ipotesi delineate in via astratta dall'art. 45 c.p.p. ovvero qualora risulti integrata la situazione di cui all'art. 49, comma 3, c.p.p. perché la nuova domanda non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli già valutati in una ordinanza che ha rigettato o dichiarato inammissibile una richiesta proposta da altro imputato dello stesso procedimento o di un procedimento da esso separato.
La decisione di accoglimento sarà inviata sia al giudice procedente sia al giudice designato ai sensi dell'art. 11 c.p.p., a quello, cioè, ugualmente competente per materia avente sede nel capoluogo del distretto determinato dalla legge, affinché – anche attraverso una eventuale presa di contatto diretta – gli atti del processo siano al più presto tramessi nella nuova sede giudiziaria. Allo stesso fine il giudice procedente provvederà a comunicare al P.M. ed a notificare alle parti private l'ordinanza de qua. Il legislatore prevede che nonostante compiuti da un giudice riconosciuto suspectus, gli atti posti in essere anteriormente sono assistiti da una presunzione, sia pure relativa di efficacia. Si ritiene, infatti, che essi, sebbene realizzati in una sede ufficialmente screditata per il riconosciuto clima di diffidenza in cui s'è operato, ne sono usciti, nondimeno indenni.
Nel caso della ripresa del dibattimento, il giudice designato dalla Cassazione sarà obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale ogniqualvolta le parti abbiano formulato la relativa istanza, salvo il limite oggettivo dell'irripetibilità e quello più delicato configurato all'art. 190-bis c.p.p. La rinnovazione andrà espletata in ossequio a quanto stabilisce l'art. 190 c.p.p. e per espresso richiamo all'art. 190-bis c.p.p. con riguardo ai delitti ed alle condizioni ivi indicate. Non va escluso in capo al nuovo giudice il potere di purgazione degli atti, influenzati dai fenomeni di turbativa ambientale giudizialmente accertati, risultando inconferenti le due situazioni evocate quali eccezioni alla regola generale rispetto al tema degli effetti inquinanti dovuti alla patologia ambientale. Va ricordata la regola secondo la quale lo spostamento del processo non deve pregiudicare i “particolari” diritti delle parti acquisiti nella sede originaria. La disposizione, di portata generale, capace di coprire ogni altra situazione omologabile, va coordinata, su di un piano più particolare, all'art. 109 c.p.p. quale norma che tutela i diritti linguistici dei gruppi minoritari, condizionati dalle regole di applicazione territoriale alla quale occorre riferirsi ai fini dell'individuazione del concetto di “parti” annoverato dall'art. 48, comma 5, c.p.p. L'ordinanza di rimessione vale rebus sic stantibus fino a quando mutino le premesse che hanno determinato l'accoglimento; infatti è prevista la possibilità di formulare la richiesta di revoca dell'ordinanza che ha disposto la rimessione ogniqualvolta le condizioni ambientali della naturale sede processuale non presentino più quei caratteri inquinanti che avevano condotto alla favorevole decisione da parte del Supremo Collegio. È altresì possibile che i soggetti legittimati, P.M. ed imputato, chiedano la designazione di un nuovo giudice, quando la sede individuata ex art. 11 c.p.p. riproponga le stesse (o altre) condizioni ambientali tali da renderla inidonea alla celebrazione del processo. Su di un altro piano si colloca la previsione di una nuova richiesta. Al fine di evitare iniziative pretestuose la materia è regolata da previsioni specifiche. La questione della reiterazione delle domande pretestuose, dallo scopo squisitamente dilatorio, è affrontata dalla legge, sulla scorta dell'esperienza maturata dell'inammissibilità di una nuova richiesta ogniqualvolta essa sia stata preceduta dall'ordinanza di rigetto o d'inammissibilità per manifesta infondatezza. Conseguentemente il legislatore ha previsto che l'ordinanza di rigetto e quella di inammissibilità per manifesta infondatezza non escludano la possibilità d'una nuova richiesta fondata su elementi nuovi (si veda, prima della riforma, Cass. pen., Sez. V, 8 marzo 1995, per la quale la revoca è consentita solo allorquando sopravvengono rispetto a tale provvedimento fatti modificativi dell'originaria situazione (intendendosi come tali fatti nuovi sopravvenuti o fatti ignorati dal giudice, perché non acquisiti agli atti del procedimento e non anche nuove prove relative a fatti preesistenti), mentre la declaratoria di inammissibilità per altra ragione, consente di ripresentare la domanda anche se questa sia fondata sulle medesime ragioni. Il richiamo agli “elementi”, quale entità concettuale dotata di carattere probatorio inferiore rispetto a quello della prova, quindi non corredata di un potenziale storico-rappresentativo pregnante o particolarmente complesso, lascia intendere come non siano richiesti specifici accadimenti, valendo a quel fine ogni fonte conoscitiva che consenta, anche unitamente agli elementi già valutati, di accertare la sussistenza delle ragioni fondanti la rimessione; la “novità”, dal canto suo, va legata ai fatti sopravvenuti e a quelli preesistenti, incolpevolmente ignorati. La valutazione del novum appare funzionale ad eliminare a monte le conseguenze processuali che richieste infondate e routinarie potrebbero determinare. Ne consegue l'estensione anche nel caso in cui gli elementi nuovi siano assenti nella domanda presentata dal coimputato.
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