Eccezione in generale
28 Ottobre 2016
Inquadramento
Eccezione è qualsiasi richiesta che abbia, in senso lato, la funzione di contrastare la domanda dell'attore (o della controparte in genere). È proponibile in primo luogo dal convenuto, ma anche dall'attore che, a sua volta convenuto in riconvenzionale, intenda proporre ragioni a sua difesa che possano impedire l'accoglimento della domanda. In particolare, rispetto alla domanda dell'attore, il convenuto (oltre che formulare domanda di accertamento incidentale o proporre domanda riconvenzionale) può: 1) limitarsi a contestare la sua fondatezza sul presupposto dell'inesistenza dei fatti costitutivi (nel senso che il fatto storico non si è verificato o si è svolto con modalità diverse da quelle prospettate ex adverso) o della disposizione di legge (nel senso che essa manca o contiene una disciplina diversa da quella indicata dall'attore): siamo nell'ambito della mera difesa; 2) proporre eccezione, introdurre cioè, come si esprime con grande chiarezza l'art. 2697 c.c. (cfr. anche art. 2734 c.c.), fatti estintivi, modificativi, impeditivi del diritto dedotto in giudizio al fine di conseguire il rigetto della domanda. Va ricordato, inoltre, che a seguito della novellazione del comma 2 dell'art. 115 c.p.c. con l. 69/2009, nel caso in cui il convenuto non prenda posizione sui fatti costitutivi dedotti dall'attore, viene a configurarsi un tipico comportamento di non contestazione, avente rilevanza sul piano probatorio. La contrapposizione tra fatti costitutivi, da un lato, e fatti estintivi e modificativi dall'altro si fonda sul fatto per cui i secondi si verificano in un momento temporale successivo rispetto al compiersi dei primi, laddove molto più difficoltosa è l'opera volta a distinguere i fatti costitutivi da quelli impeditivi, sebbene in astratto il fatto impeditivo ben può essere definito come «fatto costitutivo a segno invertito». Occorre distinguere tra mera difesa, che è la contestazione dei fatti costitutivi, ed eccezione, rilevabile d'ufficio o su esclusiva iniziativa di parte, che è il fatto estintivo, modificativo ed impeditivo rispetto al fatto costitutivo dedotto dall'attore a fondamento della propria domanda. La distinzione rileva sul piano dell'onere della prova, ma anche, e prima ancora, sul piano della allegazione, entro le rigide preclusioni da cui è connotato il processo ordinario di cognizione (cfr. art. 183 c.p.c.), il processo regolato dal rito del lavoro (art. 416 c.p.c.) ed il processo di appello (v. art. 345 c.p.c. ed art. 437 c.p.c. per l'appello lavoro; v. Cass. civ., sez. lav., 04 maggio 2011, n. 9769).
La suddetta distinzione emerge dall'espresso tenore dell'art. 112 c.p.c., che sembra porre come principio generale quello per cui il giudice ha un potere generale di rilevare d'ufficio le eccezioni, salvo che una espressa previsione di legge riservi alla parte il rilievo dell'eccezione stessa, nonché dagli artt. 416, 167 e 345 c.p.c.
Dottrina e giurisprudenza, poi, hanno a lungo dibattuto in ordine alla possibilità di dare concretezza alla distinzione tra le due tipologie di eccezione anche in difetto di espressa previsione normativa, cercando cioè di rintracciare dei criteri per dare contenuto alla previsione, “in bianco”, contenuta nell'art. 112 c.p.c. Alcuni commentatori si sono espressamente chiesti se davvero, nel silenzio del legislatore, debba sempre essere affermata la rilevabilità d'ufficio del fatto estintivo, modificativo, impeditivo. La risposta a tale interrogativo risulta da recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., 5 giugno 2014, n. 12677), ove viene espressamente affermato che in difetto di espressa previsione di legge, l'eccezione deve essere intesa come eccezione in senso lato. Nei suoi passaggi salienti, la sentenza sopra citata rileva come a partire da Cass. civ., sez. un., n. 1099/1998 si è dipanato un orientamento giurisprudenziale, sorretto dalla dottrina, che ha ritenuto che il regime normale delle eccezioni sia quello della rilevabilità d'ufficio, restando limitato l'ambito delle eccezioni in senso stretto, rilevabili a istanza di parte, solo ai casi specificamente previsti dalla legge (es. la prescrizione), ovvero a quelli in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un'azione costitutiva (es. eccezione di annullamento). Le sentenze delle Sezioni Unite successive (Cass. civ., sez. un., n. 226/2001; Cass. civ., sez. un., n. 15661/2005; Cass. civ., sez. un., n. 4213/2013 e Cass. civ., sez. un., n. 10531/2013) si sono fatte carico di ribadire e precisare il suddetto principio fondamentale, progressivamente riconducendo al novero delle eccezioni in senso lato alcune eccezioni di grande rilievo (eccezione di giudicato, controeccezione di interruzione della prescrizione, eccezione di accettazione beneficiata dell'eredità). Sulla scia di questi insegnamenti, il criterio del prevalente interesse della parte a far valere l'eccezione non può più essere considerato sufficiente a trasferire dal regime normale della rilevabilità di ufficio, a quello eccezionale della rilevabilità a cura di parte, il rilievo di un fatto risultante ex actis che dalla fonte normativa sia posto come ostacolo all'accoglimento della domanda. Segue: Casistica
Eccezioni di merito ed eccezioni di rito
Si suole ulteriormente distinguere tra eccezioni sostanziali o di merito ed eccezioni processuali (dicitura questa espressamente contenuta negli artt. 167 e 416 c.p.c.) o di rito. Tra le eccezioni di merito, oltre a quelle di cui si è già parlato (e cioè le eccezioni in senso lato, mere difese, semplici negazioni della fondatezza della pretesa avversaria, ed in senso stretto, con cui si deducono fatti diversi da quello costitutivo, cioè fatti modificativi, estintivi o impeditivi, con onere in capo a colui che li allega di provarli perché entrano a far parte del thema decidendum), vanno ricordate quelle che dottrina e giurisprudenza definiscono eccezioni dilatorie o sospensive, in quanto consentono alla parte la sospensione della sua prestazione, e che soprattutto si identificano nella eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e nell' eccezione fondata sul disposto dell'art. 1461 c.c. (“Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti”). Le eccezioni di rito sono invece quelle con cui il proponente chiede che venga dato rilievo a un motivo di invalidità del processo o di inammissibilità del giudizio (ad esempio, il difetto di giurisdizione o l'incompetenza). In altre parole, dunque, oggetto di eccezione può anche essere la mancanza di elementi o presupposti che consentano una definizione nel merito del processo ovvero la carenza di requisiti formali nell'atto; se l'eccezione di merito tende sempre e solo al rigetto della domanda proposta dall'attore, l'eccezione processuale o di rito tende ad una pronuncia che può essere di vario contenuto e con conseguenze diverse sotto il profilo del regime della sentenza. Il regime delle eccezioni di rito è differenziato, nel senso per cui talune devono essere proposte entro precisi termini di decadenza e preclusione (si pensi per es. all'eccezione di incompetenza ex art. 38 c.p.c.), laddove altre sono rilevabili d'ufficio in ogni stato o grado del processo (eccezione di difetto di giurisdizione, di litispendenza, di estinzione). Oggetto di particolare dibattito ed approfondimento in sede giurisprudenziale sono tuttora le eccezioni di difetto di legittimazione (attiva e passiva), cui ora la recente (e già sopra citata) giurisprudenza della Cassazione affianca, distinguendola, la eccezione di difetto di titolarità, nonché le eccezioni di giudicato. Sotto il primo profilo va ricordata la già menzionata sentenza Cass. civ., sez. un., 16 febbraio 2016, con cui le Sezioni Unite hanno precisato che la titolarità del diritto o di una obbligazione è questione attinente al merito, essendo elemento costitutivo della domanda che va allegato e provato dall'attore; ne consegue che la contestazione o la negazione di tale titolarità da parte del convenuto costituisce mera difesa, proponibile in ogni stato e grado del giudizio. Viene così affermata una distinzione concettuale rispetto alla legitimatio ad causam, attinente al diritto processuale ad agire in giudizio e costituente invece eccezione di rito (peraltro anch'essa rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio). Relativamente alla eccezione di giudicato si segnala anzitutto Cass. civ., 12 luglio 2013, n. 17261, che espressamente ricorda come la giurisprudenza di legittimità sia «fermissima nel ritenere che l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio (perfino nel giudizio di cassazione) sia qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, sia nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata” e ciò in quanto “si tratta di un elemento che non può essere incluso nel fatto, perchè, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici e perchè, dunque il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del "ne bis in idem", corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (Cass. civ., sez. un., n. 13916/2006; Cass. civ., sez. un., n. 24664/2007; Cass. civ., sez. un., n. 26041/2010; Cass. civ., sez. un., n. 16675/2011; Cass. civ., sez. un., n. 12159/2011)». In altra più recente pronuncia, tuttavia, la Suprema Corte mostra di valorizzare l'eccezione di giudicato anche come eccezione di parte, pervenendo ad affermare il seguente principio: “L'eccezione di giudicato esterno, rilevabile di ufficio anche in sede di legittimità, postula, ove sia formulata dalla parte, che quest'ultima, giusta l'art. 2697 c.c., comma 2, non si limiti alla mera allegazione della decisione da cui intende trarre giovamento, ma deduca, in modo specifico ed autosufficiente, che la materia del contendere oggetto del processo in corso sia coperta, in tutto o in parte, dal giudicato formatosi in altro, precedente, giudizio “ (Cass. civ., 13 giugno 2014, n. 13475). Eccezione e domanda riconvenzionale
A differenza della mera difesa o delle eccezioni che tendono solo a far rigettare la pretesa attorea e non ampliano l'oggetto del processo, la domanda riconvenzionale è un'autonoma azione peraltro connessa al titolo dedotto in giudizio dall'attore (Cass. civ., 20 dicembre 2011, n. 27564), con cui il convenuto, ampliando il thema decidendum, chiede l'emissione di un provvedimento a sé favorevole e sfavorevole alla controparte. Un tertium genus tra queste figure è quello della cd. eccezione riconvenzionale, con la quale la parte introduce in giudizio una situazione incompatibile con l'oggetto della domanda ma solo scopo di ottenerne il rigetto. Pertanto, l'elemento distintivo tra eccezione riconvenzionale e domanda riconvenzionale va individuato nel fine che il deducente si propone, come manifestato dal contenuto della sua domanda processuale: se la parte si limita a richiedere il rigetto della domanda attorea si è in presenza di un'eccezione, se invece tende ad un risultato concreto diverso ed ulteriore si è in presenza di una domanda riconvenzionale (v. Cass. civ., 15 aprile 2010, n. 9044; Cass. civ., 24 luglio 2007, n. 16314; Cass. civ., 10 gennaio 1981, n. 246). Riferimenti
FINZI, Il possesso dei diritti, Milano, 1968; ORIANI, voce “Eccezione”, in Digesto disc. Privatistiche, VII, Milano 1998, 280 ss.; SACCCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, RDC, 1957, I, 399; VERDE, voce “Prova in generale”, in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1988, 629 ss. |